La fede: dono che dobbiamo sempre rinnovare

I motivi che ci hanno portato a scegliere una lettera di Paolo come filo conduttore per quest’anno sono vari. Innanzi tutto il fatto che in genere proprio le lettere (e in particolare quelle paoline) sono la parte della Bibbia più sconosciuta, ancora di più dell’Antico Testamento. Poi la necessità, al quarto anno dei nostri incontri, di affrontare qualcosa di più approfondito, qualcosa che ci aiutasse a vivere una fede maggiormente matura. La scelta è caduta sulla Seconda lettera a Timoteo anche in considerazione del fatto che offre molti spunti pratici, in modo da avere anche un aggancio con la Pastorale Giovanile Diocesana. Avendo poi il papa Benedetto XVI proclamato quest’anno come l’anno di san Paolo, c’è una motivazione in più.

Le due lettere a Timoteo e quella a Tito costituiscono le cosiddette “lettere pastorali”, perché sono indirizzate a pastori e trattano di quella che noi oggi chiamiamo ‘pastorale’. Non dibattono i grandi temi teologici delle altre lettere, sono più, diciamo così, intime, personali, ma sono ugualmente importanti, e nel corso dei prossimi incontri ne scopriremo anche il perché.

Chi era Timoteo?

Timoteo, vescovo di Efeso, era uno dei principali vescovi della seconda generazione. Il NT ci offre molte notizie su di lui, a partire dal suo primo incontro con Paolo (At 16,1-3). In seguito Timoteo sarà sempre vicino all’Apostolo, per quindici anni fedele collaboratore e suo delegato in varie missioni (1Ts 3,1 e ss.; At 17,14; At 18,15; At 19,22; At 20,4; 1Cor 4,17; 2Cor 1,19). Avrà quindi modo di comprenderne profondamente sia il messaggio che lo spirito, difatti le parole di affetto e profonda stima di Paolo attestano che ne ha compreso fino in fondo la dottrina. E questo non è da poco perché sappiamo che Paolo spesso non era capito.

È stato inoltre coautore di molte lettere paoline (2Cor, Fil, Col, 1 e 2Tess).

A differenza di altri collaboratori di Paolo, come ad esempio Barnaba e Marco, non ha mai avuto contrasti con l’Apostolo, nonostante il carattere certamente non facile del maestro. Evidentemente sapeva collaborare con le persone difficili, virtù che non è da tutti. Anzi, molte volte corregge la durezza di Paolo (ci sono studiosi che hanno notato come le lettere più dure di Paolo siano quelle scritte quando Timoteo era lontano dal maestro).

Però anche lui ha il suo lato debole: è fragile, avverte e soffre la solitudine, si sente facilmente indeciso e frustrato.

La lettera

La 2Timoteo è l’ultima lettera scritta da Paolo, secondo alcuni studiosi solo un paio di mesi prima di subire il martirio. Paolo non è più giovane, non è più l’uomo dell’entusiasmo (quello della lettera ai Romani o anche ai Galati), ha visto tante cose che sperava di non vedere, sono accadute tante cose che sperava non accadessero. Ora il suo compito non è più, come per gran parte della sua vita, quello di fondare dagli inizi una nuova comunità, ma quello di continuare personalmente nella sequela di Cristo nonostante gli insuccessi sperimentati.

In questa lettera Paolo, affaticato dalla prigionia a Roma, e in qualche modo presago della fine imminente, rilegge la sua vita, rivede nella mente ma soprattutto nel cuore, i volti dei collaboratori che lo hanno lasciato, e alla luce delle tante prove subite, ricomprende il disegno meraviglioso di Dio e il mistero della misericordia divina.

Il testo (2 Tim 1,1-18)

1,1 Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù, 2 al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.

3 Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di te nelle mie preghiere, notte e giorno; 4 mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. 5 Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te.

6 Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani. 7 Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. 8 Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. 9 Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità, 10 ma è stata rivelata solo ora con l'apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo, 11 del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.

12 È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. 13 Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14 Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.

15 Tu sai che tutti quelli dell'Asia, tra i quali Fìgelo ed Ermègene, mi hanno abbandonato. 16 Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo, perché egli mi ha più volte confortato e non s'è vergognato delle mie catene; 17 anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato. 18 Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso Dio in quel giorno. E quanti servizi egli ha reso in Efeso, lo sai meglio di me.

Lectio del primo capitolo

Il capitolo 1 è facilmente divisibile in cinque parti.

- La prima (vv. 1-2) contiene, come nelle altre lettera paoline, l’indirizzo e l’augurio: chi scrive, a chi e cosa augura.

- Nella seconda parte ci sono il rendimento di grazie e la memoria (vv. 3-5). Il ringraziamento, anch’esso comune alle lettere di Paolo, tranne che in quella ai Galati, è personalizzato e sostenuto dai ricordi. A questi ricordi si aggiunge la memoria familiare (v. 5). È uno dei pochi posti del N.T. in cui le relazioni di fede si uniscono strettamente con le relazioni di parentela.

- Con la terza parte (vv. 6-8) incomincia l’esortazione caratterizzata da imperativi o forme analoghe (“ti ricordo...”, “fa’ questo...”). A Paolo preme molto che Timoteo comprenda la necessità di lottare per il vangelo. È un’esortazione triplice: ravviva il dono di Dio; non temere di rendere testimonianza; soffri con me per il vangelo.

- La quarta parte (vv. 9-11) offre la motivazione teologica della triplice esortazione. A ben guardare è una sintesi dell’annuncio, fatto come un inno cristologico (e molto probabilmente era proprio un inno della chiesa primitiva).

- Dopo l’inno di lode, la quinta parte (vv. 12-18) presente l’esperienza sofferta dall’Apostolo come un altro motivo perché Timoteo abbia la forza di perseverare. Sono qui presenti due concetti fondamentali per la comprensione del pensiero paolino: le “sane parole” e il “buon deposito”. Sono un po’ la chiave di lettura delle lettere pastorali.

Ma vediamo le frasi un po’ più in dettaglio.

Nell’indirizzo Paolo usa l’espressione “al diletto figlio Timoteo” (v. 2), e questa espressione si trova anche nella prima lettera a Timoteo. In questo modo presenta la figura della paternità nella fede. Viene in mente Gesù quando nel discorso di commiato dopo l’ultima cena chiama molto teneramente i discepoli “figlioli” (Gv 13,33). L’Apostolo mette in rilievo un nuovo tipo di paternità, quello fondato sulla fede, proprio della nuova creazione.

I rapporti storici, ontologici e affettivi fra Paolo e Timoteo sono i rapporti che intercorrono tra le persone che si sono comunicate la fede. Provate a pensare alle persone che vi hanno portato alla fede, a quelle che vi hanno fatto vivere la vostra fede più a fondo, ma anche alle persone a cui voi avete dato qualcosa per una maggiore maturità. Sono doni che il Signore ci fa.

Comunque è bello pensare che fra Paolo e Timoteo, che avevano storie e caratteri tanto diversi, si sono create relazioni di paternità e figliolanza.

L’augurio che segue l’indirizzo è “grazia, misericordia e pace”. Di solito nelle sue lettere Paolo parla solo di grazia e pace, qui invece aggiunge “misericordia”.

- “Grazia” è l’inizio di tutto, è lo Spirito Santo donatoci da Gesù e dal Padre.

- “Pace” è il frutto della grazia, la riconciliazione con Dio, coi fratelli, con sé stessi, col mondo. È la sintesi dei doni messianici. Non sempre la gustiamo, non sempre siamo in pace con noi stessi, con i nostri fratelli, con la Chiesa, con la società del nostro tempo.

- “Misericordia” è la comprensione di Dio per la miseria dell’uomo, per la sua piccolezza, è il suo incoraggiamento, è l’assicurazione che Egli ci nutre e ci sostiene sempre, comunque.

Molto probabilmente Paolo ha aggiunto questo termine perché sa che ha di fronte un Timoteo scoraggiato, timoroso, fragile, tentato, quasi volesse dirgli: guarda che il Signore non è solo grazia per coloro che sono o si sentono forti; la sua grazia è anche (e mi verrebbe da dire soprattutto) per i deboli, è misericordia (e qui in greco è élos, cioè compassione, pietà) e te la dona perché tu abbia pace.

Piccola curiosità: il trinomio “grazia, misericordia e pace”, in tutto il NT, oltre che nelle due lettera a Timoteo, lo troviamo solo nella seconda lettera di Giovanni e nella lettera di Giuda.

Paolo scrive dalla prigione, ed è sorprendente che dal suo cuore nasca il ringraziamento. Da un carcerato ci si aspetterebbero parole di lamento, soprattutto se la prigione significa, come per lui, il completo fallimento. Ma per Paolo il rendimento di grazie è diventato una dimensione della sua esistenza: Dio è l’origine della sua esistenza, di ciò che è e di ciò che ha. Paolo è umiliato, schiacciato, rifiutato, abbandonato, ma non c’è occasione della vita nella quale non trovi una ragione per ringraziare e lodare il Signore per essere chiamato dal Padre nell’amore dello Spirito Santo.

Inoltre il ringraziamento a Dio dalla prigione viene ampliato dalla menzione della coscienza pura (in greco suneídesis). Questo un vocabolo ricorrente nelle lettere paoline, a già anticipato negli Atti (At 23,1; 24,16). Ovviamente Paolo sa cos’è l’umiltà, ha la coscienza del peso del peccato (cfr. Rm 7,15-24), però non accetta che venga messa in dubbio da nessuno la sua coscienza sostanziale di essere sulla via di Dio, di rispondere al disegno che ha rivelato a partire da Abramo. È la sua identità che tiene ad affermare perché si è identificato totalmente col messaggio di Cristo.

Da questo comprendiamo l’importanza e la forza di una buona coscienza sostanziale. Non è una buona coscienza moralistica (non ho commesso peccati, mancanze, mi sono comportato bene), bensì la coscienza di una sincera ricerca di Dio pur se siamo fragili, deboli, se sbagliamo. La coscienza sostanziale è la nostra libertà invasa dalla grazia. Grazia e libertà sono infatti i due capisaldi dell’azione divina e quando la grazia invade la libertà, cioè la dirige spontaneamente, si ha quell’identità che niente potrà scuotere. L’Apostolo esprime tutto questo con poche parole: con una coscienza pura.

Passa poi ai ricordi personali (vv. 4-5). Le lacrime al v. 4 probabilmente sono quelle versate da Timoteo all’arresto di Paolo, ma forse (ed è l’opinione di non pochi studiosi) parla delle lacrime della debolezza del giovane vescovo, della sua fragilità. E anche se mette in primo piano la solitudine del discepolo, gli dice con molto affetto, un affetto concreto, che ha nostalgia di rivederlo (nostalgia talmente forte che verrà espressa nuovamente al cap. 4, 9 e v. 21). Paolo ha davvero bisogno del figlio diletto, così come il figlio ha bisogno di lui. Può sembrare strano che proprio Paolo, che ha imparato a vivere nell’abbondanza e a essere privo di ogni cosa (Fil 4,12), provi questo bisogno. E invece anche lui desidera, ha necessità dei conforti umani perché, pur non essendo i ben ultimi, sono ugualmente autentici e preziosi.

Tra i ricordi personali ci sono anche la madre e la nonna di Timoteo. Solitamente i vangeli mettono in guardia dal rischio di una famiglia che schiavizza, da relazioni familiari che rinchiudono e da cui bisogna uscire per poter seguire il Cristo. Qui invece siamo già alla seconda generazioni di cristiani, per cui possiamo contemplare invece l’armonia fra parentela di sangue e parentela spirituale nella fede. Questo è un grande progetto del NT: da un lato allargare la nozione di famiglia creando nuove relazioni di parentela per mezzo della fede; dall’altro fare in modo che i legami di sangue favoriscano, e non impediscano, lo sbocciare e il crescere della fede.

Nei vv. 6-8 spiccano due esortazioni: “ravviva” e “non vergognarti” nelle quali Paolo condensa tutto il suo cuore e il suo affetto al fine di scuotere il discepolo sconsolato e desolato. E sono due esortazioni che valgono anche per noi, anche noi dobbiamo ravvivare e non vergognarci del dono ricevuto nel battesimo e coglierne la sua valenza e la sua efficacia oggi.

Già nella prima lettera (1Tim 4,14) l’apostolo aveva raccomandato di non trascurare il dono spirituale, e si capisce quindi perché qui dica “ti ricordo”. Si tratta evidentemente di qualcosa di cui Timoteo aveva già avuto bisogno, cioè aveva già prima un po’ perso qualcosa di questo dono. Ma come succede che questo dono si offuschi in modo che non ne avvertiamo più la sua forza?

- Nel caso di Timoteo è lecito pensare che una delle ragioni sia la solitudine nella quale si è trovato dopo la partenza di Paolo. Ora sperimenta il peso della solitudine, delle decisioni da prendere, la fatica delle responsabilità, la mancanza di un amico e maestro che lo possa consigliare a proposito dei gravi problemi della comunità a lui affidata. Ne soffre al punto da piangere, e a poco a poco si dimentica di ricorrere alla forza del dono dello Spirito.

- Un’altra ragione, che possiamo leggere tra le righe (ma chiaramente in 1Tim 4,12), è la giovane età che fa sentire Timoteo inadeguato al compito affidatogli, inadeguato a reggere una situazione comunitaria complessa, non sufficientemente preparato. La giovane età, prima di essere un motivo di rifiuto da parte degli altri, lo bloccava, lo rendeva più insicuro di quanto già non fosse di natura. Teniamo presente che le difficoltà c’erano ed erano oggettive (vedi ad esempio 1Tim 5,19-20): nella comunità si commettevano mancanze serie, si lanciavano accuse, ci si divideva, e il responsabile della comunità era costretto a imboccare bocconi amari, ad assumere posizioni dure, a distinguere le numerose maldicenze dalla verità. Il sogno di una Chiesa terrena perfetta è appunto un sogno.

- Una terza ragione è una sorte di negligenza spirituale: gli impegni erano tanti, la stanchezze si accumulava e, come accade spessissimo anche a noi, aveva tralasciato la preghiera, non si dedicava più come un tempo alla meditazione quotidiana della Sacra Scrittura. Timoteo è tentato nella sua saldezza perché ha trascurato l’esercizio spirituale.

Paolo, molto delicatamente, gli ricorda che da tale situazione di offuscamento può e deve uscire perché il dono, lo Spirito, è “in te”. Alla stessa maniera è in noi, anche se non lo sentiamo, se abbiamo la sensazione di averlo smarrito, di fatto può essere ravvivato come si rianima il fuoco sotto la cenere (e difatti nell’originale greco viene usato il verbo anazopurein cioè riattizzare il fuoco).

Solo dopo avergli offerto il principio rassicurante (il dono è in te) lo invita, sempre però con affetto a uscire dallo stato di timore.

- “Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza”, il termine greco usato (deilía) indica qualcosa di negativo, non solo la timidezza psicologica, ma anche incertezza, paura, viltà, vigliaccheria. Una specie di angoscia (cfr. Mt 8,28), esattamente il contrario della confidenza in Dio, della piena fiducia in Gesù che conosce e guida gli eventi. È un tipo di timidezza, di timore di essere lasciati a noi stessi che in pratica è la dimenticanza di Gesù presente in noi. Non è solamente la paura che si avverte di fronte alle forze oscure della vita, di fronte a ciò che non si conosce, ma anche quella di non sopravvivere, alla paura che rode l’esistenza.

L’esortazione di Paolo a Timoteo è quindi l’esortazione con cui ha inizio la vita cristiana, è l’esortazione del Discorso della Montagna, ma che lui ha bisogno di sentir ripetere; e ne abbiamo bisogno anche noi, che portiamo nel cuore tante angosce segrete.

- Dio invece ci ha dato uno spirito “di forza, di amore e di saggezza”.

Forza è la dynamis che era in Gesù per compiere i miracoli (cfr Lc 5,17), e lo Spirito ce la dà per aiutarci a vincere la paura e a ravvivare il dono. Noi la possiamo sperimentare come dono dello Spirito nelle azioni evangeliche che riusciamo a compiere.

Amore è l’agápe che ha creato il mondo ed è più potente di tutto. Amore che è in noi quale partecipazione alla vita intima della Trinità e ci rivolge ad amare il Padre, ad amare Gesù e ad amare le persone verso cui lo Spirito ci invia.

Più difficile è capire cosa sia lo spirito di saggezza, in greco sophronusmós, vocabolo raro nel NT. Probabilmente è una saggezza mista a prudenza e a moderazione. Timoteo era tentato da eccessi di paura e da eccessi di entusiasmo. Saggezza è di fatto la capacità di restare nel giusto mezzo, di avere equilibrio anche nei sentimenti, in modo da riuscire a vivere con costanza.

Forza e amore non bastano, se la situazione è particolarmente complessa, occorre il discernimento, perché ci si può buttare, donarsi fino a esaurirsi senza ottenere nulla. È bello spendersi totalmente, ma bisogna farlo per tutta la vita, e non solo per qualche mese o per qualche anno. Ecco quindi la necessità dello spirito di saggezza.

“Non vergognarti” è un’altra espressione cara a Paolo (e difatti in questo cap. la ripete 3 volte, ma c’è anche altrove, ad es. in Rm 1,16). Ma perché Timoteo si vergogna? e perché noi dovremmo vergognarci?

- Innanzi tutto Timoteo si vergogna perché sente di essere abbandonato da Dio, di essere stato lasciato solo in mezzo alle tribolazioni e ai problemi. E allora affiora il dubbio terribile, il sospetto già avanzato nell’Eden: “ti sei fidato di Lui e adesso che ne avresti bisogno Lui ti ha mollato, non è più con te”.

Questo dubbio diventa quel disagio che non permette di riconoscere la prova, ogni prova, come un momento di grazia. Anzi ce la fa vivere come un abbandono, un segno di lontananza del Signore. Timoteo si vergogna perché vive la tribolazione non in relazione al piano di Dio ed è afferrato dalla paura di fronte ai problemi, si vergogna della sua povertà umana.

- Un altro motivo sta nell’avvertire l’estraneità del vangelo riguardo alle coordinate della vita quotidiana. Timoteo ha l’impressione che i principi evangelici non abbiano nulla a che fare con le realtà di ogni giorno. Si tratta di sentirsi fuori dal mondo, di avere dei valori che nessun altro ha, che il mondo non capisce quando non deride. E il discepolo anziché gloriarsene, resta imbarazzato, Non abbandona la sua strada, però non va fiero del vangelo come vorrebbe Paolo.

- Infine si può provare vergogna per l’esiguità del messaggio evangelico, per la debolezza che ha in confronto alla potenza e all’arroganza del mondo finanziario, alla forza dell’ambiente politico e militare, al potere dei mass-media. Il vangelo è altro, è una voce debole che grida nel deserto, il soffio di un vento leggero, e noi preferiamo ritirarci piuttosto che dare la nostra piccola testimonianza. Respingiamo le tentazioni senza però prendere davvero coscienza della potenza enorme del dono di Dio. Se Timoteo ha sperimentato la vergogna, vuol dire che la stessa tentazione può colpire anche ognuno di noi, nessuno può sentirsi escluso. È una tentazione che può offuscare la fede e renderci acquiescenti al male.

Spunti di meditazione per noi

[ Proviamo a farci un piccolo esame di coscienza: la prima parola che ci viene da pronunciare al mattino, durante la giornata, alla sera, è il ringraziamento, la lode al Signore? cominciamo così ogni nostra azione? In altre parole, viviamo davvero la dimensione eucaristica in cui il primo sentimento è il rendimento di grazie e di lode al Padre?

In tutta sincerità dobbiamo confessare che spesso la prima parola è un lamento, una critica, oppure l’ansia e la preoccupazione, il malumore e la stanchezza. La mentalità non eucaristica del mondo che ci circonda si insinua gradualmente anche in noi.

Paolo è umiliato, rifiutato, abbandonato in carcere, ma non c’è occasione della vita nella quale non trovi una ragione per ringraziare e lodare di essere creato in Gesù Cristo, di essere chiamato dal Padre nell’amore dello Spirito Santo.

[ Abbiamo coscienza di essere inseriti in una ininterrotta catena di fede che parte da Gesù per passare poi a Paolo, a Timoteo, e attraverso i secoli arriva ai nostri genitori, alle persone che ci hanno formato? e che la prosecuzione di questa catena dipende anche da noi?

Questa catena ininterrotta non è altro che la Chiesa e di fronte alle tentazioni sappiamo che possiamo contare sulle sue preghiere, ma anche sulla sua comprensione e sulla sua misericordia. Tutte le persone che la compongono non sono state una specie di superuomini senza problemi né debolezze, anche loro hanno, come noi e prima di noi, avuto le stesse miserie, gli stessi limiti, gli stessi problemi, e hanno fatto anche loro degli errori.

[ La tentazione di vergognarci la corriamo tutti, e Paolo, nei vv. 6-7, ci aiuta a superarla con due principi.

- Innanzi tutto riusciamo a superare la tentazione nella certezza che la grazia di Dio è in noi (“il dono è in te”), anche se non la sentiamo. Si tratta, e lo vedremo più avanti, di una grande visione della vita di cui dobbiamo essere fieri, di una visione del presente e del futuro che è già in noi.

- Inoltre superiamo la tentazione mediante la forza che viene dallo Spirito contro la debolezza, l’amore che viene dallo Spirito contro l’incapacità di amare, la saggezza donataci dallo Spirito come discernimento, capacità di equilibrare le energie, perseveranza nell’azione e nella vita.

Di fatto c’è però un altro principio, magnificamente espresso da Paolo: “non vergognarti…, ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo” (v. 8b), ma anche questo lo vedremo più avanti in un quadro più ampio.

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