“E ad alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospettiva degli spazi, le costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove, sfera che contiene tutto e non la contiene nessun limite, e solo uno sfittire della sua trama, come una breccia, apriva verso Venere, per farla risaltare sola sopra la cornice della terra, con la sua ferma trafittura di luce esplosa e concentrata in un punto. Sospesa in questo cielo, la luna nuova anziché ostentare l’astratta apparenza di mezzaluna rivelava la sua natura di sfera opaca illuminata intorno dagli sbiechi raggi d’un sole perduto dalla terra, ma che pur conserva - come può vedersi solo in certe notti di prima estate - il suo caldo colore”.
Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923. Trascorre la sua infanzia e giovinezza in Italia, dove vive a Sanremo tra la Villa Meridiana e la campagna avita di San Giovanni Battista. Renitente alla leva della Repubblica di Salò, nel 1943 entra nella resistenza e combatte con i partigiani delle Brigate Garibaldi. Nel 1944 dopo essere venuto a conoscenza della morte in combattimento del giovane medico comunista Felice Cascione, si iscrive al PCI (Partito Comunista Italiano) e insieme al fratello sedicenne Floriano si unisce alla seconda divisione d’assalto Garibaldi sulle Alpi Marittime, scenario di alcuni tra i più aspri scontri tra partigiani e nazifascisti. Al termine della guerra, nel 1945, si trasferisce a Torino dove frequenta la facoltà di Lettere. Attivista del PCI, scrive su vari periodici tra i quali “La voce della democrazia”, “La nostra lotta”, “Il Garibaldino”. Nel 1946 Calvino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi, grazie alla quale stringe legami di amicizia e fervido confronto intellettuale con letterati, storici e filosofi tra cui Pavese, Vittorini, Venturi e Natalia Ginzburg. In questi anni inizia inoltre la stesura del suo primo romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” nel quale narra la sua esperienza da partigiano durante la Resistenza.
Nel 1964 sposa Chichita e torna a Cuba dove visita i luoghi natali e tiene un colloquio con Ernesto “Che” Guevara. Ritorna poi a Roma dove vive insieme alla moglie in via Monte Brianzo.
Nel 1967 si trasferisce a Parigi dove vive a Square de Châtillon e dove viene a contatto con gli ambienti culturali più all’avanguardia. Nel 1985 torna a Roma, dove collabora nuovamente con la casa editrice Einaudi, tiene una serie di conferenze presso l’università di Harvard. Colpito da ictus il 6 settembre viene ricoverato all’ospedale Santa Maria della Scala di Siena. Muore nella notte tra il 18 e il 19 settembre.
Nelle sue opere Calvino affronta i temi, tipici del periodo neorealista, legati alla contraddizione del vivere moderno, mettendo in scena con grande ironia le assurdità della nostra società. Con la sua narrativa Calvino tende alla trasfigurazione fantastica della realtà e attraverso il tono favoloso e l’invenzione grottesca analizza e critica la società e gli uomini del tempo.
Uno tra i numerosi libri che ho avuto il piacere di leggere e che a mio parere rappresenta al meglio la realtà complicata del mondo moderno è Marcovaldo ovvero le stagioni in città, nel quale Calvino ironizza sul “miracolo economico” e sulla “civiltà del consumo”. Questo libro, nonostante la sua vena ironica, è però spunto di numerose riflessioni. Pubblicato per la prima volta nel novembre del 1963, a Torino dalla casa editrice Einaudi, è composto da venti novelle. Ogni novella è dedicata ad una stagione e il ciclo delle quattro stagioni si ripete nel libro per cinque volte. Ogni novella narra le avventure del protagonista Marcovaldo, seguendo uno schema comune: in mezzo alla grande città Marcovaldo scruta il riaffiorare delle stagioni, sogna il ritorno a uno stato di natura, va incontro a un immancabile delusione. Le caratteristiche del protagonista sono appena accennate; Marcovaldo è un manovale o uomo di fatica che lavora per la ditta Sbav, sposato con Domitilla, ha sei figli Michelino, Pietruccio, Filippetto, Isolina e Teresa. Il protagonista vive insieme alla famiglia in una grande città industriale del Nord Italia, nella quale tra i grandi palazzi, i supermercati e le fabbriche sempre in espansione, egli vive la propria vita nella ricerca costante della Natura. Ma quella che egli trova è una natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale.
Tema principale di tutte le novelle è infatti il contrasto tra Natura e Città. Se da una parte vi è la natura che con le sue meraviglie ad ogni stagione cerca di emergere tra il grigio cemento, dall’altra vi è la città industriale che muovendosi con ritmo frenetico e disumano non solo soffoca la natura ma sottomette i cittadini alle leggi della produzione e del consumismo.
Il libro è ambientato infatti tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, periodo durante il quale si verifica il boom economico. Scritto nell’arco di dieci anni, tra il 1952 e il 1963, il libro segue gli sviluppi della realtà sociale italiana e i corrispondenti sviluppi nell’ambito letterario, anche se in esso non vi sono mai riferimenti diretti con la realtà attuale. Calvino comincia a scrivere le storie di Marcovaldo quando la corrente letteraria e cinematografica del neorealismo si sta ormai dissolvendo.
I temi che romanzi e film avevano fino ad allora illustrato, come la vita della povera gente che non sa cosa mettere in pentola per cena, anche se restano largamente attuali nella vita reale, nel mondo letterario iniziano a diventare dei luoghi comuni, conosciuti, che non suscitano più l’interesse del lettore. Calvino reinventa allora la favola che diventa di divagazione comico-melanconica. All’immagine di un’Italia povera si sostituisce quella di un’Italia che sta raggiungendo il livello di sviluppo tecnico e di possibilità di lavoro dei paesi ricchi. Nasce l’euforia, o meglio, l’illusione del miracolo economico. Attraverso la letteratura non si denuncia più la miseria dei cittadini ma un mondo nel quale tutti i valori diventano merci da vendere e comprare e tutto viene valutato in termini di produzione e consumo. La corsa di Marcovaldo insieme alla famiglia, sempre senza un solo, attraverso il supermarket gremito di prodotti, narrata nella sedicesima novella, è l’immagine simbolica di questa situazione.
Marcovaldo, personaggio buffo ma melanconico rappresenta l’uomo moderno costretto a lavorare per ottenere beni inutili, presentati dalla società come indispensabili. Egli però è soprattutto un uomo in cerca di un’autenticità che non è quella del guadagnare e spendere, ma dell’osservare e riflettere.
Egli infatti sembra essere l’unico ad accorgersi della bellezza della natura e dei suoi cambiamenti in ogni stagione. Nelle sue avventure la città, spazio del trionfo di un mondo artificiale, diventa il teatro della paradossale ricerca dei frammenti di una naturalità perduta.
“Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisce su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza”.
La città nella quale Marcovaldo vive non è mai nominata all’interno del libro, per alcuni aspetti potrebbe essere Milano, per altri invece Torino. Questa indeterminatezza è certamente voluta dall’autore e sta a sottolineare che quella di cui egli parla nelle pagine di questo libro non è una città, ma la città ovvero la metropoli industriale dove hanno luogo le avventure del protagonista. Anche l’azienda dove Marcovaldo lavora non è ben precisa. Nonostante sappiamo che lavori in una grande fabbrica chiamata Sbav l’autore non scrive mai cosa si fabbrica, cosa si vende e cosa contengono le casse che Marcovaldo scarica e carica otto ore al giorno. Come per la città non si tratta di una ditta, ma della ditta, simbolo di tutte le aziende, le società che regnano sulle persone e sulle cose.
A contrastare la semplicità della trama, vi è l’impostazione stilistica basata sull’alternarsi di un tono poetico-rarefatto e il contrappunto prosastico-ironico della vita urbana contemporanea. Come per sottolineare il carattere favolistico del libro, i personaggi, siano essi spazzini, guardie notturne, disoccupati o magazzinieri, portano nomi altisonanti, quasi da eroi di poemi cavallereschi, come Astolfo e Viligelmo.
Ogni novella è caratterizzata da uno sfondo melanconico, al quale si contrappone però l’ottimismo del protagonista; Marcovaldo nonostante le sue disavventure non è mia pessimista, ed è sempre pronto a riscoprire in mezzo al mondo che gli è ostile la speranza di riappacificarsi con la Natura.
Ho affrontato la lettura del libro Marcovaldo due volte. La prima non si può definire una vera e propria lettura, in quanto si trattava di un estratto riportato nel libro di antologia delle medie. La novella che veniva riportata era “La città smarrita nella neve”, e incuriosita dal titolo bizzarro, durante una noiosa lezione di grammatica, ho cominciato a leggerla. Da subito sono rimasta affascinata dalla figura del protagonista Marcovaldo, dalla sua goffaggine e dalla sua curiosità. Tornata a casa da scuola quindi sono andata in libreria, ho comprato il libro e mi sono immersa nella lettura. In circa tre giorni avevo già completato l’intera lettura del libro, e ancora oggi ricordo perfettamente le avventure che Marcovaldo vive in ogni novella.