Il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro e l’abolizione del rito aquileiese

di

Giuseppe Trebbi

(Ordinario di Storia Moderna al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste)

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L’importanza della liturgia e del suo radicamento nelle tradizioni locali della Chiesa del Cinquecento fu sottolineata molti anni fa da uno storico laico e crociano, ma attento e sensibile interprete delle fonti documentarie, come Federico Chabod.

Riflettendo sulle cause per cui la Riforma protestante, largamente diffusasi in territorio lombardo, non aveva attecchito a Milano, lo storico valdostano rivolse la sua attenzione alla liturgia ambrosiana e al nesso inscindibile che essa istituiva tra orgoglio milanese e culto cattolico. Fu una notevole intuizione, cui non sono mancate successive conferme.

Dobbiamo infatti a uno studio di Paolo Prodi (erede con Giuseppe Alberigo dell’insegnamento di Hubert Jedin) la dimostrazione che questa stessa sensibilità, questa capacità di cogliere la funzione essenziale della liturgia ambrosiana nella polemica antiprotestante, fu intensamente avvertita nell’esperienza pastorale di Carlo Borromeo. Posto di fronte alla richiesta curiale di sacrificare l’autonomia liturgica ambrosiana all’esigenza dell’uniformità con la Chiesa di Roma san Carlo rispose con un’appassionata lettera in cui il rito della Chiesa milanese era lodato, oltre che per la sua bellezza, anche per la sua funzione apologetica.  I protestanti erano vicini (sarebbero rimasti in Valtellina fino al 1620) e non ci si poteva privare di un’arma così efficace contro di loro: continuamente il clero e lo stesso arcivescovo facevano riferimento, a scopo apologetico, a passi della liturgia ambrosiana, chiamati a confermare l’antica fede.

Le argomentazioni di Carlo Borromeo ebbero successo, anche perché, sul piano normativo, papa Pio V, nell’introdurre il suo messale, aveva esplicitamente fatto salvi i riti particolari che potevano vantare un’antichità superiore ai due secoli. Tale era sicuramente la situazione del rito ambrosiano; ma plurisecolare era anche la tradizione del rito patriarchino aquileiese, quali che fossero le sue discusse origini.

È infatti possibile che il rito aquileiese fosse solo una variante locale del rito romano, come sostenne diversi anni fa il padre Bonifacio Baroffio. Ma esso era percepito come antico, ed era oramai solidamente incorporato nelle tradizioni del Cristianesimo aquileiese.

Perciò la discussione post-tridentina sulle sue sorti fu vivacissima, così nel Friuli, come nelle terre austriache del patriarcato e persino nella diocesi di Como, dove ancora si conservava e dove costituì negli anni ‘70 la premessa per la resistenza del clero comasco alla riforma disciplinare promossa dal visitatore apostolico Giovan Francesco Bonomi.

Di fatto, anche quando il meccanismo centralizzatore delle grandi visite apostoliche coinvolse il patriarcato di Aquileia, il visitatore Cesare De Nores, prelato di origini cipriote molto stimato da Agostino Valier, non si pronunciò in favore della sua soppressione, bensì piuttosto per una sorta di restauro conservativo, forse filologicamente non perfetto, ma chiaramente rivolto a preservare l’antica liturgia.

Di tutt’altro avviso si mostrò, alla metà degli anni ’90, il nuovo patriarca di Aquileia Francesco Barbaro.

La sua ricca e complessa formazione politico-diplomatica, prima ancora che religiosa, l’aveva convinto della gravità della minaccia che la Riforma protestante ( in tutte le sue varianti, dal luteranesimo all’anabattismo all’antitrinitarismo) rappresentava per Roma e per Venezia. Perciò dopo avere abbracciato in età matura la carriera ecclesiastica, questo patrizio veneziano, devoto ammiratore dei gesuiti veneti, da Antonio Possevino ai fratelli Gagliardi, aveva fatto dell’unione con Roma il principio fondante della sua politica ecclesiastica.

Per tale motivo, sulla questione liturgica egli non esitò a distaccarsi – forse inconsapevolmente – dall’esempio di Carlo Borromeo, di cui pure era stato tra i primi a riconoscere e ammirare il valore esemplare, come modello del perfetto pastore post-tridentino.

Incoraggiato da papa Clemente VIII e dal cardinal nipote Cinzio Passeri Aldobrandini, il patriarca Barbaro, in occasione del concilio provinciale aquileiese tenuto a Udine nel 1596 per recepire i decreti tridentini impose alle diocesi della provincia ecclesiastica aquileiese (cioè in pratica, alle diocesi di Aquileia e Como, che sole avevano conservato il rito patriarchino) l’adozione del rito romano.

Il relativo decreto –approvato dalla Santa Sede e pubblicato nel 1598 - dichiara nel suo proemio: “Sanctam Romanam Ecclesiam magistram et matrem agnoscimus: hanc ut reliquis, etiam ritu et ministeriis ecclesiasticis modo sequimur”.

Il decreto conciliare proseguiva lamentando gli errori e le interpolazioni che avevano alterato nel corso dei secoli la tradizione liturgica aquileiese; ma il richiamo al valore assoluto ed esemplare del modello romano costituiva la spiegazione più profonda della deliberazione patriarcale.