Benedetto XVI: il papato e la crisi

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La parola crisi sta caratterizzando, da lungo tempo, la vicenda politica, economica, culturale, etica del mondo occidentale, ed ancorché essa non sia limitata solo a questa parte del globo, non v’è dubbio che, proprio chi per secoli ha caratterizzato e determinato con le sue scelte la vicenda mondiale, sta vivendo un momento particolarmente complesso e difficile.

Dopo la ricostruzione successiva al secondo conflitto mondiale, alla quale è seguita la divisione del mondo in due blocchi politici fortemente contrapposti, con la fine della cosiddetta guerra fredda e la caduta, non solo simbolica del Muro di Berlino e dei regimi comunisti – una vicenda che ha costituito un vero e proprio tornante della storia – l’Occidente si è fatto trovare del tutto impreparato ad affrontare il futuro. Alla semplificante contrapposizione Est/Ovest occorreva sostituire una visione politica di ampio respiro che progettasse un futuro possibile. Ne è seguito invece un capitalismo sempre più sfrenato, privo di limiti e di regole, fondato quasi esclusivamente sulla prospettiva dell’arricchimento personale o dei gruppi, in un’economia caratterizzata, molto spesso, dalle speculazioni finanziarie, colpevolmente dimentica che anche al centro del fenomeno economico va posto sempre l’uomo con le sue necessità, i suoi bisogni, le sue legittime aspettative. La politica ha spesso abdicato al suo ruolo di guida lasciandosi condizionare, quasi sempre, dagli interessi economici, talvolta dei singoli paesi, spesso dei gruppi di potere che operavano e che operano sui mercati finanziari globali. La globalizzazione, che poteva costituire un’occasione di crescita sostenibile di tutti i popoli della terra, è stata colpevolmente trasformata in una fase storica caratterizzata dal continuo sfruttamento delle risorse naturali a beneficio di pochi (e a detrimento di molti), talché si è generato un conflitto o, meglio, sono emersi numerosi conflitti che, semplificando e polarizzando, potremmo definire Nord/Sud. In questo contesto si è tentato, spesso riuscendovi, di caratterizzare i numerosi conflitti in atto attraverso l’uso strumentale delle differenze di credo e di religione. A tutto ciò si è aggiunto un fenomeno migratorio di enormi dimensioni. Lo spostamento di interi popoli, letteralmente decimati dalle difficilissime condizioni economiche, da guerre sanguinosissime, spesso in territori vicini, ma altrettanto spesso verso quelle zone del pianeta che possono potenzialmente offrire una prospettiva futura, hanno contestualmente trasformato i tessuti socio-economici dei territori di destinazione: la mescolanza di popoli è divenuta, quasi sempre, più che un’occasione di crescita e di sviluppo, terreno di scontro, di discriminazione verso le minoranze, di timore della perdita della propria identità. Nello spazio di poco più di vent’anni il pianeta si è completamente trasformato. E anche l’Europa, il Vecchio Continente, si è trovato letteralmente immerso in una sorta di meticciato di usi, consuetudini, tradizioni, religioni che, certamente, non aveva mai conosciuto prima. È vero, ad esempio, che sin dall’epoca della Riforma protestante l’Europa aveva perduto la sua unità religiosa – una unità già rotta secoli prima in Oriente  con la separazione dei fratelli Ortodossi – ma mai l’Europa aveva conosciuto un fenomeno migratorio di così vasta portata, con l’arrivo sul Continente di centinaia di migliaia di persone provenienti dal sud del mondo e dal vicino oriente continentale.

In questo contesto, così complesso, va situato il difficile pontificato di Benedetto XVI. Salito al soglio pontificio dopo un papato – quello di Giovanni Paolo II – che, per lo spessore del personaggio, e per le vicende che ne avevano caratterizzato gli ultimi anni, non poteva non essere considerato eccezionale ed irripetibile, papa Benedetto, sin dalla scelta del nome, aveva mostrato chiaramente qual era, a suo avviso, il compito da adempiere. Come il santo di Norcia aveva contribuito, in maniera sistematica, alla cristianizzazione del Continente, attraverso la diffusione del messaggio cristiano tramite una capillare creazione di monasteri (luoghi, innanzitutto, di cultura, ma anche di preghiera e di lavoro), così Benedetto avrebbe voluto ricostruire il tessuto connettivo che aveva contribuito alla costruzione di un’identità cristiana europea: l’Europa come umbilicus christianitatis. In questa scelta non v’era, a mio sommesso avviso, una corrispondente esclusione di una prospettiva universalistica: tutt’altro. Il Papa, per definizione universale, aveva perfettamente compreso che proprio l’Europa, il Continente dal quale il cristianesimo si era irradiato nel corso dei secoli nel mondo, avrebbe costituito, all’inizio del Terzo Millennio, la nuova terra di missione. Relativismo, edonismo, capitalismo sfrenato, uniti ad una mancanza di una visione sociale e comunitaria: i vizi che si erano impadroniti del Vecchio Continente e del Nord del mondo più in generale rischiavano di trasferirsi, come una malattia infettiva, su tutto il globo, sia nei loro effetti ultimi (continuando ad individuare il Terzo Mondo come luogo di sfruttamento), sia come modelli comportamentali.

Come se non bastasse Benedetto XVI ha dovuto affrontare i gravissimi problemi interni alla Chiesa. Come non ricordare, innanzitutto lo scandalo-pedofilia, che Benedetto ha affrontato con rigore e determinazione subendo attacchi continui, sia sotto il profilo giudiziario (non è propriamente usuale la richiesta, pure formulata, di citare in giudizio di fronte ad un tribunale statale il Sommo Pontefice), sia sotto quello più eminentemente mediatico e, da ultimo, il cosiddetto scandalo “Vatican-leaks” dal quale sono emerse, oltre all’infedeltà di un componente della famiglia pontificia, numerose gravi problematiche nel governo centrale della cosiddetta Curia romana.

Se questi sono stati i problemi sul tappeto occorre sottolineare come Papa Benedetto abbia, a più riprese, fornito risposte indiscutibilmente forti. Lo testimoniano le sue tre lettere encicliche – che occorrerà continuamente rileggere - nelle quali ha posto l’accento sui gravissimi problemi dell’umanità (problemi che ho cercato sommariamente di riassumere all’inizio di questo scritto), individuando la “via giusta” che l’umanità è invitata a percorrere nella caritas (che è innanzitutto amore) per l’altro: una caritas che non deve caratterizzare unicamente l’individuo, ma anche le Istituzioni statali e internazionali. Al centro deve sempre essere posto l’uomo, con le sue necessità, i suoi bisogni, le sue legittime aspettative. Papa Benedetto, con i suoi continui richiami all’amore per l’uomo, un amore che promani, innanzitutto, da Cristo, e dal suo amore per l’umanità, ha continuato a tracciare la strada millenaria che la Chiesa, pur con le sue difficoltà, percorre da due millenni. Una strada irta di difficoltà alle quali il Papa ha dato continue e coerenti risposte.

E non apparrà strano affermarlo, anche l’ultimo eclatante fatto – la rinuncia al Pontificato – testimonia questa profondissima coerenza e questo amore smisurato per l’uomo e per la Chiesa. Molti, dimentichi del precedente storico più noto (Celestino V: il Papa del dantesco “gran rifiuto”) e della previsione normativa (il canone 332 § 2 del vigente Codice di diritto canonico)  hanno definito questo atto rivoluzionario. Più semplicemente  lo definirei storico.

Rispettosissimo del dettato normativo, che prevede la possibilità che il Papa rinunzi al munus petrinum, il Santo Padre ha compiuto questo gesto, libere et rite, vale a dire liberamente e di fronte ai cardinali riuniti in Concistoro. Molti si sono chiesti il perché di questo atto, individuando una serie di cause e di ragioni inespresse. Molto più semplicemente, io credo che occorra leggere con attenzione il testo pontificio di rinuncia e le successive dichiarazioni dello stesso Santo Padre. In pienissima coerenza con il suo pontificato, dicendo un “no” nettissimo ad un’ottica improntata al personalismo e al carrierismo, che pervade questa nostra società e, purtroppo, anche la Chiesa-Istituzione (a questo proposito ho ben presente un’intervista di molti anni fa del compianto cardinale Gantin) Benedetto XVI ci dice che dobbiamo essere tutti testimoni del messaggio cristiano trasferendolo nella nostra quotidianità. In più ha posto l’accento, con una riflessione profondissima, su quello che è il “ruolo affidato” o, come avrebbe detto Caterina da Siena su quello che è il potere “prestato” . Con un gesto di coraggio, Ratzinger ha indotto tutti a meditare su quello che oggi è il “compito”, il “ruolo” che non può non essere “di servizio”. Con questa sua “testimonianza” il “servo dei servi di Dio” ha ammesso di non sentirsi più in grado di svolgere il suo ruolo: il “munus petrinum”. Non a caso ha detto “lascio per il bene della Chiesa”. Ha dato un esempio di incommensurabile livello rovesciando completamente la logica, tutta umanissima, del legame col potere, attribuendo definitivamente a quest’ultimo, nei fatti, la caratteristica del servizio. 

Una conclusione di questa riflessione non può prescindere da uno sguardo al futuro: uno sguardo che non può non essere ottimista, perché la speranza, la spes, altro termine caro alla tradizione cristiana e a Papa Benedetto XVI, non può non caratterizzare la nostra vita: in caso contrario dovremmo seriamente e profondamente riflettere sul nostro essere cristiani. Nelle Congregazioni, nelle quali si riuniranno, “sede vacante”, tutti i cardinali, non solo quelli elettori che, ricordiamo, sono gli infraottantenni – che si terranno prima del Conclave - si potrà discutere in maniera libera di quelli che sono i problemi della Chiesa, impostarli e tracciare una prospettiva futura. Certamente si tratta di questioni che non si possono risolvere in tempi brevi: la Chiesa oltre ad essere un’istituzione, è religione, è fede, è cultura. Le sfide che dovrà affrontare il nuovo Pontefice sono numerose;  credo, comunque, che tutto possa essere racchiuso nella necessità che la Chiesa, piegata dai suoi problemi interni e da una situazione globale indubbiamente difficile, prenda definitivamente il largo (duc in altum) – in ciò seguendo le indicazioni provenienti da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI – immergendosi, come vera ed autentica testimone del Cristo, nella complessità dei problemi, rialzando dignitosamente e con vigore la testa. Le categorie politiche (conservatore e progressista) con le quali si tenta di caratterizzare i pontificati mal si attagliano alla vicenda umana della Chiesa. Proprio il Papa, molti anni or sono ebbe a dire che il contrario di “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”. Ebbene abbiamo bisogno, come l’aria, di una Chiesa autenticamente missionaria, che affronti i problemi di un mondo che cambia ad un ritmo sempre maggiore e dove la dimensione della multiculturalità rischia di far disperdere tanti valori che hanno caratterizzato nel tempo la sua storia. Occorrerà mantenere fermezza nella ricerca di un’identità Cristiana che, ritrovati i suoi valori fondanti, valori da trasferire nei tempi moderni, dovrà aprirsi sempre di più al confronto con le altre culture e religioni (e questa è la funzione del cosiddetto Cortile dei Gentili che proprio Benedetto XVI ha voluto). Per fare questo, però, la missione primaria dovrà essere quella di compattare, di unire (la sempre invocata “unità”) i cristiani del mondo come autentici testimoni del Cristo risorto e, quindi, come veri ed autentici missionari.

Giovanni Minnucci

Professore Ordinario di Storia del Diritto Medievale e Moderno presso l’Università degli Studi di Siena, di cui è stato Prorettore

*Il presente contributo compare anche in formato cartaceo sull’ “Eco delle missioni”, nel numero di marzo 2013