Avvento 2002

Prima domenica

Quest’anno per la situazione della nostra chiesa (in quel periodo fervevano i lavori di restauro della chiesa e in pratica si faceva Messa in un cantiere, e potendo utilizzare solo mezza chiesa) è impossibile fare il presepe bello come gli altri anni. E allora perché non approfittare per riflettere un po’ su alcune figure del presepe?

La prima figura che prenderei in considerazione è quella del bue. Non è una figura che sia presente nel vangelo natalizio, però nel presepe ci entra di diritto a furor di tradizione.

Ma che significato ha il bue nel presepe?

Chi di noi ha la mia età, o ancor di più, si potrà ricordare di aver visto in gioventù il bue attaccato all’aratro che percorre il campo. Su e giù, solco dopo solco. Passo lento, sforzo costante, fatica, regolarità. È la nostra vita di tutti i giorni: un lavoro spesso nascosto, a volte duro, comunque ripetitivo, monotono.

Le solite cose ordinarie, i soliti impegni gravosi, i compiti non sempre graditi e poco gratificanti.

Si tratta di realizzare la propria santità con i materiali comuni che ci fornisce la nostra vita ordinaria; nel quotidiano, attraverso il quotidiano, insieme al quotidiano; arrivare a Dio con gli stracci, la polvere e il sudore del nostro quotidiano.

Il bue è a disposizione per le faccende più gravose, i servizi più umili. Non partecipa alle sfilate, non rivendica ruoli più importanti.

Il bue ci ricorda che nella vita ci vuole costanza, determinazione, tenacia, applicazione, pazienza, disposizione al sacrificio, voglia di ricominciare sempre da capo. Ma soprattutto impegno ad arrivare fino in fondo.

Inoltre il bue ha bisogno del giogo per poter esprimere tutta la sua forza. A noi invece il giogo da fastidio; vorremmo muoverci liberamente, senza imposizioni. Scambiamo la spontaneità, la naturalezza, la creatività con l’arbitrarietà, il velleitarismo e il rifiuto di ogni regola e disciplina. Dimentichiamo che la passione va accoppiata col rigore; che la disciplina interiore è indispensabile a governare la propria vita. Vorremmo fare ciò che ci piace, e non ciò che è utile e necessario.

Gesù ha detto: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo su di voi… Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero.” Bella solidarietà, bell’aiuto: noi siamo stanchi, non ce la facciamo più … e lui ci appioppa un carico supplementare. In realtà siamo stanchi perché non camminiamo abbastanza. Siamo stanchi per i pesi, soprattutto degli altri, che non intendiamo portare.

Seconda domenica

La Bibbia (Dt 22,10) vieta di mettere insieme, per l’aratura, il bue e l’asino, ma siccome nel nostro presepe noi non dobbiamo lavorare i campi, li possiamo benissimo mettere insieme.

E qui nel nostro presepe la presenza dell’asino può avere due significati.

C’è un episodio molto famoso nella Bibbia (Nm 22,22 e ss.), quello dell’asina del profeta Balaam, che si mette a parlare e salva il profeta. Anche s. Pietro (2 Pt 2,16) fa un commento a questo fatto e sembra che ci suggerisca che se gli uomini ascoltassero gli asini, non commetterebbero tante sciocchezze.

Cioè la verità può benissimo uscire dalla bocca di un asino (anche a 2 zampe). E questo non ci dovrebbe meravigliare: la verità non dipende dalla nostra supposta grandezza, dai nostri studi o dalla nostra intelligenza. La sua luce dipende unicamente da se stessa, non da chi la dice o la proclama. La verità anzi non è mai così grande come nell’umiliazione di chi l’annuncia.

Il profeta, nel brano che ho detto, bastona più volte la sua asina. E questo ci da il secondo senso della presenza dell’asino nel nostro presepe: rappresenta le innumerevoli creature “bastonate”, umiliate, sfruttate, maltrattate dalla vita e dai propri simili. È l’evidenza agghiacciante di come l’uomo riesca ad essere perverso e disumano nei confronti dei deboli. Esprime la presenza di tutti gli uomini sottoposti, nei secoli e purtroppo ancor oggi, alle torture più brutali. Porta la protesta di tutti gli uomini ed anche di tutti gli animali maltrattati, violentati, uccisi per il nostro interesse o per la nostra noia.

Penso che il nostro asino, nel presepe, se ne stia silenzioso. E se farà qualche raglio, lo farà solo per divertire il Bambino. Ma penso anche che non riesca a trattenere qualche sospiro. E Lui capirà: tra deboli ci si intende senza bisogno di parole, basta uno sguardo.

Terza domenica

Anche oggi metteremo nel nostro presepe degli animali. Gesù spesso ci ha parlato di loro e quindi un “discorso su Dio” in cui mancassero sarebbe incompleto, zoppicante.

Oggi metteremo le pecore, gli agnelli. È questa una presenza necessaria, direi insostituibile, per due motivi. Primo, l’agnello ci ricorda il destino “sacrificale” di Gesù, è la profezia della sua Passione (come il suo essere “deposto” (si depone un cadavere) in una “mangiatoia”, cioè dove si mette il cibo, è profezia dell’Ultima Cena, dell’Eucaristia). E secondo, la pecora ricorda al futuro Pastore il suo programma di “sollecitudine” verso il gregge: “Il pastore offre la vita per le pecore” (Gv. 10,11-15).

Il Battista ci presenta Gesù proprio così: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (Gv. 1,29). Al peccato, alla potenza del demonio, Dio non contrappone la forza, ma l’innocenza e la debolezza. Il peccato vede minacciato il suo dominio sul mondo dall’essere più innocuo, indifeso, fragile, vulnerabile.

Il peccato sghignazza di fronte alle voci roboanti, alle condanne implacabili, anche di tanti predicatori. Trema unicamente di fronte alla voce silenziosa, direi quasi al silenzio assordante, del candore, della debolezza, dell’amore che si dona. Tutta la sua potenza non può nulla contro la forza dell’amore.

Noi invece oggi non ci fidiamo più dell’agnello, siamo convinti che per combattere il male del mondo ci vuole ben altro. L’agnello è troppo timido, remissivo, insomma, troppo “buonista”. In fondo pensiamo che Gesù è vissuto in un altro tempo, molto diverso dal nostro, che oggi occorre essere equipaggiati, e anche molto bene, per la lotta, bisogna avere armi efficaci. E non ci si accorge che questo agnello così equipaggiato per la lotta, per il dominio, invece di togliere il male dal mondo, finisce per incrementarlo.

Ci dimentichiamo che Gesù ha già definito la nostra società un mondo di lupi. Però non ci ha detto: “siccome dovete affrontare i lupi, attrezzatevi di conseguenza, mostrate i denti, azzannate prima di essere azzannati”. Invece ci ha detto: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Lc 10,3). Che ci piaccia o no, i lupi dobbiamo affrontarli, ma con la debolezza dell’Agnello.

L’agnello deve comportarsi da ciò che è, sempre, senza mai neanche travestirsi da lupo. Solo così potremmo contare sul Suo aiuto. Lui è il Pastore delle pecore, non dei lupi travestiti (s. Giovanni Crisostomo).

Quarta domenica

Dopo tanti animali, è la volta di mettere nel nostro presepe un essere umano. Però siccome giovedì prossimo è già Natale, lascio a voi le considerazioni sui pastori, cioè gli esclusi dalla società dei benpensanti, o su Giuseppe e Maria, cioè le persone che parlano pochissimo, non appaiono mai in prima fila sotto i riflettori, ma sono le più importanti, le uniche realmente indispensabili.

Un paio d’anni fa su un quotidiano hanno pubblicato una vignetta con queste battute:”Cosa aspetti per Natale?“-”Gesù Bambino“. Ecco, nel presepe metteremo il Bambino.

Ma dove lo mettiamo? e poi, per cosa è venuto?

In questi giorni il Bambino lo possiamo trovare un po’ dappertutto: nella carta da regalo, sulle scatole di cioccolatini, sulle bottiglie di spumante, nelle vetrine dei negozi. Ma più noi lo mettiamo in ogni posto, più Lui non si fa trovare. Sembra che non voglia aver niente a che fare con questa confusione. Non vuole essere preso a pretesto per i nostri interessi, per una verniciatura di buoni sentimenti, per una patina di religiosità.

Per “fargli posto” non dobbiamo aggiungere, ma togliere, ripulire, ed è proprio quello che non vorremmo fare. Il Bambino che si fa dono esige purificazione, mani pulite, cuore in ordine. Natale non è un di più, ma una riduzione all’essenziale. Un Natale grandioso, trionfale, è quasi una bestemmia nei confronti di un Dio che sceglie la strada della piccolezza, quasi della clandestinità.

La cosa peggiore non è non fargli posto, ma sistemarlo secondo i nostri gusti. Se Lui arrivasse davvero, magari sotto il travestimento di un immigrato, di un anziano, di un ex-carcerato, per partecipare alla nostra festa, c’è da giurare che il Natale ci andrebbe di traverso. Un presepe che sia da allestire dal vero, spalancando la nostra porta allo sconosciuto, al clandestino, ci fa paura, disturba il “nostro” Natale, non è previsto dal cerimoniale.

Rimane l’altra domanda: per cosa è venuto? Lui viene per essere il Dio-con-noi (Mt 1,23). Ma non viene in visita, per togliere il disturbo subito dopo i festeggiamenti. Viene per rimanere, per condividere, vuole essere il Dio dei giorni feriali, di tutti i giorni.

E qui cominciano i guai. Perché un Dio sempre con noi esige tutto un cambiamento di mentalità, di scala di valori, di vita. Ma non negli altri, lo esige in noi stessi. Siamo sinceri: un Dio-con-noi, sarà anche rassicurante, ma soprattutto è scomodo, ostacola i nostri traffici, mette il naso in certe faccende che consideriamo private (soprattutto private di Dio).

Un Dio-con-noi, qualche volta, diventa un Dio-sempre-tra-i-piedi. Che ci disturba, ci da fastidio. Quasi insopportabile.

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