Sara Alzetta - La pace di Fannie e Anita I

La pace di Fannie e Anita I

di Sara Alzetta

 

NARRATORE: Fannie ora si vestiva con abiti scivolati in vita e corti al polpaccio.

A confezionarli era buona lei stessa, con l’aiuto della mamma.

Non ci si sentiva a suo agio. Si lisciava continuamente la gonna, per paura che le salisse sulle gambe.

Le scarpine che si usavano allora, scollate, di pelle di guanto e molto strette in punta, come quelle che portava la figlia del primario, con quei piedoni che gli eleganti décolleté non riuscivano a contenere, no, quelle non poteva permettersele.

FANNIE: Non erano per me: troppo care e duravano poco.

Per me  erano le scarpe ordinarie, comode si diceva, e andava bene così.

Mi servivano per bene, quelle scarpe, quando alla mattina presto battevo il selciato intirizzita, andando al lavoro.

Il droghiere all’angolo alzava la saracinesca e mi salutava; ogni giorno le stesse considerazioni sul tempo e gli stessi modi impacciati e untuosi.

Inchinando la testa leggermente, alla maniera del contabile della scala di fronte, vedovo e con la madre inferma a carico.

Scarpe comode vedovi, celibi appassiti: questo era per me.  

Ma andava bene così, mi dicevo facendo un cenno alla mamma che mi salutava da oltre i vetri della finestra a sburto della cucina, agitando la mano piccola e rotonda.

Eravamo tornate a abitare il nostro appartamento di Trieste, unico lascito di papà, morto poco prima della fine della guerra, quando già si delineavano l’epilogo rovinoso dell’Austria-Ungheria e quello conseguente del suo patrimonio, largamente investito in obbligazioni di guerra.

Della nostra casa, ampia, raffinata nell’arredo, occupavamo la cucina e la stanza attigua. Tutte le altre porte erano chiuse, per non disperdere il calore dello sparger.

La mamma lo accendeva al mattino presto – l’acqua,  poca, era erogata da mezzanotte alle 7 di mattina e bisognava fare scorta per tutta la giornata –.

Quando mi alzavo il caffè di cicoria e il latte li trovavo caldi e l’acqua della caldaietta dello sparger, bollente.

Ci si lavava così.

Di quelle porte chiuse, dei rotolini antispifferi che le sigillavano, segni tangibili del mutamento del nostro stato, la mamma rideva di cuore.

Ero infermiera all’Ospedale Malattie Infettive, lei puliva, cucinava, lavava, stirava, rammendava, ma, a fine mese qualche conto in sospeso col panettiere, il dentista, c’era sempre.  

Mamma pensava di prendere dei pigionanti, anche se, Trieste, a guerra finita, si  spopolava. Morti, dispersi, austriaci e  tedeschi che se ne andavano. Ma i conti, le tasse di proprietà…La  nostra bella casa era davvero  grande e desolata per noi due sole.

STRILLONE: Il Popolo d’Italia! Leggete Il Popolo d’Italia, signori! Nei territori occupati della Venezia Giulia entra in vigore la lira! Il Popolo, signori! Leggete Il Popolo d’Italia!

ANITA:  L’affitto, e gli affitti arretrati.

E quel po’ di spesa per mangiare.

Anche se dalla padrona al mattino mi davano caffè e latte e pane con luganiga:  vienna o cragno, quello che c’era, insomma, e alla sera lo stesso ma con un bicchiere di birra.

Con l’arrivo dell’Italia i negozi di magnative erano più pieni che in tempo di guerra – sì sì -  quando in Austria, soprattutto alla fine, c’era carestia a causa del blocco navale.

E anche la padrona doveva ammetterlo, seppur a malincuor.

Ma per il resto “tutto era peggio, sicuro! perfin le acconciature, Anita!

Ora che si usavano i capelli corti anche lei li aveva tagliati, mantenendo però un rialzo sulla cima, come un nido de useleti, pensavo io, che dava al suo profilo appesantito un piglio tempestoso, militare (..si, che avevo visto, io delle foto di quello scritore... D’Annunzio?... no so).

In casa il “vecio impero” era dapartuto: il salottino era un museo asburgico. “Che desolazione. Ai bei tempi non c’era artista, musicista, cantante  d’operetta, e  perfino d’opera, che non venisse a farmi visita, anche se era di passaggio”.

Insomma perfin el vecio bubez, che la signora diceva factotum  - cambiava  le lampadine e sturava i sifoni portando la giubba di un reggimento balcanico dell’imperatore Francesco Giuseppe, in cui aveva servito 50 anni prima, minimo.

Sì sì, un conforto per la padrona quest’uomo: con lui parlava di politica –

e il vecchio, per sordità o condiscendenza annuiva: ja ja.

Per il resto la signora era sola: era rimasta senza famiglia, amici,  appoggi, «necessari, Anita, a una donna sola come me. Se ne sono andati tutti.

Non che io li avrei accettati, gli appoggi.. sai che una donna deve sempre pagarne il prezzo, prima o poi. Eh, no, e non solo per il decoro! È una questione di sentimento, Anita! Non sono donna di mezze misure, io. Neanche con Herr Professor, buonanima».  Alludeva al marito e mi guardava, e ammiccava  a qualcosa di intimo che la faceva sorridere.

In casa non veniva nessuno ormai, fuorché una russa, una emigrata, “esiliata”, precisava lei, a causa della Rivoluzione, che un giorno diceva di essere una contessa, un altro la moglie di un diplomatico polacco sorpresa in Russia nell’ottobre dall’insurrezione e a volte una delle dame di corte della zarina Alexandra.  

Tu non sai quello che ho perso”, eco... era il loro argomento preferito: i balli, i ricevimenti, il teatro, l’opera. E si compiangevano l’una l’altra bevendo skjwasser, freddo d’estate, caldo d’inverno.

Finché la russa un giorno ti fa:  «E all’alba, dopo l’opera e il ballo, pattinavamo sul ghiaccio fino al sorgere del sole».

Definitivo: aveva fatto saltare il banco.

Da allora, a ogni allusione ai tempi perduti, la padrona ammutoliva costernata.

Fin quando, un giorno, era ormai primavera, la contessa russa si è presentata con la pelliccia e se l’è tenuta addosso per tutta la visita  – che ero contenta perché era una pelliccia che perdeva i peli solo a guardarla e quando la impiccavo ai picarini me ‘ndava el sangue in acqua, perché a ogni movimento spandeva intorno come una polverina -.

Per parlarsi avevano chiuso la porta.

Le vedo ancora oltre i vetri dei battenti: due povere vecchie e la russa  piangeva nella pelliccia.

E intanto, in quell’aprile del ’19, era anche morto il decrepito factotum e quello nuovo, un uomo mingherlino ma forte, con una barbetta come quella di Lenìn, come lo mostravano sulle foto dei giornali, questo bubez  nuovo che si chiamava Stefano, al primo discorso della padrona aveva risposto incupito: «Io non parlo di politica».

La politica era dapartuto in quel dopoguerra feroce: disoccupazione grande e miseria e scioperi e scontri di piazza…

E era anche capitato che, in aprile di quell’anno, il ’19 era, ho già deto, ci avevano cambiato la moneta. Lire e non più corone.

Ma lo scambio era da strozzini: 100 corone per 50 lire, quando prima era circa alla pari. Tanto che si diceva, dal Trentino alla Venezia Giulia: “l’Italia ci ha liberato al 50%”.

La pensione della signora, i suoi soldi, tuto adesso valeva la metà, tutto costava il doppio. Trasferirsi in Austria era l’unica per sopravvivere.

Ingrossata, coi piedi gonfi, amando con tutto il cuore e la passione la città che lasciava, si era avvicinata  a me che chiudevo le valige, mi aveva preso una mano fra le sue e l’aveva chiusa sul suo braccialetto migliore. Piangeva e anch’io con lei, che mai avrei creduto.

Tanto che, senza un soldo com’ero, non avevo avuto cuore di venderlo, quel regalo prezioso. Ero andata al Monte, questo sì, a impegnarlo, e avevo tirato avanti fin quasi a metà settembre, che quel giorno me lo ricordo.

STRILLONE: La Nazione, signori, comprate La Nazione! Gabriele D’Annunzio, alla testa dei gloriosi Legionari, occupa Fiume. La Nazione, leggete la Nazione! La città del Quarnaro annessa all’Italia!

NARRATORE:  L’inverno si preannuncia freddo nel dicembre del 1919.

Uno dei più freddi dall’inizio del secolo.

Bora e cieli sgombri.

Fannie guarda la luna dalla finestra a sburto della cucina.

Che fai tu luna in ciel, dimmi, che fai, silenziosa luna”. Reminiscenze scolastiche.

La luna illumina il mondo e vede e sa dov’è Mario.

A Gorizia, tenente delle truppe italiane lui, lei sfollata nella casa di Salcano, pochi anni prima, quando tutto era diverso, quando non riuscivano a incontrarsi si davano appuntamento a guardare la luna: alla stessa ora.

«Romanticume de la luna, sempiezi de fioi e roba de donete senza giudizio» avrebbe detto il papà. Morto senza che Fannie lo rivedesse.

E di Mario nessuna notizia da più di due anni.  

Dalla sera di Caporetto.

Mario. Aveva conquistato il cuore di lei con uno sguardo.

Perduto. Perduta felicità. Fannie passa le notti alla finestra.

Torna a letto in tempo perché la mamma, che si alza all’alba, la veda coricata.

«Buongiorno, Fannie, dormito bene?» 

«Benissimo, mamma, e tu?».

Notti in bianco per entrambe. Desiderio di essere ancora felici.  

(Voce Maschile):  “Sono tornato, Fannie”

FANNIE: “Sera della vigilia.

Trieste è come la bambola rotta di un Natale lontano.

La bora  solleva polvere e cartacce.

Per le strade poca gente, poca luce, il cielo da luna nuova è buio.

Fra i radi passanti frettolosi un gruppo di bambini si attarda.

Stretti sul marciapiede cantano “I Tre Re“ e chiedono la carità. (filastrocca I Tre Re).

A casa mi aspetta un piccolo abete da adornare assieme alla mamma.

Lei ha già tirato fuori da un bauletto gli addobbi scintillanti dei Natali passati: angeli

d’argento, globi rossi, stelle d’oro. Alla base dell’albero i regali: arance e mele avvolte nella stagnola. La mamma, che ha sentito i miei passi sulle scale,  spalanca la porta: “Fannie, vieni! Vedrai che sorpresa!  entra, vieni!”

(Voce maschile): “Sono tornato, Fannie”

FANNIE: Dalla soglia della cucina, in controluce, si muove verso di me, per un tempo interminabile, una figura alta e rigida.

Cadendo seduta sul canapé dell’ingresso riconosco Oswald.

Dall’agosto del ‘14 si era persa ogni traccia del fidanzato dei miei 18 anni.

Da quando era partito per il fronte della Galizia.

(Voce Maschile, parole che si accavallano su musica): …Il fronte rotto. Dopo quasi 30 ore di combattimenti e di ritirata... Persa Leopoli… Il 13 settembre prigioniero dei russi… Campo di prigionia in Siberia… Rivoluzione… Guerra Civile… Armate Bianche… Quattro mesi a piedi per arrivare a Trieste.  Sono Tornato, Fannie.

ANITA (cantando): E noi faremo come la Russia, e suoneremo il campanel, Falce e martel!

E suoneremo il campanello, falce martello trionferà.

Ah, la Russia, che entusiasmo! mai, mai si era sentito che operai e contadini avessero preso il potere.

E tutti speravamo che se era successo in Russia…

Perché, dopo tutte le promesse della propaganda di guerra che le donne si emancipavano attraverso il lavoro, quando i reduci son tornati e dovevano essere  occupati, la musica è cambiata: “donne, tornate a casa, al vostro posto, alla famiglia, ai figli!”.

Morale: le donne licenziate. La mia famiglia erano mia sorella e mia nonna, morte al Barackenlager di Wagna.

Mia sorella l’avevano ammazzata.

La nonna, si chiamavano Ida tutte due, dopo aver resistito a tanti disgrazie e aver tanto battagliato, se n’era andata, lei assieme a tanti altri milioni.

Spagnola hanno chiamato quella malattia che, nell’inverno 18-19, si è portata via più gente della guerra.

L’amore, poi! A quello  non credevo sicuro!

Mia mamma, quando mio papà era sparito, si era caricata tutto il peso e la sera, dopo 14 ore di lavori e strapazzi, tornava a casa come un fantasma.

Ma a ammazzarla è stato  l’amore e l’abbandono.

Il mio nuovo amico, che era poi quel Stefano factotum della padrona, che si chiamava veramente Stefan e era sloveno, diceva: l’amore appartiene a una concezione borghese della vita.

La sera passavo dalla sua bottega, che era uno sgabuzzino d’angolo, con retro cucina e water, e Stefan mangiava e dormiva là, e parlavamo dei grandi cambiamenti che ci aspettavano.

Proprio così: prima erano sempre le altre, le ragazze di famiglie ricche, dove noi eravamo a servizio, che facevano gran matrimoni.

Addirittura ai Veglioni vincevano i premi, che si diceva cotijòn.

Mai si era sentito che una Sgorbissa prendeva un omaggio.

Ma adesso anche noi eravamo “nella storia”, come diceva Stefan, nel suo antro scuro dove aveva appeso il cartello “Qua non si parla di politica“.

Con lui ero andata a San Giacomo quell’8 settembre del ’20.

(INTERNAZIONALE Cantata)

NARRATORE: Venerdì Fannie ha il turno di giorno: finisce alle 6 del pomeriggio.

Quel venerdì 9 settembre 1920 non torna a casa subito.

A casa c’è Oswald che passa le giornate a letto.

Per lui la mamma ha aperto un’altra stanza vicina alla cucina, per lui s’indebita, per comprargli il brandy, meno caro del cognac che lui ama tanto.

La mamma, il suo talento per il grandioso, aveva detto di sì alla proposta di matrimonio di Oswald quasi prima di Fannie.

Che ora ha 24 anni, dorme sonni di piombo e non sogna più.

Si sveglia al mattino con gli occhi asciutti ma il suo cuore è oppresso.

FANNIE: Sono stanca di dover abbassare gli occhi sotto lo sguardo della mamma.

Ho 24 anni, sono ancora giovane! mamma, guarda tua figlia!

Desideravo  poter  parlare e liberarmi dalla colpa.

Ma intanto, tutto intorno, in piazza San Giacomo, c’erano le barricate e spari e manifestanti che fronteggiavano i carabinieri e le guardie perfino soldati.

Fra di loro mi passa vicino un ufficiale che riconosco: è stato sottotenente di Mario.

Mi vede, mi prende per il braccio e ripariamo dietro un angolo

(Voce Maschile): Signorina, dove ci ritroviamo! Che dolore sparare contro i civili.

A Trieste, poi  - che tanti di noi sono morti per liberarla. Ma come mai lei qui?  Il tenente Bertolucci quanto l’ha cercata! Non si è mai dato pace!

FANNIE: Mario. Ma allora è vivo?!    

(Voce Maschile, parole che si accavallano, distorsioni):  “Sono tornato, Fannie.  Non ho che te.

Tornerò.

Tornerò a essere l’uomo che ero, l’uomo che tu meriti.

Mi hai aspettato.

Se tu sapessi, Fannie.

Stai con me. 

Presto ti porterò con me. 

Presto saremo a casa.