Stefano Agnelli - La Signora del Gioco, un culto al femminile?

La “Signora del Gioco”, un culto al femminile?

Rileggendo gli appunti del seminario di C. Ginzburg: “Conflitti di culture nella prima età moderna” (Università degli studi di Bologna, a.a. 1986-87)

 

di Stefano Agnelli

 

A volte succede di ricevere un dono, ottenere un privilegio dato a pochi senza capire, almeno in quel momento, l’enorme importanza che avrà per il prosieguo della nostra formazione culturale ed umana allo stesso tempo. Così pensavo rileggendo gli appunti, inaspettatamente molto dettagliati, del seminario: Conflitti di culture nella prima età moderna, tenuto da Carlo Ginzburg, presso il Dipartimento di Storia dell’Università degli studi di Bologna, nei mesi fra dicembre e maggio dell’anno accademico 1986-87, due anni prima dell’uscita di Storia notturna, una decifrazione del sabba (Einaudi, Torino, 1989). Mai prima di allora, e forse neanche in seguito, ho frequentato un corso così utile e propedeutico per chi aspira a diventare ricercatore, docente di Storia. Già dopo qualche incontro, al termine delle due ore di seminario, noi tutti uscivamo dall’aula a malincuore: ci sarebbe toccato aspettare il giorno successivo per sapere come proseguiva la narrazione in atto, quel racconto affascinante, di cui beneficiavamo in anteprima, capace di riportare la mente di chi lo ascolta a quel periodo della storia moderna, dove si era formata l’immagine stereotipata del sabba. Mentre, al seguito di canonisti e vescovi - autori di penitenziali e manuali per istruire gli inquisitori – o degli stessi inquisitori, dei testimoni e degli inquisiti, durante i processi per stregoneria, ci accorgevamo quanto fosse complessa e stratificata quest’immagine, formatasi a partire dal XV secolo, apprendevamo anche ad “accarezzare le fonti contropelo”, come amava ripetere lo stesso Ginzburg. Ovvero a procedere per eliminazione, cercando di capire (per poterli eliminare o almeno ridurne gli effetti), quali pregiudizi guidano oggi i nostri occhi nella lettura di documenti vecchi di sei secoli, prodotti quasi unicamente dai persecutori (gli inquisitori), attraverso distorsioni e deformazioni più o meno violente (come la tortura). Documenti che presentano “filtri” (come la trascrizione, che avveniva spesso sotto dettatura ed in latino), capaci di aumentare la distanza fra la cultura dei perseguitati e quella dei persecutori. Ma anche ricercando l’anomalia, lo “scarto”, ovvero quel passo nel testo dove la narrazione lascia trapelare la voce dei perseguitati, in quanto difficilmente frutto della cultura dei persecutori,  perché a questa estraneo o riportato a margine, per sola dovizia di particolari da parte di chi redigeva il verbale dell’interrogatorio.

Veniamo ora alla materia, vecchia di secoli ma ancora ben viva, del seminario: un intreccio suggestivo, una rete complessa di “connessioni morfologiche”(così come la definì Ginzburg stesso, sulla base di alcune osservazioni di Wittgenstein), che si dipana nei secoli, anticipando la trattazione più vasta ed organica di Storia notturna.

Verso il 906, in una raccolta di istruzioni destinate ai vescovi, per estirpare credenze e pratiche religiose superstiziose dalle parrocchie, Reginone di Prum include un passo derivato con buona probabilità da un capitolare franco più antico:

 

“Illud etiam non est omittendum, quod quaedam sceleratae mulieres, retro post Satanam conversae, daemonum illusionibus et phantasmatibus seductae, credunt se et profitenrunt nocturnis horis cum Diana paganorum dea et innumera moltitudine mulierum equitare super quasdam bestias, et multa terrarum spatia intempestatae noctis silentio pertransire, eiusque iussionibus velut dominae obedire, et certis noctis ad eius servitium evocati.” (“Non bisogna tacere che certe donne scellerate, divenute seguaci di satana, sedotte dalle fantastiche illusioni dei demoni, sostengono di cavalcare la notte sopra certe bestie assieme a Diana, dea dei pagani, e a una gran moltitudine di donne, di percorrere grandi distanze nel silenzio della notte profonda; di obbedire agli ordini della dea, come se fosse la loro signora; di essere chiamate certe notti a servirla” – C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino, 2008 (1989), pp. 65-66).

Indicato con l’abbreviazione di Canon episcopi, parole prese dal titolo che lo precedeva, il passo ebbe una grande diffusione e lo si trova spesso citato nei testi successivi della letteratura canonistica, fino ad essere considerato da molti inquisitori, a partire dalla fine del XIV secolo, la prima testimonianza scritta dell’esistenza di un’antica setta, composta quasi interamente da donne, in cui si vedeva già l’opera del demonio, e che dimostrava l’esistenza secolare di un complotto contro la cristianità. Tuttavia, la maggior parte dei demonologi del XV secolo, convinti  della realtà del sabba, pur facendo riferimento al Canone ed alle sue varianti successive, non credeva in una continuità fra la setta menzionata da Reginone e le donne accusate di stregoneria (“ista secta non est illa”).

Nei primi anni del secolo XI però, Burcardo di Worms nel suo Decretum già riprendeva il passo che abbiamo citato introducendo minime varianti, e affiancando all’identificazione della misteriosa “signora” con Diana paganorum dea, quella con Herodiade (“cum Diana paganorum dea vel Herodiade”, detta Herodiade), cioè con la variante ctonia (“sotterranea”, legata al mondo dei defunti), della divinità greco-romana, ed introducendo anche la parola germanica Holda, per designare il corteo di donne al seguito della dea, termine di origine folclorica che in alcune zone dell’attuale Germania, stava ad indicare il cosiddetto “esercito furioso” (Wutischend Heer), o “caccia selvaggia” (Wilde Jagd), ovvero una schiera notturna composta dalle anime senza pace dei defunti (soldati uccisi in battaglia, bambini morti prima del battesimo, ecc.), guidata da personaggi mitici come Wotan, Odin o Artù. Una credenza popolare riportata,  proprio a partire dall’XI secolo, da molti testi letterari europei in latino ed in volgare, dalla Germania alla Francia (Mesnie furieuse, Chasse sauvage), dall’Inghilterra (Wild Hunt), all’Italia a alla Spagna, e persino in Scandinavia. Per Reginone, ed anche per Burcardo, questa “cavalcata notturna” non costituiva poi un peccato così grave, la consideravano frutto dell’immaginazione, illusione demoniaca certo, ma pur sempre illusione (credunt, recita il Canon), non realtà: alle sceleratae mulieres andavano prescritti soltanto penitenza e digiuno.

Sul finire del XIV secolo gli inquisitori iniziarono però a considerare diversamente questi racconti. A partire dai primi anni dello stesso secolo infatti, ebbero inizio, in grande stile, i processi contro gli eretici, condotti da membri degli ordini domenicano e francescano, ed ogni presunto contatto con il demonio venne considerato anche un formale tentativo di abiura della fede cristiana. Inutile dire che in molti casi il processo si concludeva con la morte dell’imputata o dell’imputato.  Nel 1384 Sibillia, moglie di Lombardo de Fraguliati e Pierina, moglie di Pietro de Bripio comparvero, separatamente e per la prima volta davanti all’inquisizione, nella persona del domenicano fra’ Ruggero da Casale, perché accusate di recarsi periodicamente al “gioco” di Diana che esse chiamano (quam appellant) Erodiade. Negli anni successivi le due donne verranno processate più volte e infine condannate a morte nel 1390 perché “recidive” (relapsae). Nelle carte rimaste, Sibillia e Pierina, durante gli interrogatori, si riferiscono però alla donna che guida i convegni notturni soltanto con il nome di “Madona Horiente”: abbassando il capo in segno di riverenza Sibillia le avrebbe rivolto, ogni giovedì notte, il seguente saluto: “Ben stage, Madona Horiente”, a cui essa rispondeva: “Bene veniatis, filie mee” , mentre a Pierina rispondeva invece: “Bene stetis, bona gens”. Pierina raccontò inoltre agli inquisitori che Oriente e la sua “società” vanno in giro di notte per le case, soprattutto quelle dei ricchi, dove mangiano e bevono, e quando trovano case ben spazzate ed ordinate Oriente le benedice. Il riferimento al Canon episcopi era dunque servito ancora una volta ad orientare gli inquisitori di fronte ad un’insieme di credenze locali che rimandavano, a loro insaputa, ad uno strato ben più profondo e diffuso. Nel 1457 Niccolò Cusano, allora vescovo di Bressanone, tenne una predica durante la quaresima il cui tema erano le parole rivolte da Satana a Cristo nel deserto per tentarlo (Luca, 4, 7), e le illustrò raccontando di aver interrogato tre vecchie della val di Fassa, due delle quali avevano confessato di appartenere alla “società” di Diana. In realtà le due vecchie sostenevano di aver incontrato una “buona signora” (bona domina), Richella, questo era il suo nome, che era giunta loro di notte sopra ad un carro, alla quale avevano reso poi omaggio, e di essere andate più volte in una radura dove erano riunite molte persone che facevano festa e di aver visto alcuni di loro, divorare bambini non battezzati. Cusano, mostrando grande erudizione e sulla base del Canon episcopi, disse durante la predica che questa “Richella”, cioè la madre della ricchezza e della buona sorte, altro non era se non la traduzione di Abundia o Satia, una figura menzionata da Guglielmo d’Alvernia e Vincenzo di Beauvais, che a sua volta rimandava ad una versione del Canone in cui si dice che le seguaci di Diana “la venerano come se fosse la Fortuna, e sono chiamate, in lingua volgare, Hulden, da Hulda” (C. Ginzburg, cit., p. 71). Tra la seconda metà del ‘400 e l’inizio del ‘500 si assiste, nei processi inquisitoriali, ad uno “slittamento forzato delle vecchie credenze verso lo stereotipo del sabba” (cit., p. 73), eppure queste resistono ancora, come testimoniano una serie di processi scozzesi della fine del ‘500, dove diverse donne raccontarono di essersi recate in spirito dalla “buona gente”, dai “buoni vicini”, termini molto simili a la “donna del bon zogo” (processi della val di Fiemme), o al “gioco della buona società”, espressione che veniva usata nello stesso periodo nel comasco per indicare i raduni notturni.  Fra gli appunti del corso c’è un elenco per similitudini e assonanze, incluso poi in Storia notturna, di alcuni dei nomi assunti dalla “signora del gioco” e dal suo seguito, tra il XIII ed il XVII secolo, che Ginzburg scrisse alla lavagna per mostrare le analogie morfologiche tra vocaboli così lontani nel tempo e nello spazio:

 

1200

×          BONAE RES – Vincenzo di Beauvais, Speculum morale.

×          DAME HABONDE; BONNES DAMES (il corteo) – Roman de la Rose.

×          BONAE MULIERES – Jacopo da Varagine, Vita di san Germano.

×          BENSOZIA – Canone di Conserans.

1300

×          BONA GENS – sentenza del processo a Pierina di Pietro de Bripio.

 

 

1400

×          BUONA SIGNORA – predica di Niccolò Cusano a Bressanone nel 1457.

1500

×          DONNA DEL BON ZOGO – Val di Fiemme.

1600

×          BUONI VICINI; BUONA GENTE – Scozia.

×          BENANDANTI - Friuli

 

Attraverso l’uso delle categorie adottate e studiate da N. Conh, nel suo Europe’s Inner Demons (1975), ed isolando alcuni elementi (estasi, volo e metamorfosi in animali), tra le accuse rivolte alle presunte streghe, che sembrano comparire soltanto nei processi per stregoneria, Ginzburg ci spiegò che stava cercando di risalire al nucleo folclorico originale del sabba. Adorazione di idoli animali, antropofagia, ed orge a carattere sessuale, apparterrebbero infatti ad un nucleo già adottato contro gruppi ereticali quali pauliciani, dualisti e catari. Lo stereotipo del sabba a questo punto iniziava a comporsi sotto i nostri occhi. Assieme alla figura del demonio, aggiunta in seguito dagli inquisitori, e confermata dagli imputati solo dopo la tortura, esisteva un nucleo più antico a cui appartengono estasi, metamorfosi e volo magico - per cui Ginzburg propose un’origine sciamanica eurasiatica – che si sarebbe fuso con elementi folclorici celtici, riassunti nelle caratteristiche della dea Epona. Identificata con Diana-Herodiade in base ad una serie di testimonianze (Gregorio di Tours ed una vita di San Ciliano), ma soprattutto grazie ad un’incisione funeraria che rappresenta una figura a cavallo di un animale con le corna  (recante la scritta: “fera com era”, “con la crudele Era”), rinvenuta in un sepolcro del Delfinato, risalente al IV secolo, questa figura femminile graffita sulla tegola sembra confermare “l’interpretazione in chiave funeraria della credenza sulle donne “illuse”, che cavalcano “su certe bestie” al seguito di “Diana dea dei pagani” (…) le più antiche testimonianze sulla cavalcata di Diana provengono da Prum, da Worms e da Treviri – ossia da una zona in cui è stata rinvenuta una gran quantità di raffigurazioni di Epona a cavallo.” (C. Ginzburg, cit., p. 82). Assieme alla dea Epona si fusero altre figure del mondo religioso celtico, ormai in via di dissoluzione davanti all’incedere prepotente del cristianesimo, quelle delle matronae, spiriti che appaiono sotto forma di fanciulle vestite di bianco, nei boschi e nelle stalle, a loro volta eco tarda delle Matrae o Matres, tre divinità legate al mondo dei defunti che già Burcardo di Worms identificò con le Parche. Tutte queste divinità femminili sarebbero riconducibili, attraverso la dea Artio (dalla forma ursina), ad un attributo originario di Artemide: quello di “signora degli animali”, dietro cui vi sarebbe una “dea notturna semi-ferina o circondata da animali (…) lontanissima erede delle divinità eurasiatiche protettrici della caccia e della foresta.” (C. Ginzburg, cit., p. 192). Il legame tra l’estasi e mondo dei defunti, appare evidente se si considera che, durante lo stato estatico, l’anima abbandona, seppur temporaneamente il corpo, salvo rientrarvi una volta esaurito il compito prefisso.  Ciò che appare interessante è come sia stato possibile, considerando che il ruolo dello sciamano nelle società primitive era ricoperto unicamente da figure maschili, che sia avvenuta una separazione così netta fra la visione dell’esercito furioso, della schiera dei morti, guidata da figure maschili, che si manifestava unicamente a uomini (cacciatori, pellegrini o viandanti), e l’apparizione del corteo delle donne estatiche, guidato da figure femminili, che si manifestava quasi esclusivamente a donne. Entrambe queste “apparizioni” sono legate indissolubilmente all’antica prerogativa sciamanica del viaggio ultraterreno –  unicamente maschile. Sarebbe poi interessante confrontare la diffusione del culto mariano fra le donne della campagna, in ambito cristiano, con la presenza di questo antico culto al femminile, senza per questo avvallare l’ipotesi, formulata negli anni Settanta da Luisa Muraro, che i processi milanesi fossero la testimonianza di un’aspirazione tutta femminile a un mondo separato o “alla rovescia”, composto da sole donne e governato da una sapiente dea madre.