Cap. 3

LA PITTURA DELL’ICONA

Tecnica della pittura[1]

Dopo aver preparato la tavola come detto, inizia la fase di creazione dell’icona. Per prima cosa il pittore di icone traccia col carboncino o con la matita il contorno, il disegno della rappresentazione. Quando il disegno è finito, si incide graficamente il disegno con un ago o con uno stilo. Questa parte, il disegno, è la più delicata perché una minima variazione, ad esempio un corpo leggermente più allungato o un albero un po’ spostato, daranno all’icona una diversa spiritualità. Gran parte del carattere dell’icona viene determinato in questa fase.

Dopo il disegno si “colora” lo sfondo. Parlando iconicamente lo sfondo è luce. Si fa per primo lo sfondo perché l’icona si dipinge sulla luce. La luce si dipinge non con il colore ma con l’oro. Quindi ogni rappresentazione emerge in un mare di dorata beatitudine, lavata dalla luce divina.

A questo punto si stende il colore di base dei palazzi, dei monti, delle rocce, degli alberi e dei vestiti. Le pieghe di questi ultimi si fanno con la tecnica dello schiarimento.

In questa maniera, con questo ordine di esecuzione, si stabilisce un intervallo tra il mondo interiore, espresso dal volto, e quello esteriore, espresso dalla natura, quasi una mediazione tra l’umano e il naturale.

Il volto, assieme alle mani, è l’ultima parte dell’icona che si dipinge, Anche qui il volto si fa emergere dalla base, sarà la luce, con lo schiarimento, che lo porterà alla vita.

Può essere interessante soffermarsi un po’ sul significato del volto. Innanzi tutto con esso non si ricerca, specie nel caso delle icone dei santi, la somiglianza. Questo perché non è l’individualità umana che si ricerca, ma la trasfigurazione che opera lo Spirito, è un volto spiritualizzato.

Dopo l’Incarnazione tutto è dominato dal volto umano di Dio. Nel disegno l’iconografo comincia sempre dalla testa perché è questa che dà la dimensione e la posizione del corpo e che comanda il resto della composizione.

Il volto poi è costruito intorno allo sguardo, il fuoco celeste lo illumina dall’interno ed è lo spirito che ci guarda. Le labbra sono sottili perché prive di ogni sensualità, quali passione o gola, ma sono fatte per lodare, consumare l’eucarestia e dare il bacio della pace. Le orecchie sono allungate ad ascoltare il silenzio. Il naso è solo una curva sottilissima. La fronte è larga e alta, con una leggera deformazione che accentua il predominio del pensiero contemplativo. Infine l’immobilità dei corpi, senza mai essere statica, concentra tutto il dinamismo nel volto[2].

Infine una piccola nota: le aureole[3] che circondano le teste dei santi, non sono il segno distintivo della loro santità, ma l’irradiamento della luminosità dei loro corpi ormai trasfigurati.

Dopo aver terminato anche il volto rimane ancora l’anima dell’icona: la “sovrascritta“. Solo così l’icona acquista compiutamente il suo carattere sacro, la sua reale dimensione. La sovrascritta è il “nome” dell’icona e bisogna tener presente il significato che ha il nome nell’Antico Testamento per comprendere tutta l’importanza che ha quindi questa sovrascritta.

Generalmente l’iscrizione è fatta in caratteri cirillici, però a volte si usano abbreviazioni greche per la Madre di Dio (

) o per Gesù Cristo (

). Inoltre nell’aureola del Cristo, in cui è disegnata una croce, ci sono sempre le tre lettere greche cioè “Colui che è”. Queste sono disposte una sul braccio destro della croce, l’O sempre su quello centrale in alto, e la terza sul braccio destro.

Toccherà al sacerdote che benedirà l’icona verificarne la corrispondenza coi canoni e la concordanza dell’iscrizione

La luce

In tutta la storia dell’arte un problema è rappresentato dalla luce, dal come riprodurla nelle pitture. Però nelle icone questo problema acquista un significato leggermente diverso. Innanzi tutto non è un problema di tecnica pittorica, ma, come tutto nelle icone, è segno di una teologia di fondo che si rivela nell’opera d’arte.

Prima di vedere come viene resa la luce nelle icone è importante sapere qual’è il pensiero filosofico, il senso che gli orientali danno alla luce. Sono illuminanti la parole di P. Evdokímov: “Sul piano ottico, l’occhio non percepisce gli oggetti ma la luce riflessa dagli oggetti. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela [...] Lo spazio non esiste che per la luce, la quale ne fa la matrice di ogni vita. È in questo senso che la vita e la luce si identificano. La luce rende vivo ogni essere facendone colui che è presente, colui che vede l’altro e che è veduto dall’altro, colui che vive con e ‘verso l’altro’, esistendo nell’altro[4].

Quindi la pittura delle icone vede nella luce non qualcosa di esteriore rispetto alle cose, ma neanche l’identità esistenziale intima della loro sostanza. Per l’iconografia la luce regge e crea le cose, ne è la causa oggettiva, che perciò non può considerarsi soltanto esterna, ne è il principio creativo trascendentale, che in essa si manifesta ma non si esaurisce[5].

La prima cosa che si nota in un’icona è l’assenza di ombre. Questo perché le icone raffigurano gli esseri, anzi gli esseri gloriosi, e l’ombra non è essere bensì la sua semplice assenza, e rappresentare l’assenza, cioè caratterizzarla come qualcosa di affermativo, di presente, di veramente esistente, sarebbe una sua essenziale promozione ontologica[6].

Inoltre la realtà raffigurata nelle icone è la realtà già trasfigurata, già penetrata in ogni suo anfratto dalla luce della grazia e dell’amore di Dio. È la visione della Gerusalemme celeste in cui non c’è bisogno né del sole né della luna “perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello[7].

L’icona non vuole dare l’illusione della realtà generata dall’opposizione luce-ombra. Non vi è una sorgente di luce, l’immagine e la luce non sono separate. La luce irradia direttamente verso lo spettatore che non può che aprirsi a questa luce dell’altro mondo[8]. Come dice P. Evdokímov “sulle icone non c’è mai una sorgente di luce perché la luce è il loro soggetto: non si illumina il sole[9].

Quindi la luce dell’icona non ha nulla a che vedere con la luce naturale, è diventata grazia incarnata, materializzata, e come tale deve essere ricevuta nella contemplazione. Tuttavia, poiché la contemplazione non è solamente un ricevere passivo, ma richiede tutto il dinamicismo dello spirito, la luce di Dio deve essere assimilata per essere trasmessa agli altri. La conoscenza della luce “intelligibile” diventa illuminazione e per essa l’uomo si avvicina alle “tenebre abbaglianti[10] del mistero assoluto.

La tecnica della luce nell’icona è la cosiddetta “luce propria“. La luce emana dal fondo d’oro. I colori, specie quelli delle vesti, sono ravvivati con riflessi di luce. Però i riflessi non sono posti come se venissero da una sorgente luminosa, ma nei punti più vicini allo spettatore. Così si ottiene una modellatura senza dare l’illusione del corpo nello spazio. Inoltre la luce propria riesce a sottolineare i movimenti e i gesti diversi.

Questi riflessi della luce propria, anche se suppongono l’osservazione della natura, intervengono come un fenomeno spirituale. Dall’essenza divina emana una luce, come una forza attiva. L’icona irraggia verso colui che la contempla, struttura e luce fanno un tutt’uno.

Però la “luce propria” non è l’unica tecnica. Nella sua celeberrima Trinità, Rublëv va ancora più lontano. La preferenza per i colori trasparenti in toni blu-verde e per il lavoro in velatura, fa sì che la scena dei tre personaggi celesti sia illuminata come da una nube luminosa.

Già i contemporanei erano affascinati da questo effetto e lo chiamavano dymon pisano cioè “trasparente come una nube”. Esso produce un effetto osservabile anche in natura: i colori cambiano in funzione della profondità dello spazio, per fondersi in toni blu-verde in cui i contrasti scompaiono.

Però questa luce “naturale” di Rublëv non è in contrasto con la teologia dell’icona. Nell’icona appare la realtà di Dio, cioè una realtà che deve oltrepassare le dimensioni del mondo terrestre, ma che nello stesso tempo lo rispetta, perché creato da Lui per essere trasfigurato nel suo Spirito.

Quando tutto ciò che è presente nell’icona muove verso lo spettatore, la luce deve seguire questo movimento, deve sottolineare i movimenti all’interno della composizione. Proprio riguardo alla luce e alla luce divina scopriamo, ancor più che altrove, quanto il linguaggio dell’uomo sia superato e i mezzi artistici poveri. Tuttavia l’opera più bella che un artista possa realizzare non è di far brillare la luce di Dio sulle sue creature?

La prospettiva inversa[11]

Oltre ai colori e alla luce vi è anche un altro elemento che concorre a far sì che l’icona si muova verso lo spettatore: la prospettiva.

Per l’arte occidentale la prospettiva ha la funzione di dare la sensazione della profondità, dello spazio tridimensionale. L’icona però si pone fuori dalle leggi dello spazio[12], non ricerca la profondità per evitare la “materializzazione” col conseguente rischio di cadere nell’idolatria. Nell’icona esiste solo il primo piano.

Nell’iconografia la prospettiva è rovesciata. Le linee si dirigono in senso inverso: il punto di prospettiva non è dietro il quadro ma davanti.

Il principio della prospettiva inversa è semplice. Le linee non si incontrano dietro ma davanti al quadro. Analogamente non vi si trova la scala delle altezze che, nella prospettiva lineare, ha la funzione di rappresentare l’estensione dello spazio. Pertanto non vi è profondità all’interno della rappresentazione, lo spazio è ridottissimo e si estende verso lo spettatore[13].

In questo senso l’icona è il contrario di una pittura del Rinascimento, non è una finestra attraverso cui lo spirito umano deve penetrare il mondo rappresentato, ma è un luogo di presenza. In essa il mondo rappresentato irradia verso colui che si apre a riceverlo. Nella prospettiva inversa è attivo lo spazio, non colui che guarda.

Le caratteristiche della prospettiva inversa sono:

1) Lo spazio è poco profondo, spesso limitato al primo piano, chiuso nella parte posteriore da uno sfondo di elementi architettonici o di paesaggio, in genere rocce. Non vi è illusione né di profondità né di corpi a tre dimensioni.

2) L’avvenimento si svolge in primo piano, anche i personaggi situati dietro, per l’ingrandimento delle loro proporzioni, vengono portati su questo primo piano.

3) Gli elementi architettonici e gli oggetti (seggi, calici, ecc.) sono rappresentati con i loro lati ripiegati in avanti e sono rappresentate anche delle parti normalmente non visibili. Per evitare la rappresentazione di un interno le scene avvengono sempre fuori dalle costruzioni. I paesaggi di rocce sono sempre rappresentati col principio del movimento in avanti. In tutte le costruzioni la verticale è sempre mantenuta.

4) La prospettiva non è isolata dagli altri aspetti dell’icona, invece è subordinata alla composizione e soprattutto all’idea dell’opera.

Ma oltre alla prospettiva inversa, usata soprattutto per gli oggetti e le costruzioni, vi sono altre due tecniche: la prospettiva di importanza e la prospettiva epica.

Se osserviamo alcune icone, il Cristo ha dimensioni maggiori di quelle degli altri personaggi, e anche in icone di santi, il personaggio centrale è molto più grande degli altri. Questa è la prospettiva di importanza. Questo principio di rappresentazione mette in evidenza la santità dei personaggi. Il loro aspetto individuale e temporale è ricoperto, trasfigurato dall’irradiazione dei valori eterni.

Anche qui, con l’ingrandimento delle proporzioni, il personaggio sembra uscire dall’icona per venire incontro allo spettatore.

Lo stesso dinamismo si può applicare alla rappresentazione di gruppi, senza personaggi principali. I personaggi del primo piano sono in piedi (che spesso toccano il bordo dell’icona). Di quelli dietro non si vedono che le teste, che sono ordinariamente più grandi e quindi sembrano più vicine.

Le icone che rappresentano una scena, soprattutto quelle delle feste, sono composte secondo la prospettiva epica. Hanno un carattere narrativo, ma l’accento è messo sull’aspetto teologico e ogni personaggio e ogni particolare ha la sua importanza. Lo scopo dell’icona non è creare lo spazio in cui si svolge l’avvenimento, ma di aprirsi verso lo spettatore per essere compresa. Per ottenere questo effetto ci si serve di linee e figure geometriche che fanno apparire il senso teologico della scena.

Gli schemi geometrici

Le linee e le figure geometriche su cui è costruita l’icona hanno una funzione teologica, sono funzionali ad esprimerne il significato.

Per quanto riguarda le figure geometriche vengono usati il cerchio, il triangolo e il quadrato (o il rettangolo). Inoltre viene usata anche la croce. Tutte queste figure hanno prima di tutto anche un valore simbolico, veicolano un significato.

Cerchio. San Bonaventura parla di Dio come del “cerchio il cui centro è dappertutto e la cui periferia non è in nessun luogo[14]. Questa idea è ripresa anche da molti mistici. Il cerchio quindi rappresenta Dio, la perfezione, l’eternità. Infatti il volto di Cristo nelle icone è costruito sui tre cerchi concentrici, ad unire la divinità (il cerchio), la Trinità e l’umanità (il numero tre: le tre persone e l’antropologia tripartita paolina, cioè corpo, anima e spirito).

Altri esempi sono l’aureola della Trasfigurazione e soprattutto i nimbi, segno della grazia divina trasfigurante.

Triangolo. Se è isoscele dà una simmetria perfetta. Difatti è utilizzato anche nella pittura occidentale in numerose maternità.

Si basa sul tre, il numero della perfezione e pertanto è il simbolo più adatto a Dio, richiamando anche la Trinità.

Quadrato. Se il triangolo rimanda al divino, il quadrato rappresenta il terreno. Ha quattro lati, come i quattro punti cardinali e i quattro fiumi che uscivano da Eden[15] ed è quindi simbolo dell’universo.

Però oltre a questi significati simbolici, le figure geometriche servivano a determinare l’armonia dell’icona e a permettere di situare i personaggi secondo il loro valore e le relazioni logiche della scena. Si comprende quindi l’importanza dell’iconografo-compositoere (znamenite) e la stima di cui godeva da parte dei suoi contemporanei.

Prima di vedere come venivano usate queste figure nelle icone, bisogna ricordare che queste non venivano applicate in maniera rigida, ma che la sensibilità dell’artista le adattava alla composizione per romperne la rigidità. Possiamo dividere le icone in tre tipi-base: le figure in busto, le figure in piedi, e le icone delle feste. Per ogni tipo di icona si usano delle strutture geometriche particolari.

Per le figure in busto il triangolo si usa per iscrivere il busto. Il cerchio invece si usa per il nimbo e per la testa. In genere questi due cerchi sono concentrici. Comunque il nimbo in tutte le icone è il centro attorno al quale si costruisce il soggetto da rappresentare.

La maggior parte delle icone raffiguranti i santi in piedi si trova nelle iconostasi e più precisamente nello spazio situato tra le porte. In genere si usa la forma dei tre quadrati sovrapposti. Il quadrato superiore contiene il busto con il nimbo, e i gomiti sono all’altezza della base. Nel quadrato centrale c’è il bacino fino alle ginocchia, e il resto delle gambe e i piedi sono nel quadrato inferiore. Se nel quadrato inscriviamo un cerchio in cui inscriviamo ulteriormente un quadrato, quest’ultimo ci darà la larghezza del corpo.

Per le icone delle feste, infine, si usano la croce e il cerchio. La croce è, in genere, una figura un po’ nascosta, di non immediata percezione. Viene data dal dividere in tre parti, in senso orizzontale e verticale, l’icona. All’interno di essa vengono posti i personaggi principali e, in genere sui bracci, le teste di quelli secondari. Invece il cerchio racchiude tutti i personaggi. L’esempio forse più riuscito è nell’icona della Trinità di Rublëv, in cui i tre angeli sono racchiusi e delimitano un grande cerchio.

Concludendo possiamo dire le seguenti cose:

- I grandi maestri componevano i disegni secondo strutture geometriche per ottenere un buon equilibrio del soggetto;

- Se il soggetto lo richiedeva, la struttura non era osservata strettamente, ciò al fine di non sopprimere né il movimento né l’espressività;

- Per prima cosa si determinava il centro del nimbo e, a partire da questo, la testa. Tale centro è la chiave della composizione;

- Le figure in piedi sono composte secondo lo schema dei tre quadrati;

- I volti sono dipinti secondo lo schema dei tre cerchi concentrici;

- Le diverse forme di composizione dipendono dalla proporzione della superficie da dipingere.

[1] Questa parte si basa prevalentemente su FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. pp. 150-163

[2] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. pp. 218-219

[3] In realtà non si chiama aureola, ma “nimbo” proprio perché la sua funzione, ciò che indica, è differente

[4] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 32

[5] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. pp. 171-172

[6] ibid. p. 164

[7] Ap 21,23

[8] SENDLER, Egon. L’icona…, op. cit.. p. 162

[9] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 188

[10] Espressione di Dionigi l’Areopagita ad indicare Dio stesso

[11] L’espressione “prospettiva inversa” è stata formulata da WULFF Oscar in Die umgekehrte Perspektive und die, Kunstgeschchtliche Monographien, Lipsia, 1907, che è una difesa delle rappresentazioni dello spazio bizantino

[12] MIQUEL Pierre. Théologie …op. cit. col. 1233

[13] Per una spiegazione tecnica della prospettiva inversa, anche a confronto degli altri tipi di prospettiva, vedere SENDLER, Egon. L’icona…, op. cit.. pp. 127-135

[14] Citato in LURKER, Manfred. Dizionario delle immagini e dei simboli biblici. Cinisello Balsamo (MI), Edizioni Paoline, 1990. p. 49

[15] Gen 2,10

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