Elia

La storia del profeta Elia è scritta in parte nel Primo libro dei Re (capp. 17,18,19,21) per poi passare al Secondo libro dei Re (capp. 1 e 2). Esercitò il suo ministero nel regno del nord sotto i re Acab, Acazia e Joram circa dall’874 all’841 a.C.

È uno dei quattro personaggi dell’A.T che maggiormente vengono citati nel Nuovo (gli altri sono Abramo, Mosè e Davide). È il profeta che comparirà alla fine dei tempi, subito prima della venuta del Messia.

Il suo nome (Eli-yahu) significa “mio Dio è Jahvé”. Egli è completamente assorbito e guidato dal pensiero che Dio è Dio, e niente può reggere il paragone, niente può resistere a Dio. Elia è per eccellenza il profeta del “Dio solo”, il difensore della vera religione contro l’idolatria.

1 Re 19, 1-8

1 Acab riferì a Gezabele ciò che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti. 2 Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: «Gli dei mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso te come uno di quelli». 3 Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Là fece sostare il suo ragazzo. 4 Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». 5 Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: «Alzati e mangia!». 6 Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. 7 Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». 8 Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

Elia aveva appena trionfato sui profeti di Baal, sia col miracolo che con la violenza guerriera che li aveva sterminati. Inoltre aveva previsto la pioggia (come aveva previsto la siccità) e tramite la sua preghiera la pioggia era poi caduta a dirotto. Dopo, in un impeto di coraggio, si era messo a correre a piedi davanti al veloce carro di re Acab, e aveva battuto i cavalli giungendo per primo alla reggia. Aveva cioè dimostrato di avere un coraggio straordinario. Eppure qui, impaurito, fugge. E a prima vista questo suo gesto è del tutto inspiegabile. Fugge quasi fosse non un vincitore, ma un vinto, un perdente.

L’esperienza ci insegna che spesso il colmo del successo prelude ad un crollo nervoso (penso che molti abbiano provato la cosiddetta “depressione post-esame”, o anche alla famosa, ma reale, “depressione post-partum”). Al profeta è molto probabile che sia avvenuto qualcosa di simile.

Notiamo anche che denota una notevole ingenuità, perché non capisce che se Gezabele avesse voluto realmente ucciderlo, non gli avrebbe mandato un messaggero. Quando un re intendeva commettere un omicidio mandava direttamente un sicario, non un messaggero!

Il testo ci dice che “Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi”. La fuga del profeta è dovuta alla paura della morte, cioè al sentimento più istintivo e egoistico dell’uomo. Un sentimento irrazionale, a volte invincibile, proprio di ogni animale, ma che qui diventa anche un’occasione provvidenziale di recupero da parte del Signore.

Dio interviene nel momento della paura, del crollo nervoso, del cedimento psicologico, della maggiore umiliazione di di Elia. Questo perché il Signore sa sempre come riportarci a casa e come ricostruirci con amore. Dio non teme e non si lascia fermare da nessuno dei mali del mondo, da nessun peccato, non lo fermano neppure le nostre paure, che anzi spesso trasforma in un’occasione di recupero del rapporto e di salvezza.

Un’altra osservazione: nella fuga Elia era accompagnato da quello stesso ragazzo che sul Carmelo aveva per primo visto la nuvola annunciatrice di pioggia. Ma ad un certo momento non sopporta più neanche la sua presenza. È giunto al sommo dello sconforto e della prostrazione. Ci sono dei momenti in cui l’angoscia è tanto grande che non si riesce più a condividerla con nessuno, soltanto la solitudine può lasciarla maturare nell’attesa che il Signore intervenga.

Lasciato nella cittadina il servitore, Elia continua ad andare avanti nel deserto, e sembra procedere come un automa, preoccupato solo di fuggire il più lontano possibile da Gezabele. Dopo aver camminato a lungo, senza mangiare, si getta a terra e si dichiara vinto: “Ora basta, Signore!”. Sono parole molto simili a quelle di Simeone: “Ora lascia, o Signore, che il tuo serva vada in pace secondo la tua parola” (Lc 2,29), ma il significato è del tutto contrario! Mentre Simeone esprime il suo abbandono alla morte come colui che ha raggiunto la pienezza della speranza, Elia invece sembra dire che non ne può più, che sente il massimo della delusione. Si sente deluso dal Signore, ma soprattutto da sé stesso. Questo è uno stato d’animo che ha non pochi paralleli nella Bibbia. Lo troviamo in Mosè (Nm 11,14-15), Tobia (Tb 3,1.6), Giobbe (Gb7,14-16), Paolo (2Cor 1,8-9), ma anche in Gesù (Mt 26, 38). Ma c’è una notevole differenza tra Elia e gli esempi citati: Elia in questo momento non prega, ma si lascia sopraffare dal sonno e dalla tristezza.

Però Dio, nonostante tutto, consola il suo servo. Qui la consolazione viene mediata da un angelo, e con parole che trovano una risonanza anche in alcuni passi del N.T, come nell’episodio di Pietro in prigione (At 12,7), e Gesù stesso, durante l’agonia nell’orto viene consolato da un angelo (Lc 22,43).

Attraverso il cibo, l’acqua e il sonno, Elia a poco a poco viene guarito dal suo esaurimento depressivo. Risplende qui la pedagogia di Dio verso l’uomo: mediante il sonno e il cibo, senza rimproveri ma con amore lo cura adagio adagio, invitandolo a lasciarsi ristorare. Il Signore consola sempre con amore, non deprime i suoi servi amareggiati con parole severe del tipo: perché ti sei comportato così? non ti vergogni della tua paura, tu che sei il mio profeta? perché hai dubitato di me?

Tutto questo aiuta Elia a prendere coscienza del fatto fondamentale che il suo fuggire impazzito aveva, nella mente di Dio, una meta. Oltre al ristoro fisico, Dio lo rinfranca anche attraverso un obiettivo da raggiungere, un dovere da compiere, un cammino da percorrere anche se la meta è lontana.

Probabilmente Elia intuisce che questa meta è dove è nato il primo patto, dove Jahvé ha dato forza a Mosè: l’Oreb, o Sinai. Questo trasforma la sua fuga, non in un tradimento, ma in una ricerca delle origini del monoteismo, un ritorno alle sorgenti della fede di Israele. È cioè una rinascita, una rigenerazione, per ricominciare di nuovo dal luogo in cui avevano incominciato gli antichi padri, il monte santo di Dio.

Così letteralmente ricreato, Elia parte per il monte. E proprio la menzione dei quaranta giorni e quaranta notti di cammino, lo assimilano sempre più a Mosè (cfr. Es 24,18).

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