STORIA REALE: Prospery, a luglio dello scorso anno, è stata la prima di 130 migranti ad essere salvata dai marinai della nave Dattilo mentre il barcone a cui era aggrappata stava quasi affondano. Arrivava dalla Libia e aveva solo due anni. Fra i morti di quel naufragio c’era anche la sua mamma Amalia. Prospery è arrivata al porto di Palermo in braccio al papà Alfa. Stringeva fra le mani un grosso orsacchiotto. A distanza di un anno dal suo viaggio verso l’Italia è una bimba felice. Chiama “mamma” tutte le donne della parrocchia di Falsomiele, nella periferia di Palermo, che si prendono cura di lei. È lì che ha trovato una nuova casa. E visto che il papà lavora tutto il giorno in una cooperativa sociale, sono i parrocchiani d accudirla
STORIA RACCONTATA DALLA PROSPETTIVA DEL PELUCHE DI PROSPERY
Una casa accogliente. Delle calde e soffici coperte. Una bimba che mi abbraccia lieta nel buio delle lunghe notti. Non mi sembra vero! Il tempo passa fulmineo eppure in Summer, nei suoi abbracci, nei suoi occhi vivaci, persino nelle sue crisi di pianto notturne mi sembra di rivedere in lei la madre Prospery. Quanti incubi abbiamo affrontato! Nonostante tutto c’è l’abbiamo fatta, siamo ancora qui e oggi più felici che mai.
Ciononostante, ogni volta che le mani setose di Summer mi sfiorano, migliaia di terribili ricordi vissuti con sua madre in quel lontano 2016 riaffiorano nella memoria. Posso ancora percepite il caldo infernale e il vento tagliente del deserto. Per non parlare della traversata del Mediterraneo. Nel giro di poche ore siamo passati dall’essere sbalzati su una jeep al rischiare di essere travolti dall'impeto del mare aperto in tempesta. Io sono passato dall’ asciugare il sudore freddo di Prospery, che forse soffriva per il caldo ma quasi più sicuramente per la fame, a schernire il viso minuto della piccola dalle correnti implacabili che squarciavano l’imbarcazione, in fuga dagli orrori delle costi libiche come una gazzella braccata da un famelico leone. Il gelo della notte si prendeva gioco della vita di tutti i profughi, impallidiva i loro volti ormai rassegnati al loro destino, disorientati, infieriva sui loro corpi immobili come mummie, addossati gli uni agli altri come sardine. Il barcone era traballante, fatiscente, un ricettacolo di batteri, sovraccarico. Gli scafisti erano ubriachi e sogghignavano come diavoli. Le donne venivano violentate contro ogni volere, gli uomini offesi e picchiati. Ho percepito la morte a pochi centimetri di distanza. La disperazione. L’angoscia. Migliaia di speranze infrante. La dignità sgretolata. I cuori spezzati. Pur essendo un simpatico peluche, con il mio sorriso ricamato sulla stoffa, ero forse l'unico a mostrare un minimo di vitalità.
Mentre trascorrevo le ore tra le braccia della piccola, all’improvviso un’ondata di acqua ghiacciata ricoprí la mia folta pelliccia bruna. Sentii l’urlo di Alfa, il padre di prospery. Poi la
piccola mi strinse sempre più, le sue unghie mi avvinghiarono e si lasciò andare in un pianto isterico. Potevo sentire il suo batticuore! La sua gola stringersi dal panico. Che infanzia difficile! -Chissà se si riprenderà mai -pensai. Avevo compreso la situazione all’istante. Sua madre Amalia era stata una di quelle povere anime ad essere cadute vittime di uno dei tanti falsi allarmi che non di rado ci coglievano di sorpresa. Questa volta una repentina fuga di gas aveva scatenato un fuggi fuggi generale e tutti si erano ammassati in via preventiva sulla poppa della barca destabilizzandola. Alcuni di loro erano stati travolti dalla morsa della folla, cadendo o aggrappandosi ai parapetti della barca, ed erano finiti per essere catapultati in mare dagli sbalzi delle onde. Amalia era stata una di questi sciagurati. L’ultimo ricordo che ho di lei sono le sue braccia, prima agitate poi esanimi, che venivano risucchiate dal mare come nella morsa di un abisso. Da quel momento in poi solo buio. Prospery lasció la presa e io finii a terra, tra i pidocchi e il fango che ricoprivano il pavimento, pestato da uomini che per il caos inciampavano e facevano traballare il barcone, ormai in gran parte invaso dalle acque gelide sotto il peso di centotrenta disperati tutti concentrati in un unico punto. La situazione era lo sfacelo più totale , sembrava un campo di guerra.
La prima luce che vidi fu quella del sole rovente di Palermo. Lì una volontaria mi recuperó tra le carcasse del barcone e mi riportò tra le esili braccia ricoperte di lividi di Prospery, che ora, pulita e vestita di tutto punto, sembrava un’altra persona. La crudeltà umana e la perdita della figura materna l’avevano trasformata, incupita, stravolta! Lei però, rimaneva comunque la stessa bimba di due anni, dal volto innocente, ancora in grado di essere rapita dagli occhioni di un morbido orsetto di peluche. Alla mia vista ricordo infatti che le si accennò un piccolo sorriso sulla bocca zuppa di lacrime. Oggi ho la fortuna di vederlo ancora. È lo stesso che ogni sera rivolge alla sua piccola Summer prima del bacio della buona notte. La gioia che la pervade quando vede la figlia è la stessa che provò al nostro primo incontro dopo il naufragio della nave Dattilo. Sono così felice di averla aiutata a superare momenti così tragici, di essere stata la guida nel suo percorso di crescita.
Ancora oggi sono orgoglioso di infondere fiducia a piccole creature con il mio aspetto paffuto e rassicurante.
Fortunatamente adesso, se capita, si tratta soltanto di consolarli per incubi che sono frutto dell’immaginazione!
MARTA PISTORE 3CL
IN VIAGGIO CON LE SCARPE
“Kessy guarda, vedo della luce” disse Betty mentre sua sorella dormiva “Kessy Kessy ha scelto noi, che bello”.
Questa è la storia di due scarpe che non sanno cosa gli aspetta.
Sono appena state prese da un bambino dall’età di circa 7 anni di nome John, in uno di quegli enormi sacchetti pieni zeppi di vestiario proveniente da famiglie italiane che non se ne fanno più nulla di quella roba.
“Non ti senti un po’ esplodere?” disse Betty dopo che John ci indossò tutto contento “sì, mi sento molto stretta” rispose mia sorella Kessy, ma d'altronde che ci potevano fare, probabilmente a John bastava avere delle scarpe, non gli importava il colore o la grandezza perché sapeva le vie erano due: o rovinarsi i piedi o accettare delle scarpe anche se strette.
John vive in Burkina Faso e lì le condizioni non sono delle ottime, c’è la guerra e da un momento all’altro potrebbero decidere di scappare.
È il 17 settembre 2019 e quel momento è arrivato.
Ad un tratto John indossò le scarpe velocemente, senza allacciarle. “Perché stiamo correndo?” chiese Betty, e Kessy rispose “John starà giocando a “scappa o ti prendo””; ed effettivamente stava giocando a quel gioco, ma non con gli amici, con la morte…
“Sentii il papà di John dire di star scappando ma non seppi dove, solamente scappando. Attraversammo molte strade, molti campi e anche il deserto ma non rimanemmo intatte o almeno Kessy no, lei si ruppe davanti ma nonostante ciò era ancora lì, nel piede di John.
Oggi credo sia l’11 gennaio 2020 e siamo nel deserto e ad un tratto vidi in lontananza arrivare una macchina o meglio un camioncino pieno di persone e vidi il papà di John sporgere il braccio con l’alluce della mano all’insù. Non capì cosa stesse facendo ma gli diede dei soldi e salimmo.
Si stava stretti, molto stretti ma noi eravamo in braccio alla mamma di John insieme a lui ma nonostante tutto si stava meglio.
Passarono circa due ore e il camioncino si fermò, e ci lasciò lì, nel deserto, insieme ad altre 30 persone e 17 scarpe. Molti non le avevano e infatti avevano i piedi distrutti e sanguinanti.
Fatto sta che era buio e ci fermammo tutti vicino ad un grande tronco per dormire e usufruire di quella poca acqua che trovammo in una pozza o meglio Oasis.
Uno strano rumore ci svegliò: era un altro camioncino con già 9 persone al suo interno, vidi papà dare altri soldi e salimmo. Questa volta si stava più stretti e scomodi, c’era uno strano odore e ci sentivamo a disagio.
Kessy piangeva, aveva molta paura perché stava per cadere ma per fortuna mamma la vide e la sistemò, e lei smise di piangere.
Percorremmo ancora molti e molti chilometri in quelle condizioni, sembrava un viaggio infinito.
Era ormai il 26 aprile 2020 e il viaggio continuava ma sentii John chiedere a papà quanto mancava e lui disse “poco John, siamo quasi arrivati”.
Eravamo tutti così felici che sentimmo John canticchiare una canzoncina dal suono quasi disturbante. Ma lui era felice… quando ad un certo il camioncino iniziò a barcollare a causa delle buche. John smesse di cantare
e si dimenò così tanto che Kessy non resse. È stata una scena vista a rallentatore e lei era lì, che cadeva dal quel furgone, e una volta caduta... la vidi sempre più lontana da me; sempre più lontana da noi.
Improvvisamente sentii due presone piangere disperatamente: Kessy, da lontano, e John, quel piccolo bambino di ormai quasi 8 anni tanto dolce quanto lo spray alla vaniglia che mi dava sempre il mio vecchio padrone…
John pianse per circa 1 ora, sapeva di aver perso qualcosa di importante, qualcosa che lo avrebbe protetto in questo viaggio.
E pure io sapevo di aver perso qualcosa, una sorella, un’amica di viaggio, una protezione per il piccolo John.
I due continuarono il viaggio verso l’Italia e Kessy, nel deserto, vive gli ultimi momenti della sua vita prima di essere totalmente sepolta, pensando a Betty, la sua compagna di viaggio ormai senza di lei, e a John quel piccolo bambino di 8 anni con un cuore ottimista e così innocente che sa che raggiungerà la meta,… ma non sa che deve solo sperare di riuscirsi.
IRENE PASQUALE 3DL
RACCONTO DELL’ESPERIENZA DI UN PROFUGO DAL PUNTO DI VISTA DI UN BARCONE
Questa povera gente vede in me un mezzo di fuga dal loro paese affamato o colpito dalla guerra per poi sbarcare in terre più fortunate e dove ripone tanta fiducia nella speranza di un futuro migliore. Sono tante le persone ogni giorno che mi vogliono utilizzare per scappare dalla loro realtà: donne e uomini adulti, bambini molto piccoli, ragazzini e ragazzine. Penso sempre a quanto possa essere sfortunata certa gente e a chi invece è privilegiato: è una disgrazia vedere questi bambini così piccoli che non possono essere istruiti e che i loro genitori non possano rimboccargli le coperte alla sera, o che questi uomini e queste donne non possono avere una casa dove dar da mangiare ai loro figli, o che questi ragazzini non possono vivere tranquillamente con i propri coetanei, cosa fondamentale alla loro età.
A volte però, le persone che mi vogliono usare per mettersi in salvo sono veramente troppe. Sono così tante che rischio di capovolgermi da un momento all’altro, e a volte mi riescono anche a sfondare dal troppo peso. Mi dispiace tanto di non poterli aiutare qualche volta. Quando vedono che non ce la faccio più piangono, mi implorano di farcela e di aiutarli. Migliaia di altri barconi sono nella mia stessa situazione ogni giorno e ognuno di noi ha questa consapevolezza che non tutte queste persone vivranno.
Come sempre, adesso sto usando tutte le mie energie per poter fare del mio meglio: c’è un temporale molto forte, ci sono delle onde molto alte che non credo di riuscire a superare. Ora sta grandinando ed il duro ghiaccio sta ammaccando il mio legno marrone e sta facendo del male a queste povere persone. Ma dopo un lunghissimo viaggio ho portato a termine il mio compito: sono riuscito a portare tutta questa gente in salvo. Ora (forse) potranno avere una casa, un lavoro, del cibo, delle possibilità per vivere e questi bambini potranno finalmente andare a scuola. Ma ogni giorno è una sorpresa; oggi ce l’ho fatta, ma non so domani cosa succederà.
EMMA FRACASSO 3AL
SE QUESTA E' VITA
Voi che avete una casa in cui vivete con le vostre famiglie
Voi che possedete ogni diritto umano e vi è riconosciuto ogni vostro valore
Considerate se questo è un uomo:
Colui che abbandona il proprio Paese e i propri cari in cerca di una vita migliore
Che con migliaia di altri migranti su un barcone attraversa i mari rischiando la vita
Che se non viene accettato in Italia viene mandato nelle prigioni libiche
dove viene torturato e reso schiavo
Che piuttosto di essere prigioniero in Libia, preferisce morire in mare.
Considerate se questa è una donna
Costretta a fuggire dalla sua famiglia
Costretta ad allontanarsi dai propri figli per garantir loro un futuro migliore
Resa schiava nelle prigioni libiche dove viene violentata e fatta prostituire.
Meditate perché tutto ciò sta accadendo in questo momento a pochi chilometri da voi:
Vi comando queste parole.
Tenetele bene a mente
E anziché disprezzare e giudicare queste persone
Non accogliendole a causa della vostra ignoranza e del vostro egoismo
Siate consapevoli di ciò che esse vivono
Perchè, ahimè, in passato, anche voi eravate migranti.
Lottate per rendere tutti gli abitanti del pianeta uguali e con gli stessi diritti
Permettete loro di vivere una vita con una casa, un lavoro, uno stipendio e una famiglia
Non fermandovi alle apparenze per paura di conoscere il diverso
Perchè un domani tutto ciò potrebbe capitare anche a voi.
EMMA ATTINA' 3AL
SE QUESTO E’ VIVERE…
Voi che tornate a casa la sera, finito il lavoro
Voi che vi addormentate in morbidi letti,
Dopo aver rimboccato le coperte ai vostri figli
Voi che vi svegliate con le stesse certezze che avevate ieri
Considerate se questo è un uomo:
Messo nelle condizioni per cui morire è meno spaventoso che restare
Ammassato in minuscole barche come merce da carico
Considerato un criminale, una minaccia alla purezza
Indotto a vedere nelle sue scarpe malconce l’unica speranza per la libertà
Considerate se questa è una donna:
Costretta a vivere in fuga, respinta da tutti
Subordinata, reclusa, priva di prospettive in un mondo di soli uomini
Venduta come una schiava nelle prigioni libiche
Portata a separarsi da suo figlio in un aeroporto per garantirgli una vita migliore Meditate che questo è stato ed è tuttora:
Custodite tali parole, diffondetele
Questo è un ciclo che si ripete, ottanta anni fa come ora
Aprite gli occhi, guardatevi intorno, non voltatevi dall’altra parte;
Guardate al di là di quei pregiudizi che vi incatenano,
Battetevi, combattete per coloro che non hanno più forze di farlo.
Perché nessun uomo, nessuna donna debba più vivere così,
E non dimenticate che immigrati lo siamo stati anche noi.
MARIA DOVIGO 3CL
RACCONTO DALLE FRONTIERE
Questa storia non è di sicuro una favola per bambini e le vicende qui narrate sono fatti che accadono quotidianamente da secoli.
La storia mia e quella della mia padrona è una storia comune a molte donne e ragazze afghane che lasciano il loro Paese in cerca di un futuro migliore e di un posto sicuro dalle discriminazioni da poter chiamare “casa”, nonostante il loro cuore rimarrà sempre nella loro madrepatria in cui avevano avuto il coraggio di sognare il loro futuro e che le aveva, di fatto, nutrite e cresciute.
Ricordo ancora la prima volta che ci incontrammo per lei era la prima volta ed era molto emozionata all’idea che da quel giorno avrebbe potuto definirsi una donna. La madre mi aveva regalato a lei per il suo compleanno e subito con gli occhi pieni di gioia era corsa ad indossarmi. Era fragile e io la proteggevo; era una bambina ma io la rendevo una donna. Non ero sicuramente il velo più bello, quelli li aveva venduti immediatamente per avere i soldi per partire. Aveva tenuto solo me nonostante fossi ormai un po’ vecchio: il nostro era un legame speciale e le ricordavo i momenti felici, che portava stretti nel suo cuore. Quando mi indossava nelle giornate prima di questo fatidico giorno l’aria intorno era dolce e spensierata, mentre giocava alla carampana. Ma da allora le giornate erano amare e sembravano sospese sopra un sottile filo tra vita e morte, mentre schivavamo mine, fili spinati, muri e porte chiuse. Le porte chiuse erano la parte peggiore in queste giornate, quando nessuno la aiutava e doveva trovare un altro posto. In quei momenti pioveva sempre molto forte, però non riuscivo a proteggerla dalle tempeste del suo cuore. Ricordo le giornate quando giocava con le amiche sotto il Sole cocente dell’estate, ma non aveva paura di scaldarsi troppo la testa perché sapeva che io l’avrei impedito. Ora però fuggevamo nei boschi oscuri nella notte e non la potevo proteggere dai soldati o dalle belve e la paura in quei momenti era forte, molto forte, ma sapevo che non avrebbe ceduto. Ricordo i giorni di festa e quelli allegri dove ballava nel giardino di casa e cantava sotto il cielo limpido e lucente che le illuminava il viso. Le giornate ora erano, invece, cupe sulle nostre teste e con il cuore devastato, ma andava fatto, era necessario. Ma era davvero necessario? Ancora ricordo i giorni in cui anch’io risplendevo alla tua bellezza ed ero così lucente e possente, mentre adornavo il tuo capo. La verità è che era lei a rendermi bello: lei risplendeva di bellezza, io ero solo un banale accessorio… La sua bellezza, a differenza della mia, fa ancora parte di lei nel profondo, ma è stata la verità a toglierla. Io, d’altro canto, non sono più quello di una volta: ho perso la mia lucentezza e il tempo mi ha usurato. Ormai non le ero più di alcun aiuto, sapevo che l’avrei dovuta lasciare. Così presi coraggio un giorno e mentre tentava di scavalcare una delle tante porte chiuse, rimasi impigliato appositamente sul filo spinato delle barriere. “Vai e corri più forte che puoi!” :fu il mio augurio prima di lasciarla. Pensavo davvero avremmo potuto realizzare tutti i nostri sogni, ma in quel momento sentii l’ennesima aria tesa farsi più soffocante rispetto al solito e poi dei forti rumori di armi da fuoco e urla disperate. Non ebbi il coraggio di guardare, ma nonostante tutto so che lei ora è libera come me che volo trasportato da questo vento, ormai,leggero e rassicurante.
MARTINA CASTEGNARO 3DL