Deux ans après

2011-2013: due anni cruciali per i rapporti tra la Santa Sede e

la Fraternità San Pio X (*)

 di

Giovanni Miccoli

(Professore Emerito di Storia della Chiesa presso l’Università di Trieste)

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(*) Questo saggio riproduce con poche modifiche il testo francese posto a chiusura del mio volume Les anti-conciliares. Les lefebvristes à la reconquête de Rome, Lessius, Bruxelles 2014, pp. 347.397. Le note fanno riferimento ai testi e ai documenti di cui mi sono servito, senza nessuna pretesa di completezza bibliografica.

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I due anni oggetto di questo saggio si presentano, per quanto riguarda i rapporti tra Santa Sede e Fraternità san Pio X, con tratti profondamente contraddittori. Da una parte, malgrado i reiterati tentativi romani di arrivare ad una conclusione positiva nelle trattative avviate con la Fraternità, si perpetua una situazione di stallo, con momenti e tracce di progressivo ulteriore deterioramento, nei rapporti tra le due parti. Dall’altra è a Roma invece che, in una realtà di Chiesa percorsa da forti tensioni e in crescente crisi (cui si è aggiunta inattesa la rinuncia di Benedetto XVI al ministero papale), sembrano profilarsi segni significativi di ripresa e di cambiamento, per non dire di svolta, emersi con l’elezione del cardinale Bergoglio, con l’assunzione del tutto inaspettata da parte sua del nome di Francesco e con i primi atti da lui compiuti nella sua qualità di “vescovo di Roma”.

Tre dunque sono gli aspetti delle vicende di questi ultimi due anni che merita, mi sembra, mettere in luce e cercare di analizzare sia pure per sommi capi (sempre con il taglio e i limiti di un discorso che non intende prendere in esame se non di scorcio l’insieme degli orientamenti romani per ciò che riguarda la vita della Chiesa e della società): 1. I principali momenti dell’accidentato e incompiuto processo di conciliazione tra Roma e la Fraternità. 2. La posizione di Benedetto XVI al riguardo e il significato e le implicazioni presenti nella sua rinuncia al ministero papale. 3. Le prospettive che sembrano  profilarsi nell’esercizio del suo ministero da parte di Francesco, nuovo “vescovo di Roma”, e le prime reazioni della Fraternità.

1. Successivamente alla revoca della scomunica ai quattro vescovi consacrati da  mons. Lefebvre, Benedetto XVI aveva deciso di aprire una serie di colloqui dottrinali con la Fraternità “afin de surmomter les difficultés et les problèmes d’ordre doctrinal, et de parvenir à la réduction de la fracture existante”[1]. Una commissione mista di esperti nominati dalla Fraternità e dalla Congregazione per la dottrina della fede si era perciò “réunie à huit reprises, pour des rencontres qui ont eu lieu à Rome entre le mois d’octobre 2009 et le mois d’avril 2011”. Come recita il comunicato della Santa Sede del 14 settembre 2011 “ces colloques, dont l’objectif était d’exposer et d’approfondir les difficultés doctrinales majeures sur des thèmes controversés, ont atteint leur but, qui était de clarifier les positions respectives et leurs motivations”. Nessun accordo dunque era stato raggiunto, ma solo una più precisa conoscenza reciproca delle rispettive posizioni; nei termini, tutto sembra attestarlo, che i capi delle due delegazioni, mons. Galarreta e mons. Pozzo, avevano ampiamente prospettato: la Fraternità, confermando l’insieme del proprio giudizio negativo su tutta una serie di punti forti del concilio in quanto espressione di una rottura con il magistero precedente, la delegazione romana suggerendo, secondo quanto mons. Pozzo era venuto proponendo in alcuni interventi pubblici, una distinzione di fondo tra il concilio in quanto tale e le distorsioni di cui l’“ideologia conciliare” l’aveva fatto oggetto, affermando perciò la sua congruità con la “Tradizione vivente” della Chiesa”, e richiamando il fatto che l’interpretazione autentica dei testi conciliari compete esclusivamente al magistero della Chiesa.  

Alla luce di tale risultato e tenuto conto “des préoccupations et des instances présentées par la Fraternité sacerdotale Saint-Pie X à propos du respect de l’intégrité de la foi catholique face à l’herméneutique de la rupture du Concile Vatican II à l’égard de la Tradition”, la Congregazione per la dottrina della fede aveva rimesso a mons. Fellay, nel corso di un incontro avvenuto in quello stesso 14 settembre, un “Préambule doctrinal” l’accettazione del quale veniva a costituire la base fondamentale per una piena riconciliazione della Fraternità con la Sede apostolica. Tale preambolo, rimasto riservato, enunciava, secondo il comunicato della Santa Sede, “certains des principes doctrinaux et des critères d’interprétation de la doctrine catholique nécessaires pour garantir la fidélité au Magistère de l’Église et au sentire cum Ecclesia, tout en laissant ouvertes à une légitime discussion l’étude et l’explication théologique d’expressions ou de formulations particulières présentes dans les textes du Concile Vatican II et du Magistère qui a suivi”. Il comunicato informava inoltre che in quella stessa riunione erano stati prospettati i termini della soluzione canonica che verrebbe adottata per la Fraternità una volta che si fosse pervenuti alla sperata riconciliazione. Si trattava, come si seppe subito, della costituzione di una prelatura personale, le cui caratteristiche sarebbero state precisate in seguito.     

Inizia da qui un estenuante tira-e-molla fatto di incontri ufficiali, incontri riservati, riunioni, interviste, prese di posizioni pubbliche, lettere e conciliaboli più o meno sotterranei. Da una parte essi evidenziano l’emergere di profonde divaricazioni nella Fraternità fra quanti ritengono che le proposte romane costituiscano comunque un passo avanti e offrano inoltre un’occasione per propagare con maggiore efficacia i diritti della Tradizione in ambito ecclesiale, e quanti invece gridano alla trappola e spingono ad una nuova più drastica rottura. Dall’altra si fa sempre più evidente la volontà della Santa Sede e in particolare di Benedetto XVI di giungere (verrebbe da dire in ogni modo) all’agognata piena riconciliazione. Non a caso il gesuita Joseph Hug, in un articolo intitolato significativamente Ecône: réconciliation sans conditions?, ha scritto che “derrière ces discussions il y a la volonté personnelle du pape de refaire l’unité avec les dissidents de Mgr Lefebvre. La réconciliation avec Ecône est la première priorité de Benoît XVI pour la huitième année de son pontificat[2]. Non si tratta di una novità negli orientamenti del pontificato di Benedetto XVI. Era semmai un’ulteriore accentuazione, che conferirà un’urgenza quasi drammatica agli ultimi tentativi compiuti prima della sua rinuncia al ministero papale.

 Già in precedenza, in vista dell’incontro del 14 settembre, non erano mancati segnali inequivocabili della presenza all’interno della Fraternità di forti differenze sul giudizio da dare nei confronti di ciò che avveniva a Roma.

Mons. Fellay, in una lunga conferenza-intervista tenuta a Saint-Malo il 15 agosto 2011 in previsione della sua prossima andata a Roma, aveva tracciato un quadro del tormentato sviluppo delle relazioni tra la Santa Sede e la Fraternità nel quale spiccava il riconoscimento del cambiamento avvenuto con l’avvento al pontificato del cardinale Ratzinger: “l’avénement de Benoît XVI a été comme un déclic. Quoiqu’on pense, quoiqu’on dise de la personne elle-même, une nouvelle ambiance est apparue. Au Vatican même cette arrivée a donné du courage à ceux, appelons-les conservateurs, qui jusque-là frôlaient les murs…”. Non mancano nella sua ricostruzione, accanto ai pesanti attacchi al “modernismo” dei “progressisti”, le ironie sulle incertezze e le contorsioni di quanti cercano in ogni modo di salvare il concilio pur guardando con interesse alla Fraternità, ma resta, gonfia di speranza, la constatazione di un progressivo avvicinarsi dei reciproci giudizi: «À Rome la position de Mgr Pozzo, et on peut dire celle du pape, est encore en révérence totale à l’égard du concile, mais il voit qu’il y a des choses qui ne vont pas. Il ne dira pas encore “c’est la faute du concile”, mais “c’est la faute de la manière de comprendre le concile”. Il s’agit justement de l’interprétation ou de l’herméneutique. Si Rome avoue maintenant qu’il y a une manière fausse d’interpréter le concile, cela laisse évidemment supposer qu’il y en a une qui est juste. Mais, sur beaucoup de points que nous condamnons au niveau de la chose elle-même (sans en regarder la cause) on constate que finalement, sans oser trop le dire, ils sont d’accord»[3].

Un suono del tutto diverso aveva offerto un paio di mesi prima l’omelia che mons. Galarreta aveva tenuto il 29 giugno ad Ecône in occasione delle ordinazioni diaconali e sacerdotali. Pur non negando l’opportunità di andare a Roma come atto di carità e di misericordia (“Eux, ils ont besoin tout simplement de recevoir ce que nous avons eu la grâce de recevoir par la miséricorde et la largesse de Dieu. La charité nous en fait un devoir”), il suo giudizio negativo sulla situazione romana vi si configurava senza sfumature.   Alcuni riconoscimenti dati dal cardinale Ratzinger alle intenzioni del concilio offrivano la base per un atto di accusa e un rifiuto radicali che ripetevano, con alcune varianti, le argomentazioni di mons. Lefebvre: “Ils n’ont pas nié l’ordre surnaturel, mai ils l’ont réduit et inclus dans la nature. Ils n’ont pas nié l’Eglise, mais ils ont mis l’Eglise au service du monde, le royaume des cieux sur la terre au service du monde et au service de cette entreprise humaniste de l’unité du genre humain et de la paix, toujours dans l’ordre naturel […]. Ils n’ont pas nié le Christ, mais ils ont mis le Christ au service de l’homme”. La Chiesa si poneva così sulla stessa linea dei liberali, degli umanisti, dei rivoluzionari. Scontata la conclusione: “Voyez comment est impossible cette conciliation[4].

Sono divaricazioni di accento e di prospettive che si manifesteranno sempre più, anche in reazione (tutto sembra suggerirlo) alle crescenti pressioni romane.  Senza seguire tale vicenda nei suoi dettagli e in tutte le sue tappe (troppi suoi aspetti e momenti rimangono del resto tuttora sconosciuti) mi limiterò a mostrarne alcuni tratti salienti. 

Non era trascorsa una settimana dalla consegna alla Fraternità del “preambolo” (ancora del tutto sconosciuto nei suoi dettagli) che un lungo articolo del “Catholic Family News” prospettava l’invincibile diffidenza  di un’ala del fronte tradizionalista verso ogni prospettiva di accordo o di conciliazione. Serrato era l’elenco delle domande che ne suggerivano il rifiuto: “In che modo verrà garantita con certezza l’autonomia educativa nelle scuole della Fraternità? In che modo sarà assolutamente garantita la formazione controrivoluzionaria nei seminari della Fraternità?” [si allude evidentemente alla “rivoluzione” introdotta nella Chiesa dal Vaticano II]. E ancora: «Crediamo realmente che ogni discussione sulla legittimità del Vaticano II possa continuare dopo la regolarizzazione, quando il Vaticano potrà dire “La caccia è finita, noi abbiamo chiuso il carniere”. […] Ci si aspetterà che una Fraternità “regolarizzata” richieda un imprimatur per ogni libro che pubblica? […] Può la Tradizione operare pienamente sotto una gerarchia del “Novus Ordo”?». Le considerazioni conclusive non lasciavano spazio ad alternative: « Fellay sa che il carisma della Fraternità è quello del suo fondatore: difendere la Fede “tutta e intera”, senza compromessi, stando particolarmente attenti agli errori di oggi. Egli sa che il dovere del sacerdote non richiede nulla di meno. […] E tragicamente il maggior attentato contro la Fede Cattolica ai nostri giorni viene dal Vaticano II, la gerarchia contemporanea, il rivoluzionario Papa polacco che Benedetto ha appena beatificato. Come potrà una Fraternità “regolarizzata” vedersi garantita la possibilità di combattere liberamente questa battaglia controrivoluzionaria?»[5].

A sostegno della Fraternità ma anche, con tutta evidenza, per favorirne la piena conciliazione con Roma, intervenne, il 24 settembre 2011, la “supplique de 80 personnalités italiennes au pape Benoît XVI pour un examen approfondi du concile œcuménique Vatican II […] répondant avec autorité à la question de la continuité de ce concile (cette fois-si, non de façon déclamatoire, mais en proposant une véritable démonstration) avec les autres conciles”. Il discorso si svolgeva secondo la linea emersa nel convegno organizzato nel dicembre 2010 dai Francescani dell’Immacolata. Gli autori di riferimento erano in primo luogo mons. Brunero Gherardini e Roberto de Mattei, che con le loro opere, secondo i firmatari, avevano messo in luce le tante aporie del Vaticano II. A conclusione della loro lunga “supplica”, fitta di domande e di rilievi critici sui temi maggiori del concilio, gli autori non si nascondevano che tali domande “peuvent certainement déplaire à cette partie de la hiérarchie […] qui ne semble pas avoir encore compris la gravité exceptionnelle de la crise qui afflige l’Eglise depuis cinquante ans”. Significativamente essi non esitavano di aggiungere che “en notre âme et conscience de croyants, cette supplique écrite en toute déférence à votre égard, nous semble parfaitement en harmonie, nous osons le dire, avec l’œuvre de restauration, renouvellement et purification de l’Eglise militante, entreprise courageusement par Votre Sainteté, malgré les résistances et difficultés de toutes sortes, et connues de tous”. Scontati esempi di quest’opera di restaurazione, oltre all’azione condotta contro la corruzione del clero, figuravano il ristabilimento nei suoi diritti della messa “tridentina” e degli altri rituali preconciliari e la remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre[6].

Tale supplica, al di là dei suoi esiti che mi restano sconosciuti, corrispondeva tuttavia chiaramente alla volontà dei firmatari di mostrare ancora una volta come, nel contesto di una piena comunione con Roma, esisteva una larga presenza di orientamenti tradizionalisti, critici del concilio: un intento chiaramente presente anche nei promotori dei diversi convegni che tra il 2011 e il 2012 vennero dedicati allo smontaggio del  Vaticano II con la partecipazione congiunta di personalità del “tradizionalismo romano” e di esponenti della Fraternità[7].

Erano anche voci che intendevano contrapporsi a quanti, nella Chiesa, continuavano a lamentare più o meno vivacemente la linea di ridimensionamento delle prospettive conciliari largamente in atto ad opera dei vertici vaticani, ma non solo. Non si tratta di episodi isolati o marginali. Ricorrente è la denuncia che è in corso nella Chiesa un ripiegamento “sur des positions autoritaires et cléricales” per iniziativa di settori importanti della gerarchia[8]. Il memorandum pubblicato il 4 febbraio 2011, Kirche 2011: ein notwendiger Aufbruch (Chiesa 2011: una necessaria partenza), sottoscritto da 144 teologi e teologhe di istituti universitari di area tedesca, aveva suscitato vasta eco di consensi nella Chiesa: prendendo le mosse dalla crisi gravissima scoppiata in seguito alla scoperta di numerosi casi di pedofilia occorsi nel collegio berlinese intitolato a Pietro Canisio, esso sollecitava un profondo rinnovamento della Chiesa nelle strutture, nei rapporti interni, nell’atteggiamento del magistero rispetto alla ricerca e alle scelte morali della libera coscienza individuale[9]. I movimenti Wir sind Kirche – Noi siamo Chiesa, avanzavano richieste analoghe, mobilitando strati non irrilevanti di fedeli. Le suore statunitensi rivendicavano la loro libertà pastorale in territori di frontiera, di fronte alle critiche e alle messe in guardia della Congregazione per la dottrina della fede[10]. La straordinaria partecipazione popolare al momento delle morte del cardinale Martini, il 31 agosto 2012, attestava tra i fedeli quella latente attesa di cambiamento che Roma sembrava volere negare. La voce di Martini in effetti si era fatta negli ultimi anni sempre più esplicita e chiara. Nei Jerusalemer Nachtgespräche, condotti insieme al gesuita Georg Sporschill, egli aveva detto: “Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa”[11]. E più avanti aveva riconosciuto: “Vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal concilio”[12]. Nell’intervista pubblicata postuma il giudizio si era fatto ancora più duro: “La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni”[13]. Non a caso i commenti di area tradizionalista dopo la sua morte furono ferocemente demolitori[14].

Sono situazioni, realtà, orientamenti, qui solo sommariamente e parzialmente ricordati, che spiegano gli allarmi romani, come i frequenti richiami al dovere di teologi ed esegeti di operare secondo le linee guida offerte dal magistero; ma forse spiegano anche, lo si vedrà meglio più avanti, l’urgenza di Benedetto XVI di reintegrare nella comunione romana la Fraternità, per dare nuova forza a quella restaurazione/correzione rispetto agli orientamenti di fondo del concilio cui egli aspirava.  

 Un passaggio decisivo per evidenziare la diversità di prospettive rispetto ad un eventuale accordo con Roma che ormai divideva la Fraternità è costituito dalla riunione tenuta ad Albano Laziale il 7 e 8 ottobre 2011. In quella occasione mons. Fellay illustrò ai 28 responsabili della Fraternità presenti (direttori di seminario e superiori di distretto) il contenuto del “preambolo dottrinale” (che restò peraltro riservato). Uno scarno comunicato affermò che la discussione che ne era seguita aveva mostrato una profonda unità nella volontà di mantenere la fede nella sua piena integrità secondo l’insegnamento di mons. Lefebvre. A mons. Fellay e ai suoi assistenti era stata demandata la preparazione di una risposta alle proposte romane, dopo un esame approfondito del preambolo[15].

Mons. Fellay, anche se con grande cautela, si era mostrato possibilista, pur se persuaso che, “à moins d’un miracle”, non ci potevano essere soluzioni immediate alla crisi gravissima della Chiesa. Aveva giustificato la riservatezza nei confronti del contenuto del preambolo non solo per garantire la serietà delle discussioni e la possibilità di apportarvi chiarimenti e modifiche ma anche per evitare le “risque fort de susciter l’opposition des progressistes qui n’admettent pas la simple idée d’une discussion sur le Concile”. Aveva riconosciuto che il preambolo, nei suoi termini attuali, “ne peut pas recevoir notre aval”, benché vi sia previsto un margine «pour une “légitime discussion” sur certains points du Concile ». Ma la questione appunto stava proprio qui: “Quelle est l’étendue de cette marge?”. Era quanto Fellay si proponeva di chiarire con le autorità romane: dalla loro risposta si potranno valutare “les possibilités qui nous sont laissées”[16].

Fellay evidentemente riteneva che la partita era ancora tutta da giocare, rafforzato in questa convinzione dalle numerose aperture nei confronti della Fraternità, che egli non mancava di rilevare all’interno della stessa obbedienza romana in una lunga intervista a DICI del 28 novembre 2011: a Brunero Gherardini, a Roberto de Mattei, al convegno dei Francescani dell’Immacolata, si aggiungevano la “supplica” degli intellettuali cattolici italiani indirizzata a Benedetto XVI, e quei giovani vescovi e preti che, secondo la sua esperienza, prendono sempre più frequentemente coscienza “de la sterilité de 50 ans d’ouverture au monde moderne” e s’interrogano sulla responsabilità del concilio “qui a ouvert l’Eglise sur ce monde en pleine sécularisation”. Per questo, alla domanda dell’intervistatore se non sarebbe più semplice respingere senz’altro il preambolo vista la sua scarsa chiarezza, egli replicava seccamente: “Le plus simple peut-être, mais pas le plus honnête. Puisque la note qui l’accompagne prévoit la possibilité d’apporter des clarifications, il me semble nécessaire de les demander au lieu de les refuser a priori. Ce qui ne préjuge en rien de la réponse que nous donnerons”.

Ma proprio a questo riguardo una lunga “riflessione” di mons. Galarreta sulle questioni affrontate nel corso di quella stessa riunione aveva prospettato l’opportunità di un comportamento del tutto diverso, di netto rifiuto cioè del preambolo, giudicato inaccettabile. Secondo un procedimento che diverrà sempre più frequente nei documenti e negli interventi di membri della Fraternità il discorso di Galarreta si presenta come un ampio collage di citazioni tratte dalle opere e dalle interviste di Lefebvre. Era una maniera per mostrare la fedeltà al suo insegnamento e insieme di appellarsi al fondatore a sostegno dei propri giudizi e delle proprie proposte[17].

Sarebbe superfluo ripercorrere qui i giudizi sul concilio, le sue decisioni, i comportamenti romani che Galarreta ripropone attraverso le parole di Lefebvre: sono quelli che sia Lefebvre sia i dirigenti della Fraternità avevano instancabilmente ripetuto. Da qui le conseguenze inevitabili che egli ne ricavava: “pas d’accord pratique sans solution de la question doctrinale”, secondo quanto era stato deciso nel capitolo del 2006; “s’engager dans cette voie engendra chez nous le doute, des disputes, méfiances, partis, et surtout la division”, con il rischio di un’implosione della Fraternità. Si deve perciò restare fermi sulle proprie posizioni, nell’attesa che l’aggravarsi della situazione spinga Roma “à lâcher Vatican II”. Sarà infatti la Provvidenza “qui resoudra la crise”.

 Gli incontri ufficiali (molto probabilmente accompagnati da incontri riservati di cui poco o nulla si sa) intanto continuavano. Alla metà di dicembre 2011, come informa una dichiarazione del padre Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, la Fraternità aveva trasmesso una prima risposta al “preambolo dottrinale” attualmente all’esame della commissione Ecclesia Dei[18]. Ma il 16 marzo 2012, nel corso di un incontro, il cardinale Levada aveva informato Fellay che tale risposta era stata giudicata insufficiente “pour surmonter les problèmes doctrinaux qui sont à la base de la fracture entre le Saint-Siège et la Fraternité”. Da qui la secca conclusione del comunicato che dava ragione dell’incontro: “Au terme de la rencontre de ce jour, dans le souci d’éviter une rupture ecclésiale aux conséquences douloureuses et incalculables, le Supérieur général de la Fraternité sacerdotale Saint-Pie X a été invité à bien vouloir clarifier sa position, afin de parvenir à la réduction de la fracture existante, comme l’a souhaité le pape Benoît XVI”[19].

Se da una parte dunque Roma spingeva ad una maggiore chiarezza nell’accettazione della sue richieste, dall’altra venivano profilandosi all’interno della Fraternità due posizioni profondamente diverse rispetto all’atteggiamento da assumere di fronte alle proposte romane. Erano le premesse per una crisi interna alla Fraternità che, latente da tempo,  diverrà clamorosamente pubblica nel maggio 2012, dopo che un sito tradizionalista aveva reso noto inaspettatamente il duro scambio epistolare che aveva visto contrapposti tre dei vescovi consacrati da Lefebvre (Galarreta, Tissier de Mallerais e Williamson) a Fellay e al Consiglio Generale della Fraternità[20].

La lettera dei tre vescovi, alla luce del fatto che le discussioni dottrinali intercorse tra il 2009 e il 2011 “ont prouvé qu’un accord doctrinal est impossible avec la Rome actuelle”, dichiarava la loro opposizione formale a un accordo pratico, che invece da mesi, “comme beaucoup de monde le sait”, il Consiglio generale della Fraternità stava prendendo in seria considerazione. La ragione di fondo di tale netta opposizione derivava dal fatto che  “depuis Vatican II les autorités officielles de l’Église se sont séparées de la vérité catholique, et aujourd’hui elles se montrent tout aussi déterminées que toujours de rester fidèles à la doctrine et pratique conciliaires”. Come di consueto, per il giudizio sul concilio e i suoi esiti, venivano citate  affermazioni di Lefebvre. Vi si aggiungeva una stroncatura del pensiero teologico di Benedetto XVI, con esplicito richiamo al volumetto che Tissier de Mallerais gli aveva recentemente dedicato[21]. Il suo pensiero sul concilio non è migliore del suo predecessore, sostenevano i tre vescovi. La benevolenza che Benedetto mostra per la Fraternità corrisponde al fatto che egli fa parte di quella schiera di “libéraux subjectivistes (qui) peuvent tolérer même la vérité, mais pas si elle refuse de tolérer l’erreur”. Solo secondo quest’ottica e in un quadro di pluralismo relativista egli può accettare la Fraternità: essa potrà continuare a insegnare la dottrina cattolica ma non sarà tollerato che essa condanni la dottrina conciliare. “Voilà pourquoi un accord même purement pratique ferait nécessairement taire progressivement de la part de la Fraternité toute critique du Concile et de la nouvelle messe. En cessant d’attaquer ces victoires les plus importantes de toutes de la Révolution, la pauvre Fraternité cesserait nécessairement de s’opposer à l’apostasie universelle de notre lamentable époque et elle s’enliserait elle-même”.

Ancora una volta veniva evocato il fondatore e sottolineato il dovere della Fraternità di restare fedele al suo insegnamento. “À la suite de Mgr Lefebvre le propre de la Fraternité est, plus que de dénoncer les erreurs par leur nom, de s’opposer efficacement et publiquement aux autorités romaines qui les diffusaient. Comment pourrai-t-on concilier un accord et cette résistance publique aux autorités, dont le Pape? Et après avoir lutté pendant plus de quarante ans, la Fraternité devra-t-elle maintenant se mettre entre les mains de modernistes et libéraux dont nous venons de constater la pertinacité?”.                    

L’appello finale suonava appassionato e insieme minaccioso: «Monseigneur, messieurs les abbés, veuillez faire attention, vous conduisez la Fraternité à un point ou elle ne pourra pas rebrousser chemin, à une profonde division sans retour et, si vous aboutissez à un tel accord, à des puissantes influences destructrices qu’elle ne supportera point. […] Mgr Lefebvre a refusé un accord pratique. Puisque la situation n’a pas changé substantiellement, puisque la condition émisse par le chapitre de 2006 ne s’est nullement réalisée (changement doctrinale de Rome qui permettrait un accord pratique), écoutez encore notre Fondateur. Il a eu raison il y a 25 ans. Il a raison encore aujourd’hui. En son nom nous vous en conjurons: n’engager pas la Fraternité dans un accord purement pratique». 

La risposta di Fellay, del 14 aprile, fu durissima. L’accusa: la loro descrizione della situazione mancava di senso soprannaturale e di realismo: “A vous lire, on se demande sérieusement si vous croyez encore que cette Église visible dont le siège est à Rome est bien l’Église de Notre Seigneur Jésus Christ, une Église certes défigurée horriblement […] mais une Église qui a quand même et encore pour chef Notre Seigneur Jésus Christ”. Le domande erano incalzanti : “Pour vous Benoît XVI est-il encore pape légitime? S’il l’est, Jésus Christ peut-il encore parler par sa bouche? Si le pape exprime une volonté légitime à notre sujet, qui est bonne, qui ne donne pas un ordre à l’encontre des commandements de Dieu, a-t-on le droit de négliger, de renvoyer d’un revers de main cette volonté? Et sinon sur quel principe vous basez vous pour agir ainsi? Ne croyez-vous pas que si Notre Seigneur nous commande, il donnera aussi les moyens de continuer notre œuvre?”.

Il nodo di fondo di questa prima parte della risposta di Fellay è chiaro e può avvalersi anch’esso di affermazioni di Lefebvre: Roma, nonostante tutto, resta sempre Roma, la Fraternità non può non guardare comunque a Roma. È ciò che egli oppone con fermezza ai tre vescovi. Non era una contrapposizione da poco. Sulle questioni che vi sono implicite merita dunque soffermarsi un momento.  Le domande di Fellay infatti vanno ben oltre (vorrei quasi dire involontariamente) alla questione della scelta che la Fraternità era chiamata a compiere rispetto alle proposte romane, perché evidenziano con chiarezza sia il dilemma costantemente soggiacente alle posizioni di Lefebvre e della Fraternità sul concilio e il magistero postconciliare, sia le tensioni contraddittore che ne derivavano.

 Del tutto negativo (è ciò che ribadiscono più volte) è il loro giudizio sul concilio e sul magistero papale che ne è seguito. Ma piena nello stesso tempo è la loro rivendicazione del primato del papa e dell’obbedienza a lui dovuta, così come scandalizzata è la loro denuncia del fatto che il concilio e ciò che con sempre maggior frequenza avviene tra i vescovi li mettano esplicitamente in discussione. La loro fedeltà alla “Roma di sempre” ha come punto forte quella rivendicazione. Eppure, nei fatti, i primi a mettere in discussione quel magistero e ad infrangere quell’obbedienza  sono proprio Lefebvre e la Fraternità. Nella loro polemica, la “Roma conciliare” si sovrappone per dir così alla “Roma di sempre” e sembra quasi cancellarla. Non è un caso che la tentazione del “sedevacantismo” si riproponga periodicamente nel loro ambito. Come non è un caso che ricorrente sia il dilemma se accettare la piena comunione con la Roma attuale (che non può non essere e restare la “Roma eterna” pur essendo anche la “Roma conciliare”), senza attendere il suo rinnegamento del concilio, o se rifiutare ogni accordo, per l’impossibilità di sottoporsi e collaborare con coloro che, con il concilio, si sono separati dalla verità cattolica.

L’equilibrio fra tali giudizi e tali prospettive, compresenti nello stesso insegnamento di Lefebvre come nel contesto delle nuove trattative con Roma, era difficile e inevitabilmente instabile (“la ligne de crête” che la Fraternità era costretta a percorrere, dirà Fellay riferendosi a tale condizione[22]). Romperlo, scegliendo decisamente una delle due strade possibili, avrebbe significato la scissione della Fraternità. Solo il mantenerlo integro nei suoi termini contraddittori poteva garantire la sopravvivenza della Fraternità in quanto tale: senza accordi ma senza per questo rotture definitive con Roma. Non a caso sarà la linea che alla fine prevarrà, non senza delusioni e tristezze.

Nella sua lettera del 14 aprile Fellay aveva messo in rilievo soprattutto due aspetti della situazione romana. In primo luogo vi era il papa. Egli ci ha fatto sapere, scrive Fellay,”que la préoccupation de régler notre affaire pour le bien de l’Église était au cœur même de son pontificat, et aussi qu’il savait bien que ce serait plus facile et pour lui et pour nous de laisser la situation présente en l’état”. I gesti compiuti in questi ultimi anni confermavano del resto una linea “clairement en faveur de la Tradition”. In secondo luogo vi era la condizione della Chiesa: gli errori e i mali erano tanti, gravi, ma non coinvolgevano tutti allo stesso modo né si doveva maggiorarli: «“Tous modernistes”, “tout pourri” […] cela est manifestement faux».

Per questo l’idea che la Fraternità non potrebbe sopravvivere nel caso di un pieno riconoscimento romano è per Fellay infondata. La soluzione della prelatura personale “n’est pas un piège”. Egli insiste sui cambiamenti avvenuti a Roma rispetto al 1988, quando Lefebvre aveva rifiutato l’accordo proposto. Sono fatti oggettivi che mostrano «qu’il ne plus illusoire de considérer un combat “intra muros”, dont nous sommes bien conscients de la dureté et difficulté». Tutto ciò impone per Fellay gradualità e pazienza. Ma sarebbe assurdo rifiutarsi di lavorare in un campo perché c’è ancora la zizzania.         

La lettera non evita, nelle righe conclusive, toni più strettamente personali. L’atteggiamento assunto negli ultimi messi dai suoi confratelli è tacciato di incomprensione, mancanza di carità e di rispetto dovuto al Superiore della Fraternità. Resta l’auspicio, che sarà oggetto delle sue preghiere, “que dans ce combat qui est loin d’être terminé nous nous retrouvons tous ensemble pour la plus grande gloire de Dieu  et pour l’amour de notre chère Fraternité”.

Fellay non la cita: ma per il suo giudizio sulla situazione romana e sull’atteggiamento del papa egli poteva farsi forte di una lettera aperta che mons. Nicolas Bux, consultore alla Congregazione per la dottrina della fede e all’Ufficio per le celebrazioni liturgiche del papa, gli aveva indirizzato il 19 marzo, tre giorni dopo l’incontro che Fellay aveva avuto con il cardinale Levada[23]. La lettera era un pressante invito ad accettare le proposte romane. Ma conteneva anche ammissioni e riconoscimenti, e portava motivazioni e assicurazioni, che non potevano non apparire di grande rilievo agli occhi di Fellay. Generico ma inequivocabile era il giudizio negativo su aspetti del concilio e del postconcilio: “Il est indéniable que de nombreux faits du concile Vatican II  et de la période qui l’a suivi, liés à la dimension humaine de cet événement, ont représenté de vraies calamités et causé de vives douleurs à de grandes hommes d’Église”. Bux non esitava a parlare di una lotta tra la luce e le tenebre tuttora in corso, e invitava appunto la Fraternità a partecipare fiduciosa a questa lotta: «Avec sainte Catherine de Sienne, nous voulons vous dire: “Venez à Rome en toute sécurité”, auprès de la maison du Père commun que nous a été donné comme principe et fondement visibles et perpétuelles de l’unité catholique. Venez à prendre part à cet avenir béni dont on entrevoit déjà, en dépit des ténèbres persistantes, l’aurore. Votre refus augmenterait les ténèbres et non la lumière». Bux ricordava la “restaurazione” liturgica compiuta da Benedetto XVI, la revoca della scomunica, il rinnovamento della Commissione Ecclesia Dei, ma riconosceva anche che rimangono certamente “des perplexités, des points à approfondir ou à préciser, comme celui de l’œcuménisme et du dialogue interreligieux […] ou celui de la manière dont est comprise la liberté religieuse”. Ma proprio tale constatazione era occasione di ulteriori riconoscimenti per la Fraternità : “Sur ces thèmes aussi, votre présence canoniquement garantie dans l’Église aidera à plus de lumière. Comment ne pas songer à la contribution que vous pourrez apporter, grâce à vos ressources pastorales et doctrinales, à votre capacité et votre sensibilité, au bien de toute l’Église?”.

Sono affermazioni impegnative, nelle quali colpisce il carattere per dir così scontato di tali riconoscimenti: parlare di “ressources pastorales et doctrinales” della Fraternità, che andavano messe in campo per il bene della Chiesa, comportava, implicitamente, un giudizio catastrofico su ciò che stava succedendo sul versante opposto, ad opera dei suoi avversari e oppositori. Non erano solo tradizionalisti arrabbiati a pensarla così. Basti ricordare il quadro desolato delle condizioni religiose della diocesi milanese offerto dal capo di Comunione e Liberazione don Julian Carron nella sua lettera dell’aprile 2011 al nunzio in Italia, per sollecitare il papa a nominare nuovo arcivescovo di Milano Angelo Scola: l’unico a suo dire che poteva raddrizzare la situazione di progressivo abbandono o indebolimento della fede creatasi nei trent’anni precedenti (evidente la pesante chiamata in causa degli episcopati dei cardinali Martini e Tettamanzi)[24].   

Nel pressante invito di Bux l’atteggiamento del papa assumeva un ruolo centrale : “Le cœur du Saint Père frémit : il vous attend avec anxiété parce que il vous aime, parce que l’ Église a besoin de vous pour une profession de foi commune face à un monde toujours plus sécularisé et qui semble tourner irrémédiablement le dos à son Créateur et Sauver”.

Nella sua parte conclusiva la lettera incrociava riconoscimenti e rassicurazioni, ribadendo il suo pressante invito: “Venez à Rome en toute sécurité”, la vostra voce non sarà soffocata. 

Mentre la stampa commentava la lettera come l’indizio dell’approssimarsi della riconciliazione e Fellay restava prudente nelle sue dichiarazioni, il 17 aprile egli consegnava alla Congregazione per la dottrina della fede la sua nuova risposta ai documenti romani. Un comunicato del giorno successivo del padre Lombardi,  registrando il fatto, rilevava che “cette réponse est différente des précédentes, qui avaient été considérées come insuffisantes […] et constitue un pas en avant encourageant”. Si trattava ora di attendere la replica della Congregazione e del papa[25].

Il 10 maggio, con l’inaspettata messa in rete del duro scambio di lettere fra i tre vescovi e Fellay la faccenda inevitabilmente si complicava. Era evidente che Fellay non esprimeva gli orientamenti dell’intera Fraternità. A poco serviva che un comunicata della Maison générale deplorasse il fatto della divulgazione di testi che dovevano restare riservati[26]. Il 16 maggio un comunicato della Congregazione per la dottrina della fede registrava esplicitamente il cambiamento della situazione[27]. Mentre da una parte informava di aver formulato alcune osservazioni sulla risposta di Fellay del 17 aprile, “dont il sera tenu compte dans les discussions ultérieures entre le Saint-Siège et la Fraternité Saint-Pie X”, rilevava dall’altra che, alla luce delle posizioni assunte dai tre vescovi della Fraternità, “leur situation devra être traitée séparément et personnellement”. Era un modo implicito di registrare le complicazioni sopravvenute nel processo di riconciliazione, con il rischio del verificarsi nella Fraternità di “uno scisma nello scisma”, come l’agenzia di notizie Adista scriveva il 26 maggio 2012[28].

Gli avversari di un accordo con la Santa Sede trovavano motivazioni ulteriori alla loro opposizione dalle condizioni in cui si trovavano i gruppi che, usciti dalla FSSPX, si erano riconciliati con Roma. I risultati di una visita canonica condotta nel marzo 2012 all’Institut du Bon Pasteur attestavano ai loro occhi che erano in atto        «pressions progressives pour assimiler les “dissidents” et les ramener dans le giron de “l’église conciliaire” et de ses doctrines qui doivent être enseignées dans le séminaire de l’Institut»[29]. Una sezione de “La Porte Latine” destinata a documentare «les compromissions des hommes d’Église et des “catholiques conciliaires” avec les ennemis du Christ» era categorica: ciò che distingue i tradizionalisti “ralliés” dai preti della Fraternità è il silenzio. Essi infatti non possono più denunciare “les scandales qui sont en train de détruire la cité catholique et à travers elle l’Église”[30]. Era una ragione in più per diffidare di ogni accordo.

 Le settimane e i mesi seguenti si presentano convulsi, in un succedersi di dichiarazioni e prese di posizione di esponenti della Fraternità ed insieme di interventi di organi di stampa che rilevano il fatto nuovo delle crescenti difficoltà per il raggiungimento di un accordo tra la Fraternità e Roma. Esemplificano con chiarezza la situazione e la profondità delle divergenze in atto due interventi succedutisi a pochi giorni di distanza: una predica di mons. Tissier de Mallerais tenuta il 3 giugno a St-Nicolas de Chardonnet, e una lunga intervista di mons. Fellay a DICI pubblicata l’8 giugno[31].

Tutta la predica di Tissier de Mallerais è centrata sul tema del dovere dei cattolici di combattere le eresie seguendo l’esempio dei grandi padri della Chiesa antica. Pochi esempi bastano a dare l’idea del carattere tranchant delle sue argomentazioni, che nella trascrizione fattane mantengono tutta l’indignata vivacità del parlato: “La liberté religieuse qui veut que l’on respecte tous ceux qui professent les erreurs religieuses, que l’État laisse la liberté à toutes les erreurs, à toutes les fausses religions, au nom de la liberté humaine. Et nous disons non, c’est Jésus-Christ qui doit régner, c’est Jésus Christ qui doit régner dans les cœurs, qui doit régner publiquement dans la Cité. La Cité doit être catholique. Vous voyez, nous voulons réfuter l’erreur de cette fausse dignité humaine, de la liberté que l’État devrait tolérer, respecter la liberté de tout le monde. C’est qui est impossible, et faux, toujours faux. Et puis, affirmons au contraire la vérité. C’est Jésus qui a droit de régner publiquement dans la Cité, dans l’État. Voilà ce que nous devons faire […]. Et ne croyons pas aujourd’hui parce que Rome nous propose un accord, une situation officielle dans l’Église, eh bien nous devons renoncer à proclamer ces vérités évidemment fortes qui contredisent le concile. Nous ne devons pas renoncer à combattre le concile et les erreurs du concile”.

Sono affermazioni che danno la piena misura del tipo di rapporto che, agli occhi del fondamentalismo lefebvrista, doveva sussistere tra la Chiesa e le istituzioni pubbliche: il pieno adeguamento di queste ultime ai dettami del magistero ecclesiastico costituiva per Tissier un principio irrinunciabile, unica risposta valida a fronte di una situazione generale divenuta ai suoi occhi catastrofica.

Rispetto a questa visione delle cose il suo giudizio sulla condizione e gli atteggiamenti di Roma e dell’episcopato in generale era del tutto negativo : “Si seulement les conciliaires commençaient à se convertir, mais c’est ne pas le cas. Aucun, ni à Rome, ni dans les diocèses. Aucun!”. Per Tissier non ci sono dubbi: attualmente nessuna concessione è possibile, mancano le condizioni. La pubblica denuncia degli errori perciò va continuata in attesta del futuro: “quand les conciliaires, dans vingt ans, vingt-cinq ans, reviendront, se repentirons du concile, quand il verrons la catastrophe continuer, les séminaires complètement vides, les églises en ruines, l’apostasie partout, l’immoralité partout, ils voudront bien faire pénitence, des repentances. Alors oui, quand les conciliaires dans l’Église feront repentance, quand il commenceront à faire repentance, nous pourrons utiliser des formules douces pour les aider à revenir, mais pas maintenant, alors que la crise fait rage, actuellement en plein. Maintenant, nous devons affirmer et condamner les erreurs du concile, spécialement la négation du Christ-Roi, le refus du Christ-Roi”.        

Radicalmente diverso è il quadro che Fellay offre nella sua intervista dell’8 giugno, che suona per molti aspetti come un’indiretta risposta alla predica di Tissier. A Roma la situazione è cambiata: “Rome ne fait plus d’une acceptation totale de Vatican II une condition pour la solution canonique”. E ciò, per Fellay, grazie al fatto che a Roma c’è chi considera che nella Chiesa ci sono problemi più grandi del concilio, problemi gravi, che vanno affrontati e risolti: “nous sommes appelés à aider à porter aux autres le trésor de la Tradition que nous avons pu conserver”. Fellay lo sottolinea con forza: è il papa che vuole riconoscerci perché collaboriamo a risolvere quei problemi.

Fellay torna più volte su questo aspetto della vicenda: è il papa che vuole il riconoscimento canonico della Fraternità, è il papa che dà garanzie per il futuro. E ciò nonostante “nous ne sommes toujours pas d’accord doctrinalement”. Perché dunque questa volontà da parte del papa, si chiede Fellay. “La réponse elle est là: il y a des problèmes terriblement importants dans l’Église aujourd’hui. Il faut traiter ces problèmes. Il faut laisser de côté les problèmes secondaires et s’occuper des problèmes majeurs”. É significativo questo inserimento da parte di Fellay della questione dei rapporti tra Roma e la Fraternità nel più ampio contesto della visione che Benedetto XVI presenterebbe dei problemi della Chiesa. Si cercherà più avanti di verificarne la fondatezza. Ma merita fin d’ora rilevare che Fellay non era il solo a pensare così. Lo stesso mons. Bux, nella sua lettera, aveva enunciato una non diversa prospettiva. Jean-Marie Guénois poco più di un mese prima su “Le Figaro” (14-15 avril) aveva illustrato, pur se in termini diversi, una visione analoga della linea papale. Riconciliando la Fraternità, il segno che Benedetto XVI cerca di lasciare nella storia della Chiesa non tocca suoi aspetti periferici. La sua ambizione è di offrire “une vision élargie de l’Église catholique. Le théologien Benoît XVI n’a jamais admis qu’en 1962 la bimillénaire Église catholique se coupe de la culture et de la force de son passé. Plus qu’une réconciliation avec les lefebvristes, il vise donc, par ce geste, une réconciliation de l’Église catholique avec elle-même”[32].  

Fellay non nega che le autorità romane non vogliono ancora riconoscere ufficialmente gli errori del concilio; non mancano però i segni che intendono cambiare strada e rimediare a certi errori. Fellay cita come esempio l’indizione dell’anno sacerdotale e lo sforzo delle autorità romane di ristabilire la vera concezione del prete, facendo del  sacrificio della messa il centro della vita sacerdotale. Egli riconosce che molti problemi sono ancora aperti, che ci sono ancora gravi difficoltà nella Chiesa (“l’œcuménisme, Assise, la libertè religieuse”). Ma il punto centrale per lui è un altro: di fronte alla gravità della situazione in cui si trova la Chiesa e ai segnali positivi che tuttavia provengono da Roma, “si nous voulons faire fructifier le trésor de la Tradition pour le bien des âmes, nous devons parler et agir. Nous avons besoin de cette double liberté de parole et d’action. Mais je me méfierais d’une dénonciation purement verbale des erreurs doctrinales – dénonciation d’autant plus polémique qu’elle n’est que verbale”.

 Era la premessa per attaccare di petto quanti nella Fraternità rifiutano ogni accordo prima che la Chiesa si sia convertita. Per Fellay si tratta di un atteggiamento che «montre clairement quelques-unes de nos faiblesses face aux dangers qui sont crées par la situation dans laquelle nous sommes. L’un des dangers majeurs est de finir par inventer une idée de l’Église qui parait idéale, mais qui ne se trouve pas en fait dans l’histoire réelle de l’Église. Certains prétendent que pour travailler “en sécurité”  dans l’Église il faut préalablement qu’elle soit nettoyée de toute erreur. C’est ce qu’on dit quand on affirme qu’il faut que Rome se convertisse avant tout accord, ou que les erreurs doivent d’abord avoir été supprimées pour qu’on puisse travailler. Mais ce  n’est pas la réalité. Il suffit de regarder le passé de l’Église, souvent et même presque toujours on voit qu’il y a des erreurs répandues dans l’Église. Or les saints réformateurs ne l’ont pas quittée pour combattre ces erreurs. Notre Seigneur nous a appris qu’il y aura toujours de la mauvaise herbe jusqu’à la fin des temps. Pas seulement de la bonne herbe, pas seulement du blé».

Proprio perché le cose stanno così, una conclusione per Fellay s’impone: “on nous demande de venir travailler come l’ont fait tous les saints réformateurs de tous les temps. Bien sûr cela n’enlève pas le danger. Mais si nous avons suffisamment de liberté pour agir, pour vivre et nous développer, cela doit se faire. Je pense vraiment que cela doit se faire, à la condition que nous ayons suffisamment de protection”.         

 Posizioni apparentemente inconciliabili dunque: in quelle settimane variamente riprese e sorrette da voci a favore dell’una o dell’altra nei diversi distretti della Fraternità. L’8 luglio 2012, alla vigilia del capitolo generale della Fraternità, “La Croix” intitolava un’ampia corrispondenza di Céline Hoyeau, Le rapprochement avec Rome divise les lefebvristes[33]. In realtà la situazione stava volgendo in un’altra direzione.

Il 13 giugno il cardinale Levada aveva ricevuto Fellay, accompagnato dal primo assistente, l’abbé Niklaus Pfluger, e gli aveva rimesso la valutazione del suo dicastero sulla “Déclaration doctrinale” con la quale, il 17 aprile 2012, la Fraternità aveva risposto al “Préambule doctrinal” del 14 settembre 2011. Secondo il comunicato della Sala stampa vaticana pubblicato il 14 giugno “la discussion a permis de fournir des explications et des précisions opportunes à Mgr Fellay qui, pour sa part, a exposé la situation de la Fraternité et promis de faire connaitre sa réponse dans un délai raisonnable”. Inoltre, informava il comunicato, gli era stato consegnato un progetto di costituzione di una prelatura personale “comme instrument le plus adapte à une éventuelle reconnaissance canonique de la Fraternité”. Il comunicato ribadiva che “la situation des trois autres évêques de la Fraternité sera traité séparément et individuellement”. Lo chiudeva l’auspicio “que ce temps de réflexion supplémentaire permette de parvenir à la pleine communion de la Fraternité St. Pie X avec le Siège apostolique”[34].

Il comunicato della Maison Générale della FSSPX riguardante l’incontro, pubblicato anch’esso il 14 giugno, presenta alcune varianti significative[35]. In primo luogo, oltre ad ascoltare le spiegazioni di Levada ed esporgli “la situation de la Fraternité”, Fellay, secondo il comunicato, “a exposé les difficultés doctrinales que posent le concile Vatican II et le Novus Ordo Missae”. Cose stranote, verrebbe da dire, se non fosse che tali precisazioni assumevano in quel contesto il valore di un preciso messaggio: destinate ai membri della Fraternità intendevano evidentemente sottolineare come Fellay non si fosse in alcun modo discostato dagli insegnamenti del fondatore. Era l’attestazione indiretta dell’emergere di nuove difficoltà nei rapporti con Roma, frutto a loro volta delle gravi tensioni interne alla Fraternità. Il comunicato della Maison Générale non parlava della promessa di Fellay di far conoscere la sua risposta “dans un délai raisonnable”, ma rilevava piuttosto, che “la volonté de clarifications supplémentaires pourrait déboucher sur une nouvelle phase de discussions”. In termini un po’ criptici si riconosceva, mi pare di poter dire, che si doveva ricominciare tutto da capo o quasi. Il comunicato inoltre, dopo aver informato che Fellay  aveva ricevuto il progetto di “Prélature personnelle”, sentiva il bisogno di precisare che “au cours de la rencontre, il n’a pas été question de la situation des trois autres évêques de la Fraternité”. Era una precisazione ben diversa da ciò che aveva scritto il comunicato della Sala stampa vaticana: voleva probabilmente essere, da parte di Fellay, un segno di pace verso i suoi confratelli; precisazione non del tutto credibile tuttavia se si tiene conto che egli aveva presentato ai suoi interlocutori romani “la situation de la Fraternité”. A conclusione dell’incontro, informava il comunicato, “il a été souhaité que se  poursuive le dialogue qui permettra d’aboutir à une solution pour le bien de l’Église et des âmes”.

Senza che lo si dicesse esplicitamente, il confronto tra i due comunicati, soprattutto alla luce delle varianti introdotte in quello della Maison Générale, permette mi pare una conclusione evidente: si stava ritornando al punto di partenza. Dopo tre anni di colloqui ciò significava il proporsi di una situazione di stallo. L’esigenza di tutelare il più possibile l’unità della Fraternità faceva premio su ogni altra considerazione.

Fellay lo riconobbe in parte in un sermone tenuto ad Ecône il 29 giugno in occasione delle ordinazioni diaconali e sacerdotali. Pur ricordando l’amore di Lefebvre per Roma, pur ribadendo “nous sommes romains! Il ne faut pas le lâcher”, egli aveva constatato: con Roma, “nous sommes de nouveau au point de départ. Point de départ que nous avons dit ne pas pouvoir accepter, ne pas pouvoir signer”[36].

Ma che la questione in realtà fosse in primo luogo di ricomporre le tensioni interne e di garantire l’unità della Fraternità emerse con chiarezza nel capitolo generale tenuto nel seminario di  Ecône dal 9 al 14 luglio.

Un comunicato della Maison Générale dell’11 luglio informava che il capitolo generale tuttora in corso avrebbe permesso a Fellay “d’exposer l’état des relations de la Fraternité Saint-Pie X avec Rome, et de recueillir l’avis de capitulants sur ce sujet”. Ma sentiva anche il bisogno di aggiungere che “les entretiens se déroulent dans une atmosphère fraternelle, empreinte de franche cordialité”[37].

Risultato del capitolo fu una “déclaration commune” che venne inviata a  Roma e resa pubblica il 19 luglio[38]. In un’intervista rilasciata pochi giorni prima Fellay ne aveva parlato come di un documento che aveva offerto “l’occasion de préciser la feuille de route de la Fraternité Saint-Pie X en insistant sur la conservation de son identité, seul moyen efficace pour aider l’Église à restaurer la Chrétienté”[39].

In effetti il percorso che la dichiarazione delineava per la Fraternità non sembrava lasciare molto spazio per una prossima conclusione positiva dei suoi colloqui con Roma. Si rilevava che la Fraternità, dopo le recenti difficoltà, aveva ritrovato la sua “union profonde en sa mission essentielle: garder et defendre la foi catholique, former de bons prêtres et œuvrer à la restauration de la chrétienté”. Si aggiungeva che il capitolo aveva definito e approvato le “conditions nécessaires pour une éventuelle normalisation canonique” (ma si evitava di precisare quali fossero in concreto tali condizioni[40]), stabilendo però che, ove si fosse arrivati al punto, “un chapitre extraordinaire délibératif serait convoqué auparavant”. Veniva diffusamente riaffermata la propria fede nella Chiesa cattolica e romana, “seule Église fondée par Notre Seigneur Jésus-Christ, en de hors de laquelle il n’y a pas de salut”. Si ribadiva che la costituzione della Chiesa è monarchica e che tutto il potere di governo « revient au pape seul, vicaire du Christ sur terre”, e si riaffermava infine “la royautè universelle” di Cristo, al quale “tout homme et toute sociétè doit se soumettre”. Ma tutto ciò non spostava di una virgola il giudizio sul Vaticano II, sul magistero che ne era seguito e sui comportamenti di netto, pubblico rifiuto che ne dovevano derivare. Ciò che Fellay aveva più volte sostenuto, che cioè era assurdo pretendere che tutta la Chiesa si converta prima di arrivare ad un accordo, la dichiarazione lo smentiva senza troppi giri di parole. Si diceva infatti che la Fraternità “trouve son guide dans la Tradition constante de l’Église qui transmette et transmettra jusqu’à la fin des temps l’ensemble des enseignements nécessaires au maintien de la foi et la salut”, e ciò nell’attesa « qu’un débat ouvert et sérieux, visant à un retour des autorités ecclésiastiques à la Tradition, soit rendu possible”. Non mi pare ci possano essere dubbi : nel momento in cui si affermava che la guida della Fraternità era la Tradizione costante della Chiesa (e non la Roma attuale), si dichiarava anche implicitamente sia l’impossibilità di un dibattito che avesse come scopo il ritorno delle autorità romane a quella Tradizione, sia la necessità che preliminarmente un tale ritorno avesse luogo per poter procedere oltre.  

La prospettiva di un accordo a breve con le autorità romane che Fellay aveva perseguito risultava così bloccata. Il “ritorno al  punto di partenza” riproponeva quel difficile equilibrio nei suoi rapporti con Roma che aveva caratterizzato la vita della Fraternità e garantito la sua tenuta. Non a caso, nell’intervista rilasciata a pochi giorni dalla conclusione del capitolo cui già si è fatto cenno[41], mons. Fellay, dopo aver elogiato lo spirito di concordia che aveva animato i capitolari permettendo di superare le recenti difficoltà (e in effetti solo mons. Williamson si trovava ancora in una posizione di aperta rottura, che porterà in ottobre alla sua espulsione dalla Fraternità[42]), aveva esplicitamente riproposto quella “ligne de crête” che la Fraternità, sulle orme del suo fondatore non poteva non seguire, e così l’aveva illustrata: «C’est une ligne difficile à tenir, mais absolument vitale pour l’Église  et le trésor de sa Tradition. Nous sommes catholiques, nous reconnaissons le pape et les évêques, mais devons avant tout conserver inaltérée la foi, source de la grâce du Bon Dieu. Il faut par conséquent éviter tout ce qui pourrait la mettre en danger, sans pourtant nous substituer à l’Église catholique, apostolique et romaine. Loin de nous l’idée de constituer une Église parallèle, exerçant un magistère parallèle! […] En un mot, nous gardons la foi dans la primauté du Pontife romain et dans l’Église fondée sur Pierre, mais nous refusons tout ce qui contribue à l’“autodestruction de l’Église”, reconnue par Paul VI lui-même, dès 1968».

L’accoglienza della dichiarazione da parte della Santa Sede fu fredda. Un comunicato della Sala stampa rilevò che, benché sia stata resa pubblica, “cette déclaration demeure avant tout un document interne pour étude et discussion entre les membres de la Fraternité”: un modo, parrebbe, per evitare di prendere atto dell’irrigidimento sopravvenuto. Significativamente infatti il comunicato, in chiusura, rilanciò la prospettiva di una ripresa in tempi brevi dei colloqui, come se anche la dichiarazione avesse prospettato qualcosa del genere: “Le Saint-Siège a pris acte de cette déclaration, mais attend la communication officielle annoncée par la Fraternité sacerdotale pour la continuation du dialogue entre la Fraternité et la Commission Ecclesia Dei[43].

Ma proprio nell’ambito della Congregazione per la dottrina della fede e della commissione Ecclesia Dei erano avvenuti tra giugno e luglio alcuni importanti cambiamenti. Il cardinale Levada aveva lasciato il posto di prefetto della Congregazione a mons. Gerhard Ludwig Müller, già vescovo di Ratisbona, mentre come vicepresidente della commissione era stato nominato il domenicano statunitense Joseph Agustine Di Noia, già sottosegretario della CdF. Erano due nomine che riguardavano due prelati con atteggiamenti almeno in apparenza diversi verso la Fraternità[44].

Il primo, come vescovo di Ratisbona nella cui diocesi è situato il seminario lefebvriano di Zaitzkofen, aveva mostrato chiaramente di non apprezzare la Fraternità, come Fellay rilevò esplicitamente nella sua intervista del 16 luglio già più volte ricordata. Le sue stesse dichiarazioni successive alla nomina non sembravano certo incoraggianti verso le pretese della Fraternità: “On ne peut être Catholique que si l’on reconnaît pleinement la foi de l’Église. Ce qui inclut le magistère, et dans le magistère un rôle particulièrement revient aussi au Concile Vatican II”.

Aperto verso i tradizionalisti e la Fraternità si mostrava invece Di Noia. Una nota della CdF del 26 giugno dichiarava esplicitamente che Benedetto XVI lo aveva nominato vicepresidente della commissione Ecclesia Dei “en signe de sa sollicitude pastorale envers les fidèles traditionalistes en communion avec la Siège apostolique, mais aussi de son vif désir de voir réconciliées les communautés non en communion”[45]. Anche introducendo una sua lunga intervista, la sua nomina veniva presentata dal “National Catholic Register” come frutto della preoccupazione di Benedetto  XVI “de préserver les pourparlers pour une possibile réconciliation”. Le sue dichiarazioni, pur non mancando di criticare le chiusure della Fraternità, erano ricche di aperture e riconoscimenti nei suoi confronti, e soprattutto suonavano aspramente critiche della lettura “progressista” del concilio e dell’opera dei suoi fautori, in termini del tutto abituali tra i lefebvriani. Giudicava disastrosi gli effetti di certe posizioni e interpretazioni di Rahner. Considerava liberatorio il fatto che dopo il discorso di Benedetto XVI del  dicembre 2005 sull’ermeneutica della continuità si era potuto finalmente criticare de Lubac, Congar, Chenu. Non a caso riguardo al concilio ricordava di aver letto i libri di Romano Amerio e di Roberto de Mattei, per il quale in particolare mostrava condivisione e apprezzamento[46].

D’altra parte lo stesso Benedetto XVI in una lettera del 30 giugno a Fellay aveva enunciato con chiarezza le condizioni richieste alla Fraternità per una riconciliazione. La ricorda Fellay in un sermone dell’11 novembre largamente dedicato alle relazioni della Fraternità con Roma[47]. Era stato lui stesso a chiedere al papa chiarimenti sul suo pensiero e la sua volontà in vista di un possibile accordo, a fronte dei segnali contraddittori che gli sembravano provenire da Roma. E Benedetto gli aveva risposto ponendo tre condizioni per il riconoscimento giuridico della Fraternità: accettare che il Magistero è il giudice della Tradizione apostolica; accettare che il concilio fa parte integrante di questa Tradizione; accettare la validità e la liceità della nuova messa.

Erano per tanti aspetti le condizioni di sempre: molto dipendeva da come venivano intese e dagli spazi di discussione che restavano loro sottesi. Fellay però le presenta e le giudica come un fatto nuovo e inaccettabile. Difficile non pensare che era in primo luogo il rischio di rottura vissuto nei mesi precedenti dalla Fraternità a spingerlo a tale atteggiamento. La sua conclusione ripete ciò che già aveva detto all’indomani dei colloqui romani di metà giugno: “les choses sont bloquées. C’est un retour à zéro. Nous sommes exactement au même point que Mgr Lefebvre dans les années 1975, 1974. Et donc, on continue notre combat”. Ma Fellay aggiungeva anche : «Nous n’abandonnons pas l’idée, un jour, de regagner l’Église, de reconquérir l’Église à la Tradition. La Tradition, c’est son trésor. Le trésor de l’Église. Nous continuons, en attendant le jour heureux».

La “svolta” di giugno costituirà, negli interventi pubblici di esponenti della Fraternità, un discrimine decisivo. Difficile tuttavia è addentrarsi nelle tappe di vicende che restano in parte coperte. Un comunicato della commissione Ecclesia Dei del 27 ottobre informa che con una lettera del 6 settembre la Fraternità aveva fatto sapere di aver bisogno “d’un temps supplémentaire de réflexion et d’étude pour préparer sa réponse aux dernières propositions du Saint-Siège”[48]. Era un segno evidente che nella Fraternità non mancava chi riteneva che, anche se gli spazi per un accordo erano ridotti per non dire scomparsi, il dialogo comunque non doveva essere interrotto.    

L’abbé Franz Schmidberger, superiore del distretto di Germania e antico Superiore generale della Fraternità, lo disse chiaramente in un’intervista pubblicata il 18 settembre sul sito del distretto, poi ripresa su DICI[49]: “Nous ne sommes pas d’accord avec ceux qui rejettent toute discussion avec Rome. Je présenterais les choses ainsi: la Fraternité n’a jamais travaillé pour elle-même, elle n’a jamais été sa propre fin, mais au contraire elle a toujours voulu servir l’Église, servir les papes”. L’abbé Niklaus Pfluger, primo assistente generale della FSSPX non si esprimeva diversamente in una lunga intervista rilasciata a «Kirchliche Umschau», ripresa anch’essa il 13 ottobre su DICI[50]. Dichiarava impossibile un accordo in tempi brevi, per gli ostacoli che inevitabilmente verrebbero frapposti all’azione della Fraternità, ma considerava poco numerosi coloro tra i suoi membri che rifiutano le discussioni con Roma. Pfluger si diffondeva anche in una lunga difesa dell’azione di Fellay alla guida della Fraternità e nei rapporti con Roma, segno che le accuse nei suoi confronti di  debolezza e cedimento non erano ancora cessate[51]. Ma sul versante della Fraternità era chiaro che non si intendeva più arrivare ad una conclusione positiva in tempi rapidi. Potevano variare i toni dei diversi interventi (mons. Galarreta in una conferenza tenuta a Villepreux il 13 ottobre fu durissimo nella sua denuncia della Roma modernista in cui non esitò ad includere lo stesso Benedetto XVI[52]), ma l’unità faticosamente recuperata imponeva evidentemente questa strada. È da Roma invece che, alla fine dell’anno, venne fatto un estremo tentativo, che finì con l’intrecciarsi nelle sue battute conclusive con le tensioni e le attese provocate dalla rinuncia di Benedetto XVI al ministero papale. 

Già il comunicato della commissione Ecclesia Dei del 27 ottobre si caratterizzava per il suo tono aperto e distensivo[53]. Mentre ripeteva che la Santa Sede era in attesa della risposta ai documenti consegnati alla Fraternità il 13 giugno aggiungeva anche che “après trente ans de séparatioin, il est compréhensible qu’il faille du temps pour assimiler la substance des développements récents”. Ribadiva inoltre che, proprio perché era vivo desiderio del papa di giungere finalmente ad una riconciliazione con la Fraternità, “il faut faire preuve de patience, de sérénité, de persévérance et de confiance”. Il giorno successivo un articolo della “Croix” commentava: “Rome maintient la porte ouverte aux lefebvristes”[54].

Fu una lunga lettere di mons. Di Noia a Fellay nella sua qualità di Superiore generale della Fraternità, datata “Avvento 2012”, a riproporre con urgenza una prospettiva di accordo[55]. Non seguirò il suo discorso in tutte le sue complesse articolazioni. Il nocciolo delle sue argomentazioni si sviluppava intorno a due punti centrali. Da una parte bisognava abbandonare la strada stretta delle contestazioni  intorno all’uno o all’altro pronunciamento del Vaticano II, delle discussioni dottrinali giunte chiaramente a un impasse, per innalzarsi ad una visione più ampia, di fede, che aveva al suo centro l’unità della Chiesa. Dall’altra la Fraternità veniva chiamata a ritornare al carisma che era stato del suo fondatore alle origini, quando nel 1970 la Fraternità fu approvata: “le charisme de la formation des prêtres dans la plénitude de la Tradition catholique, pour entreprendre auprès des fidèles un apostolat que jaillisse de cette formation sacerdotale”. E Di Noia aggiungeva: “Nous n’avons pas oublié le jugement élogieux porté par le cardinal Gagnon sur le séminaire d’Écône en 1987”. Senza nascondersi le tante difficoltà, l’appello di Di Noia alla riconciliazione si faceva, in chiusura,  incalzante e appassionato : «Voici venu le moment d’une grâce extraordinaire: saisissons-le de tout notre cœur et de tout nostre esprit. En nous préparant à la venue du Sauveur du monde au cours de cet Avent de l’Année de la Foi, prions et espérons avec confiance: ne pouvons-nous aussi espérer la réconciliation, attendue depuis longtemps, de la Fraternité sacerdotale saint Pie X avec le Siège de Pierre? Le seul avenir imaginable pour la Fraternité saint Pie X se trouve sur le chemin d’une pleine communion avec le Saint-Siège, dans l’acceptation d’une profession de foi inconditionnelle en sa plénitude, et donc avec une vie sacramentelle, ecclésiale et pastorale convenablement ordonnée».   

Di Noia definiva il suo appello “personale”, ma era evidente che la lettera era stata scritta su ispirazione e con l’approvazione del papa. L’8 gennaio 2013 si aggiunse una lettera firmata congiuntamente da Müller e Di Noia che chiedeva a Fellay entro il 22 febbraio una risposta ai documenti che gli erano stati consegnati il 13 giugno[56]. Ma nel frattempo, l’11 febbraio, era sopravvenuto il drammatico annuncio  di Benedetto XVI: con il 28 febbraio avrebbe lasciato il ministero papale. Il est minuit moins le quart Mgr Fellay…, intitolava Jean-Marie Guénois un suo articolo su  “Le Figaro” del 20 febbraio, invitando Fellay a cogliere al volo un’occasione che poteva essere l’ultima: troppo importanti le conseguenze per la Fraternità ma soprattutto per la Chiesa perché si possa lasciarla cadere[57]. Ma il 21 febbraio una scarna dichiarazione del padre Lombardi informava che “les dispositions relatives à la réconciliation avec la Fraternité Saint-Pie X sont confiées au prochain pape”[58].

Fellay e altre figure di spicco della Fraternità si sforzeranno in ogni modo di spiegare il loro “non possumus”[59]: le ragioni erano le solite, anche se ora una posizione di primo piano sembra ormai assunta, per i più, dal rifiuto radicale della “nuova messa”, dichiarata “malvagia”. Non credo però meriti riassumerle per l’ennesima volta. Del resto l’editoriale con cui Régis de Cacqueray, superiore del distretto di Francia, apriva il fascicolo di gennaio-febbraio 2013 di “Fideliter” dà la misura, nella violenza dei suoi giudizi, dell’irremovibile continuità con cui, nei momenti topici, la Fraternità guarda a ciò che è successo a Roma dal concilio in poi[60]. Il suo intento era di denunciare l’approvazione data da Benedetto XVI il 20 dicembre al decreto della Congregazione per le cause dei santi con cui si riconosceva che Paolo VI aveva praticato “les vertus chrétiennes de façon héroïque”. Ma non a caso l’intero intervento è un tessuto di citazioni di Lefebvre., scelte tra le più estreme nella loro durezza. Così (sono solo alcuni esempi), le autorità romane “depuis Jean XXIII et Paul VI se sont faites les collaboratrices actives de la franc-maçonnerie juive internationale”; rispetto a Paolo VI ci si deve porre la questione di come sia stato possibile che “un successeur de Pierre a-t-il pu, en si peu de temps, causer plus de mal à l’Église que la révolution de 89?”; Giovanni Paolo II viene definito “un politicien philo-communiste au service d’un communisme mondial à teinte religieuse”. E si potrebbe continuare.

Se con questo editoriale, scritto, come informa un nota della redazione de La Porte latine, nel dicembre 2012, de Cacqueray volesse anche mettere un ulteriore ostacolo a quelle prospettive di accordo con Roma caldeggiate dai contemporanei interventi di Di  Noia è difficile dire. Esso offre comunque l’ennesima conferma di posizioni e giudizi della Fraternità che i negoziatori romani e lo stesso Benedetto XVI, nelle loro formulazioni ufficiali, si ostinavano a ignorare o a fingere di non vedere.     

Dei termini con cui, nella nuova situazione creata dalla rinuncia di Benedetto XVI, Fellay cercherà di porre la questione dei rapporti con Roma nonché dell’atteggiamento assunto verso il nuovo papa si dirà qualcosa a suo luogo. 

2. Già da quanto si è detto nella parte che precede è emerso più volte l’impegno tutto particolare di Benedetto XVI a cercare di arrivare ad una piena riconciliazione con la Fraternità. Che egli lo considerasse un compito importante del suo pontificato l’aveva dichiarato esplicitamente nella sua lettera ai “confratelli nel ministero episcopale”  con la quale aveva cercato di spiegare le ragioni che l’avevano indotto a togliere la scomunica ai quattro vescovi consacrati illecitamente da Lefebvre. Egli aveva inquadrato la sua iniziativa nelle urgenze create dal progressivo spegnersi della fede in tante parti del mondo: “La priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro” sta perciò nel ricondurre gli uomini a Dio, ciò che implica, come conseguenza l’unità dei credenti. L’atto di riconciliazione con la Fraternità rientrava per Benedetto in tale contesto. Anche la sua decisione di ristabilire pienamente nei suoi diritti ecclesiali il Messale romano promulgato da Pio V, venendo così incontro ad una precisa richiesta della Fraternità, era stata spiegata in un’analoga prospettiva[61].

Di fronte alla crisi crescente della Chiesa, agli scandali che ne erano espressione, ma anche alle ricorrenti tensioni con gruppi di teologi e di operatori e operatrici pastorali che spingevano per un ripensamento su molti aspetti della dottrina e della prassi della Chiesa, l’ansia di Benedetto di arrivare ad una piena reintegrazione della Fraternità sembra essersi fatta sempre più acuta e pressante. Sono eloquenti certe frasi indirizzate a Fellay, e da questi citate nella sua omelia dell’11 novembre 2012 a St-Nicolas: “Que la Fraternité sache que de résoudre les problèmes de la Fraternité est au cœur de mes préoccupations, […] est une priorité de mon pontificat”[62].  

Credo si possa condividere, con qualche opportuna precisazione, ciò che Jean-Marie Guenois ha scritto al riguardo nell’articolo pubblicato su “Le Figaro” del 14-15 aprile 2012 già ricordato: Benedetto XVI guarda alla Fraternità “comme un lieu où l’essentiel de la foi catholique est vécue. […] Par conséquent Benoît XVI n’a jamais trouvé normal que ces gens qui partagent l’essentiel soient rejetés”, a fronte  di una situazione nella Chiesa in cui, secondo la sua ottica e i suoi criteri, vescovi, preti e teologi mettono in discussione punti essenziali della fede[63]. È in questo contesto più ampio, di restaurazione post-conciliare in vista di un ridimensionamento delle questioni aperte e delle prospettive di cambiamento messe in moto dal Vaticano II, che si spiega insomma la volontà di Benedetto di reintegrare pienamente nella comunione cattolica la Fraternità, con le sue certezze, i suoi valori, le sue prospettive: certezze, valori e prospettive peraltro corrispondenti per tanta parte all’idea di Benedetto (del tutto alieno dall’accettare che i condizionamenti della storia abbiano inciso anche sulla dottrina e le sue formulazioni) di un “insegnamento bimillenario” rimasto nella sostanza immutato.

Il segno del giudizio diventa esplicitamente negativo, ma non si esprime in sostanza diversamente il teologo di Münster Klaus Müller in una sorta di bilancio del pontificato di Benedetto XVI: con i suoi atti di riconciliazione verso la Fraternità egli ha lanciato un segnale  “indirizzato ai gruppi che si trovano al margine destro dello schieramento della Chiesa cattolica e al conservatorismo ecclesiastico in generale”[64]. Un orientamento, secondo Müller, che in Germania ha aperto la strada a personaggi che, “in stretti rapporti con ceti sociali e politici anti-democratici e clericali e anche con un certo numero di vescovi, stanno tentando di mettere a tacere le voci critiche e pensanti all’interno della Chiesa e della teologia”. Per costoro “i critici non dovrebbero fare altro che diventare protestanti, così otterrebbero quello che vogliono e la Chiesa veramente cattolica potrebbe finalmente ritrovare la sua quiete” (che per Müller “non sarebbe altro che il silenzio della pace eterna”).

 Era ed è la grande accusa che i lefebvriani hanno mosso e muovono al Vaticano II, di voler cioè “protestantizzare” il cattolicesimo: un ulteriore elemento di saldatura tra i seguaci di Lefebvre e i gruppi tradizionalisti e conservatori operanti nella comunione cattolica. Si muovono in questa stessa direzione, secondo una prassi ormai largamente collaudata, i frequenti interventi romani volti a colpire o a richiamare all’ordine quanti fuoriescano, nella ricerca e nella riflessione teologica e nelle esperienze pastorali, dai binari collaudati della tradizione o sanciti comunque dal magistero. 

Lo stesso magistero di Benedetto del resto ha continuato a proporre anche in questi ultimi anni considerazioni e accenti che, pur continuando a riferirsi positivamente al concilio e alla “lettera” dei suoi documenti, non mancano di offrire copertura alle posizioni della Fraternità. Basti pensare al quadro del mondo contemporaneo che affiora comunemente dai suoi discorsi. In occasione dell’apertura dell’anno delle fede coincidente con i cinquant’anni dall’inizio del Vaticano II egli ha parlato della “désertification spirituelle” di questi ultimi decenni: “Ce que pouvait  signifier une vie, un monde sans Dieu, au temps du Concile, on pouvait déjà le percevoir à travers certaines pages tragiques de l’histoire, mais aujourd’hui nous le voyons malheureusement tous les jours autour de nous. C’est le vide qui s’est propagé. […] Voici alors la façon dont nous pouvons penser cette Année de la fois: un pèlerinage dans le déserts du monde contemporain”[65]. Poco prima aveva osservato: “Les Pères conciliaires entendaient présenter la fois de façon efficace. Et s’ils se sont ouverts dans la confiance  au dialogue avec le monde moderne c’est justement parce qu’ils étaient sûrs de leur foi, de la solidité du roc sur lequel ils s’appuyaient. En revanche, dans les années qui ont suivi, beaucoup ont accueilli sans discernement la mentalité dominante, mettant en discussion les fondements mêmes du depositum fidei qu’ils ne ressentaient plus comme leurs dans toute leur vérité”[66].

Sarebbe evidentemente una pretesa azzardata voler riassumere in poche battute o ridurre a singoli aspetti il magistero di Benedetto XVI. Le aperture e le consonanze con la FSSPX sono ben lungi dall’esaurirlo pur segnandone un tratto caratterizzante. Ma i termini con cui Benedetto guarda alla realtà della Chiesa presentano anche aspetti ben lontani dalla visione della Fraternità. Basti pensare, tanto per fare un esempio, a quel ruolo così singolarmente positivo riconosciuto ai processi di secolarizzazione in atto nella storia, formulato nel suo discorso al Konzerthaus di Freiburg im Breisgau il 25 settembre 2011, nel corso del suo viaggio apostolico in Germania[67]. Nello sviluppo storico, egli aveva osservato, si manifesta talvolta nella Chiesa una tendenza ad accomodarsi al mondo, ad adattarsi ai criteri del mondo. Essa perciò deve fare lo sforzo «de se détacher de sa “mondanité” pour s’ouvrir à Dieu». Ed è in un tale contesto e da questo punto di vista che per Benedetto, “en un certain sens, l’histoire vient en aide à l’Église à travers les diverses périodes de sécularisation, qui ont contribué de façon essentielle à sa purification et à sa réforme intérieure. En effet, les sécularisations – qui furent l’expropriation de biens de l’Église ou la suppression de privilèges ou de choses semblables -  signifièrent chaque fois une profonde libération de l’Église de formes de “mondanité”: elle se dépouille, pour ainsi dire, de sa richesse terrestre et elle revient  embrasser pleinement sa pauvreté terrestre». Si può restare stupiti (e non sarebbe del resto la prima volta) della disinvoltura con cui  Benedetto legge i fatti della storia, dimenticando in questo caso le violente proteste con cui i suoi più o meno lontani predecessori avevano sempre accolto tali “sécularisations” (e accantonando tra l’altro, almeno apparentemente, il consueto giudizio negativo anche suo sui processi di secolarizzazione in atto nelle società), ma resta il fatto che quelle sue affermazioni suggeriscono una visione della posizione della Chiesa nella società che si configurerebbe del tutto polare alle pretese della Fraternità.   

È un fatto d’altra parte che in questi ultimi anni gli scandali, le tensioni, le lotte di potere che hanno largamente coinvolto le diverse realtà della Chiesa e la stessa curia romana, hanno profondamente segnato il governo di Benedetto XVI. Sembra difficile non collegare a tutto ciò la sua rinuncia al ministero papale, anche se i nessi, allo stato attuale, restano incerti e generici.

L’atto di Benedetto XVI risulta indubbiamente del tutto inconsueto nella tradizione del papato moderno. Giunto perciò inaspettato, ha variamente creato sconcerto, stupore, disagio, rammarico, non solo nel contesto ecclesiale; e ciò quanto più percorsa da tensioni e scandali è la condizione della Chiesa cattolica e della curia in particolare. I commenti che l’hanno accolto sono stati di meraviglia (un pontificato, il suo, “qui ne nous préparait pas à un tel coup d’audace”[68]); per lo più di ammirazione (un gesto di libertà e di umiltà); talvolta stucchevolmente di maniera; ma non sono mancate le critiche più o meno esplicite (non si rinuncia ad essere padre, non si scende dalla croce) e primi bilanci pesantemente negativi del suo pontificato. Klaus Müller ne ha concluso così il quadro complessivo: “Quanto sto per dire a conclusione di questo mio intervento è per me, come tedesco e bavarese, molto doloroso: l’attuale pontificato sarà un pontificato del tempo perduto, con un aggravio ulteriore della spaccatura tra vangelo e cultura che Paolo VI vedeva come una questione impellente da risolvere. Veniamo da decenni di sospensione dei necessari dialoghi; un lasso di tempo enorme considerando la velocizzazione delle dinamiche mondiali, in cui quasi tutto è cambiato. Quanto sia il tempo che ci resta per un nuovo inizio non lo so, ma temo sia poco”[69].

Le parole con cui, l’11 febbraio, Benedetto ha presentato ai cardinali la sua decisione chiamano in causa l’età, la gravità delle questioni sul tappeto, il calo delle forze[70]: “Après avoir examiné ma conscience devant Dieu, à divers reprises, je suis parvenu à la certitude que mes forces, en raison de l’avancement de mon âge, ne sont plus aptes à exercer adéquatement le ministère pétrinien. […] Dans le monde d’aujourd’hui, sujet à des rapides changements et agité par des questions de grande importance pour la vie de la foi, pour gouverner la barque de Pierre et annoncer l’Évangile, la vigueur du corps et de l’esprit est aussi nécessaire, vigueur qui, ces derniers mois, s’est amoindrie en moi d’une telle manière que je dois reconnaître mon incapacité à bien administrer le ministère qui m’a été confié”.

Sono parole che vanno prese sul serio. Ma non sembrano poter esaurire le motivazioni di fondo che hanno spinto Benedetto a tale decisione. Un fatto balza agli occhi e riguarda il contesto in cui la decisione è stata presa: è una decisione infatti che segna l’interruzione brusca di iniziative non irrilevanti pienamente in corso. In particolare Benedetto XVI aveva in preparazione un’enciclica sulla fede, da pubblicare appunto nel corso dell’“anno della fede”. Se un suo testo su questo tema vedrà in futuro la luce, non sarà più certamente un’enciclica tutta sua. Non si tratta di un cambiamento di poco conto, che è difficile pensare fosse previsto quando l’ideazione e la stesura del testo erano cominciate. Una tale interruzione suggerisce dunque il determinarsi di un “fatto” relativamente improvviso che ha indotto (o comunque contribuito) a quella decisione. Ma ancora una volta sulla natura di tale “fatto” solo ipotesi più o meno fondate sono formulabili al riguardo. La più ovvia l’individua negli scandali vaticani di fuga di documenti riservati e nel rapporto presentato al riguardo dai tre cardinali, cui Benedetto aveva affidato lo svolgimento di un’indagine[71]. Allo stato attuale tuttavia poco o nulla si può dire con certezza.

Resta incerto inoltre quale sarà la portata di un tale atto nelle vicende future della Chiesa, se e quali cambiamenti potrà produrre. Anche alla luce dei suoi discorsi di quei giorni mi pare manchino gli elementi per considerare tale atto come espressione di una sua ipotetica presa di distanze da quelle posizioni conservatrici e filo-tradizionaliste che per tanti aspetti hanno caratterizzato i suoi anni di pontificato. Così come mi sembra una forzatura definirlo “un gesto rivoluzionario e profetico”[72]. Anche ogni altra aggettivazione, cui si è largamente ricorso nel darne conto sui più diversi organi di stampa, appare del resto, per quelle che sono oggi le nostre conoscenze, se non arbitraria priva di fondamenti certi.

 Un ulteriore elemento mi sembra chiaro, vorrei dire incontrovertibile. L’atto delle dimissioni in quanto tale “desacralizza”, riporta a una dimensione umana, la persona che svolge il ministero papale. “Aujourd’hui, le pape catholique redevient un homme”, ha scritto Jean-Claude Eslin su “Esprit”[73]. Non è un fatto da poco. Sembra difficile infatti che un atto del genere potesse venir ritenuto possibile da chi parlava del papa come di un “quasi Deus in terris”, o lo definiva “vicario di Gesù Cristo in terra, anzi lo stesso Gesù Cristo vivente nella Chiesa”, o affermava che il papa “rappresenta Dio stesso”[74]. Esempi di questo genere sono moltiplicabili fino ai nostri giorni. Rientrano in quella “mistica dell’ultramontanismo”, come l’ha definita il padre Tillard, tipica della cultura intransigente, che fa della figura del papa “più che un papa”[75]. Peraltro, penso si debba aggiungere, l’umanizzazione della persona che ricopre quell’ufficio non comporta di per sé una revisione delle prerogative e dei compiti di cui via via l’ufficio stesso è stato caricato. E dunque non mi pare possibile dire se la decisione di Benedetto XVI potrà avere, essa, delle ricadute sul ruolo del papa nella Chiesa.

  Elementi più fondati, non per chiarire il perché delle dimissioni ma per cogliere l’ottica con cui Benedetto guarda ai problemi e agli orientamenti anche futuri della Chiesa, e dunque anche alla linea che il suo successore dovrebbe essere chiamato a seguire, offrono i suoi interventi delle sue ultime settimane di governo. Particolarmente importante per la concretezza delle sue determinazioni mi sembra il discorso tenuto giovedì 14 febbraio nel corso del suo incontro con i parroci e il clero di Roma, un discorso cui generalmente la stampa ha dato, se non vado errato, scarso rilievo[76]. Tra le poche eccezioni ricorderei un rimarchevole intervento di Raniero La Valle sul “Manifesto” del 17 febbraio[77] su cui ritornerò e un lungo articolo di Vittorio Messori sul “Corriere della sera” di domenica 24 febbraio che oltre a magnificare i caratteri del discorso aggiunge di suo qualche singolare “fraintendimento” e notizie prive di ogni riscontro[78].

            Il discorso ha riguardato il concilio Vaticano II: “une petite causerie”, come l’ha definita il papa, “sur le Concile Vatican II comme je l’ai vu”. La definizione è del tutto minimalista. Nel suo intervento, lungo e articolato, Benedetto ripropone infatti le sue idee di fondo sul concilio e sulle ragioni della crisi scoppiata nella Chiesa all’indomani della sua chiusura; e nello stesso tempo profila anche, implicitamente, la strada che secondo lui andrebbe battuta per lasciarsela definitivamente alle spalle. Non mi è possibile in questa sede analizzarlo nel dettaglio. Mi limiterò perciò a rilevarne alcuni aspetti soltanto.

Un primo elemento salta immediatamente agli occhi. Nell’illustrazione dello svolgimento del concilio, pur colto nelle sue principali tappe, è del tutto assente il discorso introduttivo di Giovanni XXIII. Non è un’assenza da poco: perché con quel discorso Giovanni aveva indicato al concilio non il programma dei suoi lavori ma le linee maestre cui doveva ispirarsi: in particolare, rispetto al mondo e alla storia, esprimendo il suo netto dissenso verso “i profeti di sventura”, che nei tempi moderni vedono solo prevaricazione e rovina; richiamando poi la necessità di distinguere tra la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e le formulazioni del suo rivestimento (ne risultava implicita la riproposizione del cruciale problema, già discusso negli anni del modernismo, di un’inculturazione della fede non statica, non fissata e definita una volta per tutte, inevitabilmente tributaria, nelle sue formulazioni, delle culture in cui era chiamata ad inserirsi); e infine proclamando la scelta della “medicina della misericordia” in luogo delle condanne e della severità, con esplicite aperture, allora inconsuete, verso le Chiese e le comunità cristiane separate. Erano linee, si sa, assai lontane dagli orientamenti dominanti nei documenti preparatori, predisposti sotto l’influenza prevalente dei teologi di curia. Non a caso quei documenti furono respinti pressoché in blocco nel corso dei lavori conciliari.

Di tutto questo Benedetto non fa parola. Giovanni figura soltanto, protagonista non particolarmente brillante, in un aneddoto con cui egli apre la sua “petite causerie” e sul quale merita brevemente soffermarsi. Nel corso del 1961, secondo il racconto di Benedetto, il cardinale Frings aveva partecipato ad un ciclo di incontri sul futuro concilio, organizzato a Genova dal cardinale Siri, con una relazione sul rapporto tra il concilio e il pensiero moderno (gli era stata scritta dallo stesso Ratzinger, divenuto poi suo teologo di fiducia e perito conciliare). Invitato poco dopo dal papa, il cardinale sarebbe andato all’appuntamento tutto timoroso di essere rimproverato o addirittura deposto (!?) per aver detto cose che potevano essere spiaciute al pontefice. Nulla di tutto questo. Giovanni gli sarebbe andato incontro e abbracciandolo gli avrebbe detto: “Merci, Éminence, vous avez dit les choses que je voulais dire, mais je n’avais pas  trouvé les mots”.

Lusinghiero per Frings/Ratzinger, un tale riconoscimento non lo era certo per Giovanni: un riconoscimento che peraltro suona assai poco ovvio nella bocca di chi su quel concilio stava dicendo e dirà parole non scontate. Poteva essere tuttavia espressione di un amabile complimento da parte del papa. Sia come sia, insinua comunque l’idea che rispetto al concilio Giovanni aveva le stesse idee di Frings/Ratzinger. Senonché tutto l’insieme sembra contraddetto da quanto Giovanni scrive nella sua “agenda” sotto la data del 17 novembre 1961 (è il giorno in cui si era chiusa una sessione della commissione centrale del concilio): di aver ricevuto cioè tra gli altri il cardinale Frings, “che mi diede il suo discorso preparato per Genova”[79]. Dal momento che il discorso verrà pubblicato solo l’anno successivo, e che Giovanni, a stare al testo dell’“agenda”, pare riceverlo solo in quel momento per mano dello stesso cardinale, sembra difficile pensare che egli possa aver accolto Frings con le parole che Ratzinger gli attribuisce. Non sembra l’unica falla nella memoria di Benedetto.

Nella sua ricostruzione dello svolgimento del concilio egli è ricco di dettagli e di riferimenti. Ricorda gli entusiasmi e la grandi aspettative dell’inizio, e non tace, anche se ricorrendo a termini minimizzanti, la questione che si poneva al concilio del rapporto con il mondo moderno: “Il y avait une attente incroyable. Nous espérions que tout se renouvelle, que vienne vraiment une nouvelle Pentecôte, une nouvelle ère de l’Église, parce que l’Église était encore assez robuste en ce temps-là […]. Et nous savions que la relation entre l’Église et la période moderne, depuis le commencement, était un peu discordante, à commencer par l’erreur de l’Église dans le cas Galilée; on pensait corriger ce mauvais commencement et trouver de nouveau l’union entre l’Église et les meilleures forces du monde, pour ouvrir l’avenir de l’humanité, pour ouvrir le vrai progrès[80]. Ainsi, nous étions pleins d’espérance, et aussi de volonté de faire notre part pour cela”.

Benedetto si dimentica però di dire che tutti gli schemi preparatori, se si eccettua quello sulla liturgia, erano caduti nel corso dei lavori. Non nasconde però momenti di tensione, come quando, il giorno stesso dell’apertura del concilio, su iniziativa dei cardinali Liénart e Frings, i padri si rifiutarono di votare le liste già preparate dei candidati che dovevano far parte delle diverse commissioni, per poterne predisporre altre per proprio conto. “C’est n’était pas un acte révolutionnaire”, si affretta a precisare Benedetto, “mais un acte de conscience, de responsabilité de la part des Pères conciliaires”. Più avanti comunque non esiterà a parlare di liti, di battaglie, di conflitti intorno all’una o all’altra questione, sempre o quasi tuttavia risolti per il meglio, grazie soprattutto agli interventi di Paolo VI.

In genere egli sottolinea l’importanza dei temi discussi nel concilio, dei testi che ne furono il frutto. Non manca però di lasciar trasparire anche perplessità e critiche già espresse da tempo[81]: così su alcuni esiti della riforma liturgica o sulla persistenza, tra gli esegeti, della pretesa di voler leggere la Scrittura “en dehors de l’Église”, rivendicando l’autonomia del metodo storico-critico. Né si nasconde la necessità di approfondimenti, come ad esempio per ciò che riguarda il dialogo con le  altre religioni da parte di una Chiesa depositaria, essa, dell’“unicité de la Révelation de Dieu”, dell’“unicité de l’unique Dieu incarné dans le Christ”, non senza aver precedentemente ribadito che “il n’est pas possible, pour un croyant, de penser que les religions sont toutes des variations sur un thème”. Quanto all’ecumenismo, appena accennato, ribadisce quanto aveva detto da tempo, che cioè “seul Dieu peut donner l’unité”, con un almeno apparente totale depotenziamento dell’iniziativa degli uomini.

Ma il nucleo forte della sua esposizione, che chiarisce insieme l’ottica con cui egli guarda alle modalità con cui l’eredità del concilio dovrà operare in futuro nella Chiesa, sta nella parte finale della sua “petite causerie”, dove contrappone il concilio dei padri, tutto svolto sotto il segno della fede, al concilio dei giornalisti e dei media: “tandis que tout le Concile […] se mouvait à l’intérieur de la fois, comme fides quaerens intellectum, le Concile des journalistes ne s’est pas réalisé, naturellement, à l’intérieur de la fois, mais à l’interieur des catégories des media d’aujourd’hui, c’est-à-dire hors de la fois, avec une herméneutique dfférente. C’était une herméneutique politique: pour les media, le Concile était une lutte politique, une lutte de pouvoir entre divers courants dans l’Église. Il était évident que les media prendraient  position pour la partie qui leur apparaissait convenir le plus avec leur monde”. E dunque decentralizzazione, con più potere ai vescovi; potere al popolo, ai laici (“souveraineté populaire”) ricorrendo alla formula “Peuple de Dieu”. E ancora la liturgia, non come atto di fede, “mais comme quelque chose où se font des choses compréhensibles, quelque chose de l’activité de la communauté, une chose profane”, dove ogni sacralità è abbandonata.

Benedetto è durissimo: “Ces traductions, ces banalisations de l’idée du Concile ont été virulentes dans la pratique de l’application de la Réforme liturgique : elles sont nées d’une vision du Concile extérieure à sa propre clé, celle de la foi”. Va ricordato che proprio negli aspetti considerati arbitrari assunti dall’applicazione della riforma liturgica Ratzinger aveva indicato le ragioni di fondo della ribellione di mons. Lefebvre, minimizzando così, per non dire rimuovendo, le motivazioni teologiche e dottrinali che l’avevano mosso[82].

Al “Concile des media” vanno attribuite secondo Benedetto tutte le crisi e le difficoltà che hanno colpito la Chiesa: “Nous savons combien ce Concile des media fut accessible à tous. Donc, c’était celui qui dominait, le plus efficace, et il a créé tant des calamités, tant des problèmes, réellement tant des misères: séminaires fermés, couvents fermés, liturgie banalisée…et le vrai Concile a eu de la difficulté à se concrétiser, à se réaliser; le Concile virtuel était plus fort que le Concile réel”. La conclusione tuttavia, per Benedetto, deve essere ottimistica e apre prospettive precise: la forza del vero Concilio è presente, il Concilio virtuale si sta rompendo e perdendo, e “le vrai Concile apparaît avec toute sa force spirituelle”. Il compito attuale dunque è lavorare perché “le vrai Concile, avec sa force de l’Esprit Saint” si realizzi, “et l’Église soit réellement renouvelée”.

Sta qui il succo del suo discorso e il lascito che Benedetto lascia in primo luogo al suo successore: il concilio, sfrondato di tutto ciò che i media gli hanno a torto attribuito, come bussola e punto di riferimento per il futuro.

Per cercare di cogliere la portata e la direzione di marcia di una tale prospettiva è inevitabile porsi alcune domande preliminari: quale fondamento storico ha la ricostruzione che Benedetto offre dello svolgimento del concilio? quale consistenza presenta quella drastica contrapposizione tra il lavoro dei padri, condotto alla luce della fede, e le forzature e le deformazioni dei giornalisti, mossi da altre premesse e finalità? E infine quale concilio risulta da tale contrapposizione?

Già Raniero La Valle, nell’intervento che ho ricordato[83], ha rilevato la totale inconsistenza del giudizio formulato da Benedetto sui “giornalisti” che hanno lavorato e scritto intorno al concilio, tra i quali “c’erano uomini di grandissima fede” (da Laurentin  a Congar a Grooters a Fesquet a Nobécourt a Svidercoschi, che diverrà vicedirettore dell’ “Osservatore Romano”, e l’elenco potrebbe continuare). È  quanto mai significativo del resto, a segnare la correttezza delle cronache che vi figuravano, che l’“Avvenire d’Italia”, diretto allora da Raniero La Valle, venisse inviato a spese della Santa Sede a tutti i padri per l’intero corso del  concilio.

Non meno insussistente è la contrapposizione tra i due Concili proposta da Benedetto. Non a torto La Valle precisa che il rischio che si creassero due Concili, uno dei padri e uno dei media, c’era effettivamente stato: «ma questo era il progetto della Chiesa preconciliare, che aveva creduto di nascondere il Concilio chiudendone le porte e decretandone il segreto, lasciando ai giornali la sola via dello “scoop”; ma questo finì subito, all’inizio della seconda sessione, quando il segreto fu rotto e il Concilio irruppe nella coscienza dei fedeli […]».

Non si tratta però solo di questo. Perché è il quadro stesso del concilio, del suo clima, delle sue discussioni e contrapposizioni, quale viene offerto da Benedetto, che fa acqua da molte parti. Perché egli oblitera del tutto la radicalità e la violenza con cui le prospettive che nel concilio venivano affacciandosi per la Chiesa erano state combattute da una agguerrita minoranza in nome della Tradizione e di quella “Chiesa di sempre” che i padri della maggioranza erano accusati di voler stravolgere se non addirittura distruggere. Non è un caso, né un’indebita forzatura, che il fantasma del modernismo si sia prepotentemente riaffacciato nelle discussioni e nei commenti di quegli anni, perché era ancora con i problemi che la sua condanna aveva lasciato irrisolti che il concilio era chiamato a misurarsi. La grande questione del rapporto della Chiesa con la storia, dei condizionamenti che la storia aveva via via espresso e rappresentato nel costruirsi stesso della Chiesa come nelle formulazioni della fede e nel modo stesso di proporla e di viverla resta del tutto assente nella ricostruzione di Benedetto.

 L’ho documentato ampiamente nel mio libro La Chiesa dell’anticoncilio: non era solo in colloqui privati ma in scritti pubblicati a concilio in corso che mons. Lefebvre vedeva nelle discussioni conciliari una “fase della lotta del  Principe di questo mondo contro la Chiesa di Nostro Signore”, e scriveva della collegialità e dell’“inconcepibile schema” sulla libertà religiosa come dei due “cavalli di Troia” con cui si vuole distruggere la Chiesa, denunciando negli obiettivi perseguiti dai novatori la presenza delle “tesi sostenute dai protestanti e dai comunisti”. Non era  solo Lefebvre a pensare e parlare così. L’ombra del complotto modernista, la presenza di “mani tenebrose” che mirano alla sovversione della Chiesa costituiscono temi fondanti dell’opposizione conciliare[84]. Era un cardinale del peso di Giuseppe Siri che consigliava Paolo VI di chiudere quanto prima il concilio, “perché l’aria del concilio fa male”[85]; e giudizi più o meno simili circolavano largamente negli ambienti della curia e tra i padri della minoranza.

È dunque anche alla luce della violenza di tale opposizione che vanno misurate e colte quelle prospettive reali di “svolta” profonda che negli obiettivi della maggioranza venivano delineandosi per la Chiesa. La storia degli anni successivi è la storia della loro lenta rimozione e accantonamento, attraverso una lettura minimalistica di ciò che nel concilio era stato detto e fatto. Ma è anche la storia della sistematica repressione di tante iniziative che, ispirandosi al concilio, miravano a proporre e a battere strade e modalità nuove di presenza cristiana, del modo stesso di essere cristiani: dalla pesante “normalizzazione” operata nei confronti della Chiesa olandese, alle condanne portate contro la teologia della liberazione in America latina, al commissariamento della Compagnia di Gesù[86]. E forse bisognerà anche cominciare a chiedersi se la crisi che ha colpito allora tanti settori e ambienti della Chiesa non sia dovuta anche alla mancata realizzazione di quel rinnovamento profondo in tutti gli ambiti del pensiero, della pratica e dell’organizzazione religiosa su cui il concilio aveva avviato una riflessione e aperto inaspettate prospettive.

Un’ultima osservazione. La distinzione del concilio dei padri dal concilio dei media proposta da Benedetto XVI fa il paio con quella proposta da mons. Guido Pozzo, segretario della commissione pontificia Ecclesia Dei e capo della delegazione vaticana che era stata incaricata di condurre i colloqui dottrinali di conciliazione con la FSSPX. Pozzo aveva distinto il concilio dall’“ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare che si è impadronita del concilio fin dal principio, sovrapponendosi ad esso” e creando il quadro interpretativo in cui i documenti conciliari (che peraltro a quell’ideologia sarebbero rimasti estranei) dovevano essere letti. Per lui è appunto da tale ideologia, operante fin dal concilio e largamente nel post-concilio, che i testi del concilio devono essere liberati[87].

        Anche in tale distinzione, come in quella di Benedetto, le forzature, per non dire le contorsioni interpretative, non mancano. Ma ciò che conta è che entrambe hanno nel definitivo depotenziamento delle virtualità del concilio il loro obiettivo primario. Ciò che per molti doveva essere allora un inizio, che degli inizi aveva tutta l’effervescenza e la vivacità creativa (non era il ricorso ad una mera formula di circostanza il parlare che si faceva allora di “nuova Pentecoste”), viene piegato e ridotto alla “lettera” di testi che in molti casi presentano ambiguità e contraddizioni interne, frutto dei compromessi raggiunti o imposti da Paolo VI che aspirava ad una sostanziale unanimità dei padri. Ma si mette così da parte ciò che in ogni corretta esegesi di documenti assembleari non può mancare, ossia l’analisi del contesto in cui sono nati, delle discussioni che li hanno preceduti, per coglierne le ragioni e lo spirito che li hanno prodotti[88]. La “creazione” del “concilio dei media” da una parte, e dell’“ideologia paraconciliare” dall’altra, risponde allo stesso scopo: consegnare al futuro un concilio che ha perduto molta parte del suo significato e della sua novità.

3. L’elezione al papato, nel pomeriggio del 13 marzo, del cardinale Jorge Mario Bergoglio lasciò pieni di stupore i milioni di spettatori che si affollavano in piazza San Pietro o davanti i televisori di mezzo mondo. Bergoglio infatti non figurava affatto tra i papabili più accreditati; inoltre era la prima volta di un cardinale dell’America latina e di un gesuita. E lo stupore crebbe nel sentire che si era scelto il nome di Francesco: un nome divenuto carismatico e denso di implicazioni nel Medioevo, e forse proprio per questo regolarmente schivato dalla lunga teoria di papi succedutisi negli ultimi sette/otto secoli. Ma lo stupore si mutò in entusiasmo collettivo nell’ascoltare le sue prime parole di saluto, in uno stile semplice e piano, privo di ogni orpello di ieratica sacralità: a cominciare da quel “Fratelli e sorelle, buona sera!” con cui iniziò il suo discorso, chiuso da un altrettanto famigliare “Buona notte e buon riposo!”. Non era tuttavia solo questione di stile. Il suo autodefinirsi “vescovo di Roma”, il suo riferirsi alla Chiesa d Roma come a “quella che presiede nella carità tutte le Chiese”, lasciava intravedere un impianto di governo più attento alla collegialità di quanto non fosse stato finora. E poi ancora le sue parole di condivisione  (fratellanza, amore, fiducia tra noi) che suggerivano un cammino comune, vescovo e popolo, espresso anche dalla sua richiesta ai presenti, prima di dare la benedizione, di pregare il Signore perché a sua volta lo benedica[89].

            Fu un inizio. Altri segnali di novità, di cambiamento, seguirono infatti nelle settimane successive. Ne dirò qualcosa tra poco. Preliminarmente, tuttavia, credo opportuna una breve avvertenza. Sarebbe del tutto insensato tentare da parte mia un primo bilancio di questo inizio di papa Francesco, del tutto o quasi improponibile, del resto, rispetto alle questioni che sono state e sono oggetto di questo mio lavoro. Ma ciò anche perché quasi soltanto di segnali, di indizi più o meno significativi, si può per ora parlare. La stessa scelta del nome non appare ancora pienamente chiara nella sua ricca pregnanza e nelle sue eventuali conseguenze: Francesco, per la sua volontà di vivere “secundum formam sancti evangelii”? per la sua scelta di povertà? Per il proposito di rinnovare la Chiesa che le fonti agiografiche gli attribuiscono? Parlando di questa sua scelta il 16 marzo, nell’udienza ai rappresentanti dei media, papa Bergoglio ha detto: “(Francesco d’Assisi) è per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? É l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero…Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”[90].

Inoltre, nonostante le apparenze, spesso anche l’informazione resta lacunosa e imprecisa, troppe volte segnata dalle simpatie o antipatie di chi la fornisce. Anche i materiali disponibili risultano più limitati di quanto sembri. La quotidiana omelia mattutina tenuta durante la messa celebrata a Santa Marta, veicolo privilegiato di comunicazione da parte di papa Francesco, così estranea per quel che se ne sa alle genericità onnicomprensive di certa tradizionale omiletica ecclesiastica, rimane tuttavia inaccessibile nella sua interezza, perché assente nel sito della Santa Sede. Detta a braccia, interamente registrata e poi trascritta, come informa Sandro Magister, “ne vengono solo forniti due parziali resoconti, dalla Radio Vaticana e da “L’Osservatore Romano”, redatti indipendentemente tra loro e quindi con una maggiore o minore ampiezza delle citazioni testuali”. E proprio Magister segnalava nella versione offerta da “L’Osservatore Romano” l’omissione di un significativo cenno allo IOR presente nell’omelia della messa del 24 aprile, che figura invece in quella della Radio Vaticana[91].

Com’era ovvio, dopo la sua elezione, i giornali si sono messi a sfruculiare sui suoi comportamenti passati per reperirvi ragioni di apprezzamento o di critica, mentre gli editori si sono precipitati a tradurre libri e interventi suoi effettuati come arcivescovo di Buenos Aires: alcuni indubbiamente significativi e importanti per conoscere il suo pensiero e i suoi orientamenti pastorali, come quello scritto a quattro mani con l’amico rabbino Abraham Skorka, o come la lunga conversazione autobiografica con due giornalisti argentini uscita originariamente nel 2010[92]. Sarebbe però una forzatura voler dedurne meccanicamente le sue scelte e i suoi comportamenti futuri, in contesti e rispetto a problemi spesso non poco diversi.   

Innumerevoli i gesti suoi che suonano di rottura, rispetto a quell’aura di imponente sacralità che normalmente si vuole circondi la figura del papa: il suo scendere familiarmente a conversare tra la gente alla fine delle udienze; il suo evitare l’appartamento papale per continuare ad abitare e a mangiare a Santa Marta, insieme agli ospiti abituali o di passaggio; il suo mettersi, come un buon parroco, alla porta della chiesa per salutare i fedeli che escono dalla messa; alla conclusione dell’udienza ai rappresentanti dei media, calorosamente ringraziati per il loro lavoro, il suo aver indirizzato la sua benedizione ai presenti in silenzio, in segno di rispetto della coscienza di ciascuno, sapendo che molti non erano cattolici. E gli esempi potrebbero continuare.

Cambia lo stile, ma non è solo questione di stile. E indubbiamente un segno di svolta è l’aver riavviato il processo di beatificazione di mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato, mentre celebrava la messa, da un sicario dei militari al governo, dopo il blocco di quindici anni imposto dalla gerarchia più conservatrice, che sentiva odore di marxismo e di sovversione in ogni critica ai feroci regimi reazionari del Centro-America[93]

            Vi sono inoltre affermazioni di papa Francesco che si presentano di grande spessore, anche se ancora si profilano inevitabilmente di incerto futuro. Radicale è il suo invito alla Chiesa e agli uomini di Chiesa di marciare tra la gente con la Croce, unica maniera di confessare il Cristo: “Quando camminiamo senza la Croce, quando  edifichiamo senza la Croce e quando nous confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore”[94]. Erano parole forti, ammonimenti di fondo: difficile tuttavia non rilevarne l’estraneità alle rivendicazioni di potere e al radicato e pomposo trionfalismo largamente presenti tra le file delle gerarchie ecclesiastiche in paesi come l’Italia e non solo: tali dunque da profilare una loro traduzione operativa non priva di difficoltà, e opposizioni che non sarà facile superare.

In altra occasione, già ricordata, ha esclamato, allontanandosi, secondo le testimonianze dei presenti, dal testo scritto: “Ah, come vorrei una Chiesa  povera e per i poveri!”[95]: una Chiesa povera, non solo dei poveri o per i poveri; una Chiesa povera, ciò che oggi la Chiesa chiaramente non è (anche se non mancano, sarebbe stolto dimenticarlo, realtà ecclesiali “per i poveri”). Il proposito è estremo, molti certamente lo hanno trovato bello e consolante. Ma esiste una strada per realizzarlo? Non è un’impresa titanica per non dire pressoché impossibile, a guardare ciò che attualmente e da secoli è la Roma papale? Sono parole che possono avere un domani?

Si può forse pensare che in tale proposito risuoni anche l’eco lontana di un’esigenza emersa con forza nel corso del Vaticano II, con il lavoro del gruppo informale “Gesù, la Chiesa e i poveri”, che coinvolse numerosi autorevoli padri, anche se solo limitate e parziali sono state le sue ricadute[96] (ma non in America latina dove l’Assemblea di Medellin ne ha ripreso le prospettive, segnando profondamente per non pochi anni gli  orientamenti di quelle Chiese, prima che gli interventi romani ne stroncassero in gran parte lo slancio)[97]. Ed echi e riprese evidenti di temi forti del concilio, così come l’aveva pensato Giovanni XXIII, stanno nella sua insistenza sul tema della misericordia (“Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore: la misericordia”, come disse nell’omelia tenuta alla parrocchia di Sant’Anna il 17 marzo)[98]; nel ricorrente invito ad evitare ogni autoreferenzialità, a incontrare gli altri, a uscire nelle «“periferie”, dove c’è  sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono  prigionieri di tanti cattivi padroni»; un invito ribadito dall’esortazione ai preti di essere «pastori con “l’odore delle pecore”»[99].

Il tema della Chiesa che non deve rinchiudersi, che deve “uscire da se stessa”, è ricorrente nei discorsi di papa Francesco. Era stato l’argomento centrale nel suo intervento durante una della Congregazioni precedenti il conclave, con il richiamo alla Chiesa che “doit sortir d’elle-même et aller vers les périphéries”, con la denuncia di “une Église autoréférentielle, qui se regarde elle même en une sorte de narcissisme théologique”[100]; Sarà tema variamente ripreso nelle omelie pronunciate nel corso della messa mattutina celebrata a Santa Marta e ancora riproposto al raduno dei 150 movimenti ecclesiali in piazza San Pietro il 18 maggio[101]: “Non chiudersi, per favore! Questo è il pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro  con i quali pensiamo le stesse cose…ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. […] La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano ma uscire. […] Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura. Uscite fuori, uscite!”.     

Al Vaticano II (e ancora una volta a Giovanni XXIII) si è riferito ricevendo il 20 marzo i rappresentanti delle Chiese e comunità ecclesiali e di altre religioni (in particolare musulmani ed ebrei) per ricordare l’importanza che gli orientamenti allora assunti hanno avuto nel cammino ecumenico e nel dialogo interreligioso, in vista della “promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose” e anche con quanti non si riconoscono in nessuna tradizione religiosa, ma “si sentono tuttavia in ricerca della verità, della bontà, della bellezza”, e sono perciò “nostri preziosi alleati nell’impegno a difesa della dignità dell’uomo, nella costruzione di una convivenza pacifica fra i popoli e nel custodire con cura il creato”[102].

Una ripresa del tema conciliare della collegialità può essere individuata nella nomina da parte sua di otto cardinali provenienti dai diversi continenti perché lo aiutino nel governo della Chiesa universale e nell’avviare una riforma della curia[103]. Ma nulla l’istituzione di una tale commissione ancora ci dice se e in quale misura Roma rinuncerà a certe sue prerogative di governo (come, ad es., la nomina dei vescovi) per decentrarne la pratica.

Sul concilio papa Bergoglio è ancora ritornato il 17 aprile, nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta, con toni esplicitamente critici sul modo di ricordarne il cinquantenario dell’apertura: “Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento, ma che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore”[104].  

            Sono, per ciò che conosco, le parole di papa Francesco che più chiaramente possono venir riferite alla FSSPX e ai suoi aderenti, coloro appunto che, rispetto agli esiti del concilio, “vogliono ritornare indietro”. Non erano parole che potevano piacere alla Fraternità. Significativamente sono proprio queste parole che aprono una rassegna molto critica che DICI gli dedicherà il 17 maggio 2013[105]. Come non poteva piacerle il tipo di segnali lanciati da papa Francesco in questi primi mesi del suo pontificato, così poco in linea con l’irriducibile tradizionalismo e l’autoreferenzialità che distinguono l’idea e la pratica di Chiesa e di cristianesimo patrocinate dalla Fraternità.

            La rinuncia di Benedetto aveva colto anche la Fraternità di sorpresa. Un comunicato della Maison générale datato 11 febbraio espresse l’apprezzamento e la gratitudine della Fraternità per ciò che egli aveva fatto nei suoi confronti, nonostante le aspre opposizioni incontrate. Il comunicato concludeva riaffermando l’attaccamento della Fraternità alla “Rome éternelle”, ripetendo il suo desiderio di poter apportare il suo contributo per risolvere la grave crisi che scuote la Chiesa, e aggiungendo in fine di pregare perché lo Spirito Santo illumini nel prossimo conclave i cardinali ad eleggere “le pape qui, selon la volonté de Dieu œuvrera à la restauration de toutes choses dans le Christ”[106].

 Le pressioni romane perché la Fraternità accettasse l’accordo erano in quelle settimane, come si ricorderà, in pieno corso. Forse anche per questo Fellay, in una conversazione pubblicata su “Nouvelles de France” il 15 febbraio, a pochi giorni dunque dall’annuncio-choc di Benedetto, aveva confessato: “Un bref instant, j’ai pensé qu’en annonçant sa renonciation, Benoit XVI ferait peut-être un dernier geste envers nous en tant que Pape”[107]: una concessione senza contropartite preventive dunque - questa la speranza -, com’era avvenuto per la messa di San Pio V e per la revoca della scomunica? Ma Fellay aveva anche aggiunto: “Cela étant, je vois difficilement comment cela peut être possible. Il faudra probablement attendre le prochain Pape”.

            Per Fellay la posizione che la Fraternità doveva assumere era chiaramente di prudente attesa. È significativo che in quella stessa conversazione egli dichiari che per la Chiesa vi erano problemi più importanti di quelli posti dalla Fraternità: una volta regolati quelli, anche il problema della Fraternità lo sarà. Come sempre “nuova messa” e determinate decisioni del Vaticano II restavano le principali pietre d’inciampo. Ma Fellay si mostrava paziente: “nous ne nous attendons pas à ce que Rome condamne Vatican II avant longtemps. Elle peut rappeler la Vérité, corriger discrètement les erreurs en sauvegardant son autorité”, senza che ciò implichi, “du jour au lendemain”, un pieno soddisfacimento delle rivendicazioni della Fraternità.  O prima o dopo tuttavia, per Fellay, ciò avverrà, “la situation deviendra acceptable et nous pourrons être d’accord, même si aujourd’hui cela ne semble pas être le cas”.

Difficile dire se si tratti solo della consueta e più volte ribadita fiducia nella provvidenza che non potrà non “restaurare” la Chiesa, di ottimismo di maniera o di qualche più fondata e concreta aspettativa sugli esiti del prossimo conclave. L’elezione inaspettata del cardinale Bergoglio complicò la situazione, rendendo, agli occhi della Fraternità, più oscure le prospettive per il futuro.   

In occasione dell’elezione, un comunicato della Maison générale assicurò il Santo Padre delle preghiere della Fraternità e del desiderio filiale dei suoi vescovi, preti, religiosi e religiose «de “tout restaurer dans le Christ, afin que le Christ soit tout en tous” (Eph. 1, 10), selon leurs moyens, pour l’amour de la sainte Eglise catholique romaine»[108]. Una foto, evidentemente beneaugurante, di papa Francesco in preghiera davanti il sarcofago di san Pio V, nel corso della sua visita a Santa Maria Maggiore il 14 marzo, ne capeggiava il testo. Il comunicato citava anche un passo della E supremi apostolatus con cui Pio X aveva inaugurato il suo pontificato: vi si affermava la sua volontà di non voler essere altro, “au milieu des sociétés humaines, que le ministre de Dieu qui Nous a revêtu de son autorité”. Era una citazione significativa anche alla luce di ciò che il giorno successivo l’abbé Christian Bouchacourt, superiore del distretto dell’America del Sud della FSSPX, trovava modo di rimproverargli[109]: “Le cardinal Bergoglio veut être un pauvre parmi les pauvres. Il cultive une humilité militante, mais qui peut se montrer humiliante pour l’Église. Son apparition à la loggia de Saint-Pierre en simple soutane, sans son rochet et sa mozette de pape en est la parfaite illustration”. Bouchacourt definiva un disastro le liturgie da lui presiedute (“Avec lui, nous risquons de revoir les messes du pontificat de Paul VI, bien loin des efforts de Benoit XVI pour remettre en honneur des cérémonies liturgiques plus dignes”). Citava con orrore il fatto che nel corso di una riunione ecumenica “il s’agenouilla pour recevoir la bénédiction de deux pasteurs”. Per lui Bergoglio è “un homme de consensus, qui a horreur des affrontements”.

Fu un crescendo. Mentre da varie parti della galassia lefebvrista, pur ribadendo la propria fedeltà “à l’Église catholique romaine”, si ripeteva, in riferimento al nuovo papa, che «nous ne pourrons aller plus loin dans les relations que si se réalise la “conversion de Rome”»[110], sempre più nette ed esplicite diventavano le testimonianze critiche nei suoi confronti. L’abbé Régis de Cacqueray, superiore del distretto di Francia, in un editoriale di “Fideliter”, dopo la consueta argomentazione che la disobbedienza della Fraternità al magistero post-conciliare e ai papi che si sono succeduti è solo apparente perché in realtà costituisce la vera obbedienza dovuta dai cristiani gelosi della loro fede, enunciava i gravi timori suscitati da quanto si veniva apprendendo degli atti e dei comportamenti di Bergoglio quale arcivescovo di Buenos Aires. La “nouvelle messe” da lui abitualmente celebrata, il suo inginocchiarsi per ricevere la benedizione da due pastori protestanti, e l’aver messo a disposizione della comunità giudaica la cattedrale di Buenos Aires per una loro festa, alla quale per di più ha partecipato egli stesso, sono i tre principali capi di accusa. Pienamente in linea con un discorso cento volte riascoltato il suo sdegnato commento: “Si sa théologie ne lui permettait pas de comprendre, lorsqu’il il était évêque et cardinal, que la bénédiction donnée par un pasteur protestant n’est en réalité qu’une parodie de bénédiction et que les cérémonies religieuses juives sont mortifères et injurieuses pour la divinité de Notre-Seigneur Jésus-Christ et pour la foi catholique, qu’en est-il aujourd’hui, maintenant qu’il est pape? Comment ne se poser cette question?”[111].

Particolarmente impegnato appare l’abbé Bouchacourt. In un lungo intervento apparso sul sito del distretto America del Sud, egli definisce Bergoglio “un homme totalement habité par l’esprit du concile”. Contrariamente al suo predecessore scarsi sono i suoi riferimenti espliciti al Vaticano II: infatti “il le vit”. Bouchacourt riconosce che la sua vita è semplice e austera, ma il suo torto è che il suo apostolato è centrato “totalement sur l’homme”, scegliendo “la lutte contre la pauvreté, l’injustice et la corruption”. Bergoglio, abbandonando la solennità delle cerimonie liturgiche sembra dimenticare che in quanto vicario di Cristo egli è “la plus haute autorité sur la terre”: “Le port de ses insignes pontificaux, le faste du protocole et des cérémonies qu’il préside, protègent cette autorité, manifestent les dons qu’il a reçu de Dieu et donnent joie et fierté aux membres de l’Église. Ainsi sera manifestée la vertu de magnanimité qui doit habiter le pape […]. De la vertu de magnanimité doit dériver celle de la magnificence […] pour la gloire de Dieu et l’honneur de la sainte Église”[112]

Non insisterò ulteriormente nell’analisi di questo testo. Come sempre i principali punti di riferimento sono Pio X e mons. Lefebvre, ulteriori capi di accusa l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, perché non vi risuona l’appello alla conversione, dimenticando così che la Chiesa cattolica è la “seule arche de salut”. Era l’errore capitale del magistero postconciliare. Non a caso Bouchacourt alla fine del suo intervento annuncia la prossima uscita in traduzione spagnola del Catéchisme catholique de la crise dans l’Église  dell’abbé Gaudron, che aiuta a comprendere “ce qu’est la révolution religieuse que nous sommes en train de vivre”[113].

Questo, come altri scritti più o meno analoghi diffusi tra i membri e i fedeli della FSSPX attestano mi pare la persuasione dei suoi responsabili che con papa Francesco la stagione delle aperture vaticane verso la Fraternità, nonostante gli amici che ancora conta nella curia, difficilmente si sarebbe riproposta. Per la Fraternità si profilava, come disse Tissier de Mallerais il 19 maggio in un sermone in vista del pellegrinaggio di Chartres, un lungo cammino “sur la route de l’exil, pour longtemps peut-être”[114]. L’invito alla preghiera, a continuare a lavorare con passione “dans la clarté de la vérité”, ne era lo scontato accompagnamento. Resta del tutto incerto se vi saranno, e quali, eventuali iniziative future da parte della Fraternità in direzione di Roma. Come non meno incerte restano la futura attività e le eventuali mosse della Commissione Ecclesia Dei, che appunto con la Fraternità era stata incaricata di trattare.  

NOTE

[1] Così, anche per ciò che segue, il Communiqué du Saint-Siège sur la rencontre  entre la Congrégation pour la doctrine de la foi et la FSSPX du 14 septembre 2011, in

http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/14_09_2011_StSiege_rencontre_fsspx.php

Una ricostruzione, non sempre persuasiva, dell’insieme di queste vicende (fino al maggio 2012) offre Christian Gabrieli, Uno scisma moderno. La comunità lefebvriana, Prefazione del card. Velasio De Paolis, EDB, Bologna 2012, pp. 305.

[2] In «Choisir», n° 629, mai 2012, p. 2.

[3] Conférence Mgr Bernard Fellay: actualité des rapports entre Rome et la Fraternité, in www.laportelatine.org/publications/entret/2011/fellay_UDT110814/Fellay110815_udt.php

[4] Sermon de Mgr Alfonso de Galarreta le 29 juin 2011, pour les ordinations diaconales et sacerdotales à Ecône, in

www.laportelatine.fr/mediatheque/sermonsecrits/galerreta110629/econe110629.php

[5] La regolarizzazione della Fraternità S. Pio X: Non così facile come si potrebbe pensare, in http://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=411:la-regolarizzazione-della-fraternita-s-pio-x-non-cosi-facile-come-si-potrebbe-pensare&catid=53:attualita&Itemid=50

[6] Supplique de 80 personnalités italiennes au pape Benoît XVI pour un examen approfondi du concile œcuménique Vatican II (24 septembre 2011), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/24_09_2011_supplique_benoit16_examen_concile.php

[7] Cfr., tra gli altri, Il Concilio Vaticano II: mito e realtà (Rimini, 28-30 ottobre 2011), con partecipazione tra gli altri di Elena Bianchini Braglia, Mario Palmaro, Massimo de Leonardis; Concilio Vaticano II: Tradizione o Rivoluzione? (Rimini, 19-21 ottobre 2012), con partecipazione tra gli altri di Alessandro Gnocchi e Pierpaolo Petrucci; Vaticano II, 50 anni dopo: quale bilancio per la Chiesa? (Versailles-Parigi, 4-6 gennaio 2013 – IX Congresso teologico del “Courrier de Rome”), con massiccia partecipazione di membri della Fraternità, ma anche di Roberto de Mattei.

[8] Cfr. Jean-Bernard Livio s.j., Église, veux-tu te laisser ressusciter?, in «Choisir», n° 628, avril 2012, p. 2 sg. Per un recentissimo quadro di tali denunce, a fronte del progressivo affermarsi di tendenze repressive e restauratrici, in particolare nel corso del pontificato di Benedetto XVI, cfr. Il dissenso soffocato: un’agenda per papa Francesco, a cura di Mauro Castagnaro e Ludovica Eugenio, edizioni la meridiana, Molfetta (Ba) 2013, pp. 295.

[9] Cfr. «Kirche 2011: ein notwendiger Aufbruch». Argumente zum Memorandum, Marianne Heimbach-Steins/Gerhard Kruip/Saskia Wendel (Hg.), Herder, Freiburg im Breisgau 2011, pp. 298 (il testo del Memorandum a pp. 33-36). Vedi anche Das Memorandum. Die Positionen im Für und Wider, Judith Kövemann/Thomas Schüller (Hg.), Herder, Freiburg im Breisgau 2011, pp. 194. Un’analisi complessiva offre Christoph Böttigheimer, Kirchlicher Reformbedarf, in “Stimmen der Zeit”, Heft 3, märz 2012, pp. 187-196.

[10] Vedi ad es. il comunicato di Wir sind Kirche del 18 settembre 2011 in occasione della visita di Benedetto in Germania (www.noisiamochiesa.org). Per le vicende della suore americane cfr. M. Faggioli, Dalle inchieste all’intervento, in RA, 2012/8, p. 263; Lo stesso, Roma e le teologhe, in RA, 2012/12, p. 378, e per alcuni documenti della discussione, RD, 2012/15, pp. 458-467.

[11] Kardinal Carlo M. Martini / Georg Sporschill, Jerusalemer Nachtgespräche. Über das Risiko des Glaubens, Herder, Freiburg im Breisgau 2008, p. 72 (nell’ed. italiana, Mondadori 2008, da cui cito, p. 61 sg.).

[12] Ivi, p. 119 (rispettivamente p. 103).

[13] Cfr. L’addio a Martini. “Chiesa indietro di 200 anni”. L’ultima intervista: ”Perché non si scuote, perché abbiamo paura?”, in CdS, 12 settembre 2012.

[14] Cfr., ad es., Côme de Prévigny, Le cardinal Martini n’est plus (Fideliter 210), in

http://laportelatine.org/publications/presse/2013/fideliter210/previgny_210_dc_martini.php; Con la morte del cardinale Martini è stata canonizzata la teologia del dubbio, in “Corrispondenza romana”, 21 settembre 2012, www.corrispondenzaromana.it

[15] Cfr. Comunicato della Casa Generalizia della Fraternità Sacerdotale San Pio X, in www.unavox.it/Documenti/doc0349_FSSPX_Comunicato_7-10-11.html

[16] Cfr., anche per ciò che segue, La Fraternité Saint-Pie X et le Préambule doctrinal. Entretien avec Mgr Bernard Fellay, Supérieur Général de la FSSPX (Menzingen, le 28 novembre 2011), www.dici.org/actualites/entretien-avec-mgr- fellay-superieur-general-de-la-fraternite/28_11_2011. Poco tempo prima, in un’intervista a “Famille chrétienne” pubblicata il 20 settembre 2011, l’abbé Lorans, portavoce della FSSPX, non si era espresso diversamente: «Pour la Fraternité Saint-Pie X, la marge d’interprétation du concile est “la” question » (in http://www.famillechretienne.fr/agir/vie-de-l-eglise/pour-la-fraternite-saint-pie-x-la-marge-d-interpretation-du-concile-est-la-question-18227)

[17] Cfr. Document de réflexion de Mgr Gakarreta suite à la réunion d’Albano d’octobre 2011, in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/10_2011_galarreta_synthese_reunion_albano.php

[18] Cfr. Déclaration du Père Lombardi sur la réponse de la FSSPX au Préambule doctrinal (21 décembre 2011), www.laportelatine.fr/vatican/sanctions_ indults_ discussions/entretiens_doctrinaux/21_12_2011

[19] Communiqué après la rencontre entre le cardinal Levada et Mgr Fellay (16 mars 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/16_03_2012_communique_vatican_rencontre_levada_fellay.php

[20] Cfr. rispettivamente Lettre de Mgr  Galarreta, Tissier de Mallerais et Williamson à Mgr Fellay et au Conseil général de la Fraternité St Pie X  (7 avril 2012), in http://www.unavox.it/Documenti/Doc0382_Lettera_Vescovi_a_Mons-Fellay.html; e per la risposta di Fellay e del Consiglio generale della Fraternità

http://www.unavox.it/Documenti/Doc0383_Risposta_di_Mons-Fellay_alla_Lettera_dei_tre_Vescovi.html. Una lettura “dolcificata” di questo scambio epistolare offre Gabrieli, Uno scisma moderno cit., pp. 287-291.

[21] Vedi sopra p. 399 (NB. Il riferimento è alle pagine del mio testo italiano).

[22] Cfr. Entretien avec Mgr Fellay à l’issue du Chapitre général de la Fraternité Saint-Pie X (16 juillet 2012), in

http://laportelatine.org/maison/communiques/econe_chapitre_general_120711/entretien_mgr_fellay_chapitre_general_120716.php

[23] Lettre de Mgr Bux à Mgr Fellay et aux prêtres de la FSSPX (19 mars 2012), in

http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/19_03_2012_lettre_bux_fellay_pretres_fsspx.php.  Vedi anche FSSPX : la lettre ouverte de Mgr Bux – Analyse dans DICI, n° 252  du 30/03/12, in

http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/30_03_2012_commentaires_fsspx_lettre_bux.php. In un’intervista pubblicata su Il Foglio il 27 aprile 2012 a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Bux ribadiva i suoi punti di vista sulla necessità di non fare del Vaticano II qualcosa di intoccabile : cfr. Fraternité Saint-Pie X: Deux avis divergents à propos des relations avec Rome  (27 avril 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/27_04_2012_avis_divergents_relations_rome_fsspx.php

[24] Cfr. G. Brunelli, Scola: da CL ad Ambrogio. L’eredità di trent’anni, gli atti pastorali, e Juliàn Carròn, Nomina di Scola, Lettera al nunzio mons. Bertello, in RA, 2012/12, p. 374 sg.

[25] Déclaration du P. Lombardi sur la réponse de la FSSPX au Préambule doctrinal (18 avril 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/18_04_2012_declaration_lombardi_reponse_fsspx.php

[26] Cfr. Rome et FSSPX : communiqué de la Maison générale de la FSSPX (12 mai 2012), in

http://laportelatine.org/maison/communiques/mg_lettres_internes120511/mg_lettres_internes120511.php

[27] Communiqué de la Congrégation pour la doctrine de la foi sur la réponse de Mgr Fellay (16 mai 2012), in

http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/16_05_2012_cdf_fellay.php

[28] Cfr. Scisma nello scisma? I vertici dei lefebvriani sempre più divisi sulla pace con Roma, in “Adista Notizie”, n. 20 del 26/05/2012.

[29] Cfr. Institut du Bon Pasteur: la visite canonique, un avertissement, par l’abbé Petrucci (si tratta del  Superiore del distretto d’Italia), in

http://laportelatine.org/vatican/disputatio/petrucci_ibp_1204/petrucci_ibp_1204.php

[30] Cfr. Les compromissions des hommes d’Église et des «catholiques conciliaires» avec les ennemis du Christ, in http://laportelatine.org/vatican/compromissions/compromissions.php

[31] Cfr. rispettivamente Sermon de Mgr Tissier de Mallerais à St-Nicolas (3 juin 2012), in http://laportelatine.org/mediatheque/sermonsecrits/tissier_stnicolas_120603/tissier_stnicolas_120603.php; e Entretien avec Mgr Bernard Fellay sur l’état présent des relations de la Fraternité avec Rome (DICI, n° 256, 08/06/2012), in

http://laportelatine.org/maison/communiques/fellay_relations_rome_120608/fellay_entretien_120608.php

[32] Cit. in  Rome-Fraternité Saint-Pie X : Revue de presse (DICI, 20-04-2012), www.dici.org/actualites/romefraternite-saint-pie-x-revue-de-presse

[33] Cfr. http://www.la-croix.com/Religion/Actualite/Le-rapprochement-avec-Rome-divise-les-lefebvristes-2012-07-08-870450

[34] Communiqué de la Salle de presse du Vatican suite à la rencontre du cardinal Levada avec Mgr Fellay (14 juin 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/14_06_2012_lombardi_rencontre_levada_fellay.php

[35] Cfr. Communiqué de la Maison Générale de la FSSPX suite à la rencontre de Mgr Fellay avec le cardinal Levada, in

http://laportelatine.org/maison/communiques/fellay_rome_levada_120614/fellay_rome_levada_120614.php

[36] Sermon de Mgr Fellay à Ecône pour les ordinations sacerdotales (29 juin 2012), in

http://laportelatine.org/mediatheque/videotheque/econe_ordinations_120629/sermon_mgrfellay_120629.php

[37] Chapitre Général – Communiqué de la Maison Générale: état des relations de la FSSPX avec Rome (11 juillet 2012), in

http://laportelatine.org/maison/communiques/econe_chapitre_general_120711/econe_chapitre_general_120711.php

[38] Cfr. Déclaration du Chapitre général de la Fraternité Saint-Pie X du 19 juillet 2012, in http://laportelatine.org/maison/communiques/econe_chapitre_general_120711/econe_chapitre_general_120711.php

[39] Cfr. Entretien avec Mgr Fellay à l’issue du Chapitre général (16 juillet 2012) cit. (vedi n. 22).

[40] Le enuncerà (con tutte le loro implicazioni) mons Galarreta in una conferenza tenuta il 13 ottobre 2012 a Villepreux: “Liberté de garder, transmettre  et enseigner la sainte doctrine du magistère constant de l’Église et de la Vérité immuable de la Tradition divine », e “User exclusivement de la liturgie de 1962” (cfr. L’utile leçon de l’épreuve passée, in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/2012_et_sequitur/13_10_2012_galarreta_villepreux_relations_rome.php).

[41] Vedi sopra n. 39.

[42] Un comunicato della Casa generalizia datato Menzingen, 24 ottobre 2012, annunciava l’esclusione di Williamson dalla FSSPX (cfr.FSSPX-Distretto Italia-Comunicati).

[43] Cfr. Communiqué de la Salle de presse du Saint-Siège sur la déclaration du chapitre de la FSSPX (19 juillet 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/19_07_2012_ced_sur_la_declaration_du_chapitre_de_la_fsspx.php

[44] Cfr. Mgr Müller à la tête de la Congrégation pour la doctrine de la foi (2 juillet 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/02_07_2012_nomination_muller_ddf.php. Per le sue dichiarazioni citate nel testo vedi L’objectif, c’est l’unité, qui inclut le magistère du Concile – Interview de Mgr Müller à Radio Vatican (4 juillet 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/04_07_2012_entretien_muller_radio_vatican.php. Per le posizioni di mons. Di Noia vedi la nota seguente.

[45] Mgr di Noia – Note de la Congrégation pour la doctrine de la foi sur la Commission Ecclesia Dei (26 juin 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/26_06_2012_nomination_ced_di_noia.php

[46] Cfr. Edward Pentin, Entretien de Mgr di Noia sur la Commission Ecclesia Dei et la FSSPX (“National Catholic Register”, 1er juillet 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/entretiens_doctrinaux/01_07_2012__di_noia_ed_et_la_fsspx.php. Per il ruolo decisivo svolto nel Vaticano II dai teologi “neo-modernisti”, Rahner in testa, secondo il punto di vista della Fraternità, vedi una sintesi in A. Dominique Bourmaud, Cent ans de modernisme. Généalogie du concile Vatican II, Clovis 2003, pp. 371-97 e in particolare 386 sgg.

[47] Cfr. Sermon de Mgr Fellay le 11 nov. A St-Nicolas: la continuité dans le concile? Où? A Assise?Dans le baiser du coran?, in http://laportelatine.org/mediatheque/sermonsecrits/fellay_st_nicolas_121111/fellay_st_nicolas_121111.php

[48] Cfr. Déclaration de la Commission Ecclesia Dei. Du temps supplémentaire pour la Fraternité Saint-Pie X (27 octobre 2012), in

http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/2012_et_sequitur/27_10_2012_ced_du_temps_pour_la_fsspx.php

[49] Cfr. Entretien de l’abbé Schmidberger sur les relations de la Fraternité Saint_Pie X avec Rome (18 septembre 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/2012_et_sequitur/18_09_2012_schmidberger_entretien_relations_rome.php. Vedi anche L’abbé Schmidberger rejette l’idée d’un ralliement à Rome, «La Croix», 20/9/12.

[50] Cfr. Entretien avec l’abbé Niklaus Pfluger, 1° Assistant général de la FSSPX (13 octobre 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/2012_et_sequitur/10_2012_pfluger_Kirchliche_Umschau.php

[51] Numerose sono raccolte sul sito francese “La Sapinière” che significativamente si presenta così: “site antimoderniste, antilibéral  et antimaçonnique, ayant reçu l’aval des prêtres antiralliement de la Fraternité Saint-Pie X. Cfr. in particolare

www.lasapiniere.info (Category Archives: Mgr Fellay).

[52] Cfr. L’utile leçon de l’épreuve passée cit. (vedi sopra n. 40). Toni non diversi presenta Régis de Cacqueray, Pape Paul VI pape héroïque?, in http://laportelatine.org/publications/presse/2013/fideliter211/cacqueray_211_paul6_pape_heroique.php

[53] Vedi sopra n. 48.

[54] Cfr. Frédéric Mounier, Rome maintient la porte ouverte aux lefebvristes, “La Croix”, 28 octobre 2012 (in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/2012_et_sequitur/28_10_2012_la_croix_porte_ouverte_a_la_fsspx.php

[55] Cfr. Lettre de Mgr J. Augustine Di Noia à Mgr Fellay et aux prêtres de la Fraternité Saint-Pie X (décembre 2012), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/2012_et_sequitur/12_2012_di_Noia_fellay_pretres_fsspx.php. Vedi anche U.R., Vatikan: Neues Angebot an die Piusbrüder, in “Herder Korrepondenz”, 67, 2013/3, p. 115 sg.

[56] Ricavo la notizia, diffusa da “La Croix”, da Benoît XVI confie le dossier de la Fraternité Saint-Pie X à son successeur – 1er mars 2013, in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/mars2013/01_03_2013_dossier_fsspx_prochain_pape.php

[57] In http://blog.lefigaro.fr/religioblog/2013/02/il-est-minuit-moins-le-quart-m.html

[58] Cit. in Benoît XVI confie le dossier de la Fraternité Saint-Pie X à son successeur cit. (vedi n. 54).

[59] Cfr., ad es., abbé Régis de Cacqueray, Pourquoi Mgr Fellay n’a-t-il pas saisi la main que Benoît XVI lui tendait en cette année 2012?, http://laportelatine.org/district/france/bo/lab80_130103/lab80_130103.php

[60] Cfr. de Cacqueray, Paul VI pape héroïque, cit. a n. 52.

[61] Per la revoca della scomunica e il motu proprio Summorum pontificum che dichiara il messale di san Pio V forma straordinaria dell’unico rito romano vedi sopra pp. 29 sgg. e 299 sgg. (NB: il riferimento è alle pagine del mio testo italiano).

[62] Vedi sopra n. 47.

[63] Cfr. Rome-Fraternité Saint-Pie X: Revue de presse (DICI, 20-04-2012), http://www.dici.org/actualites/romefraternite-saint-pie-x-revue-de-presse/

[64] Cfr. Klaus Müller, Il teologo papa, Supplemento a RD, 2013/3, p. 16.

[65] Messe d’ouverture de l’année de la foi. Homélie du pape Benoît XVI (11 octobre 2012), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20121011_anno-fede_fr.html. Vedi anche RD, 2012/19, p. 578 sg, e il commento di G. Brunelli, La fede e la riforma della Chiesa, in RA, 2012/18, p 577.

[66] Ivi.

[67] Rencontre avec les catholiques engagés dans l’Église et la société. Discours du pape Benoît XVI (25 septembre 2011), in

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2011/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20110925_catholics-freiburg_fr.html

[68] Così P. Emonet s.j., La liberté d’un chrétien, in “Choisir”, n. 638, mars 2013, p. 3, Una rassegna delle reazioni pubbliche offre A. Spadaro S.I., La rinuncia di Benedetto XVI. La stampa, la Rete, la gente, in CC, 164 (2013) vol. I, pp. 425-437, mentre un’utile selezione dei migliori articoli di gesuiti apparsi su riviste di tutto il mondo è pubblicata da “Popoli”, aprile 2013, N. 4, pp. 31-49. Una raccolta di giudizi e punti di vista diversi in La scelta di Benedetto. Indagine sulla grande rinuncia, Introduzione di F. de Bortoli, RCS, Milano 2013, pp. 159.

[69] Müller, Il teologo papa cit., p. 18.

[70] Declaratio (11 février 2013), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130211_declaratio_fr.html

[71] Per indiscrezioni in questo senso cfr. R. Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Morcelliana, Brescia 2013, p. 128 sg. Vedi anche M. Franco, Un papa e le ombre in Vaticano, in La scelta di Benedetto cit., pp. 31 sgg.

[72] Così, ad es., il direttore di”Famiglia cristiana” A. Sciortino, in un editoriale peraltro ricco di spunti interessanti: cfr. A. Sciortino, Una scelta profetica, in “I grandi speciali di Famiglia cristiana”, 17 febbraio 2013, p. 5.

[73] J.- C. Enslin, La papauté ramenée sur terre, in  “Esprit”, n° 393, mars-avril 2013, p. 6-8 (la cit. nel testo a p 6).

[74] Cfr. Y. Congar, Titres donnés au Pape, in “Concilium”, 108 (1975), p. 63. Vedi anche gli esempi che ho raccolto in Servizio e potere nella Chiesa. Un tormentato percorso storico, in AA.VV., Servizio e potere nella Chiesa, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (Verona) 2013, pp. 47 sgg.

[75] Cfr. J,-M. R. Tillard, L’évêque de Rome, Cerf, Paris 1982, pp. 15 sgg.

[76] Cfr. Benoît XVI, Rencontre avec le clergé de Rome (14 février 2013), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130214_clero-roma_fr.html. Vedi però il duro commento in chiave anticonciliare apparso su “The Remnant” (Ecco il reale concilio Vaticano II. Signori in piedi, in FSSPX, Distretto Italia, Home - Articoli - Crisi nella Chiesa); e, di segno opposto, con una valorizzazione del discorso in chiave di indicazioni per il futuro papa, M. Introvigne, Grazie, Papa Benedetto XVI. Ti seguiremo, Papa Francesco, in “Cristianità”, N° 367, gennaio-marzo 2013, pp. 1-8 (è l’organo di “Alleanza Cattolica” e ha tra i suoi “testi di riferimento”, come si ribadisce in questo stesso articolo, Rivoluzione e Controrivoluzione di Plinio Corrêa de Oliveira).

[77] R. La Valle, Lo spirito dei media, in “il Manifesto”, 17 febbraio 2013.

[78] V. Messori, Quelle letture politica che sfigura la Chiesa, in CdS, 24 febbraio 2013, p. 8 sg. (la conferenza di Frings avvenne nel 1961 e non a concilio in corso; non risulta sia stata inviata a Giovanni XXIII da Siri, ma consegnatagli dallo stesso Frings, ecc.). Messori riprende in gran parte il suo commento in  La Chiesa di Francesco. La sfida del cristianesimo tra crisi e speranza, RCS, Milano 2013, pp. 98 sgg.

[79] Cfr. Angelo Giuseppe Roncalli/Giovanni XXIII, Pater amabilis. Agende del pontefice 1958-1963, a cura di M. Velati, Istituto per le scienze religiose, Bologna 2007, p. 281.

[80] Una valutazione profondamente diversa della portata del “caso Galileo” offre John McKenzie s.j., L’Evangile et le pouvoir dans l’Église (trad. francese), Paris 1970, pp. 191 sgg. Vedi al riguardo anche il mio Autorità del magistero e “scienze umane”. Brevi riflessioni su una questione dai risvolti molteplici, in La sapienza del cuore. Omaggio a Enzo Bianchi, Einaudi, Torino 2013, pp. 209 sgg.

[81] Sull’atteggiamento di Ratzinger/Benedetto XVI nel concilio e sul concilio ho offerto una breve sintesi in Le pontificat de Jean-Paul II. Un gouvernement contrasté, Lessius, Bruxelles 2012, pp.  387-401.

[82] Cfr., ad es., V. Messori-J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, San Paolo, Milano 1985, p. 28 sgg.; J.Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 88 sgg.

[83] Vedi sopra n.77.

[84] Vedi sopra pp. 58 sgg. (NB: il riferimento è alle pagine del mio testo italiano).

[85] Cfr. Benny Lai, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa, Laterza, Bari 1993, p. 220.

[86] Cfr. L. Laeyendecker, Du cardinal Alfrink au cardinale Simonis, vingt ans de catholicisme hollandais, in Le retour des certitudes. Événements et orthodoxie depuis Vatican II, sous la direction de P. Ladrière et R. Luneau, Le Centurion, Paris 1987, pp. 122-141; e Le pontificat de Jean-Paul II cit., pp. 35 sgg. Sul progressivo maturare in ambito ecclesiale di quest’opera di normalizzazione/accantonamento di aspetti centrali del concilio cfr. D. Menozzi, L’anticoncilio (1966-1984), in G. Alberigo – J.P. Jossua, Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985, pp. 433-464.

[87] Vedi sopra pp. 54 sgg. (NB: il riferimento è alle pagine del mio testo italiano).

[88] Nell’omissione di tale analisi J.W. O’Malley, individua uno dei modi per sminuire l’insegnamento del concilio: cfr. Indicazioni sbagliate. Dieci modi per sminuire l’insegnamento del Concilio, in RA 2013/4, p. 78.

[89] Cfr. Primo saluto del Santo Padre Francesco (mercoledì, 13 marzo 2013), in

http://www.vatican.va/holy_father//francesco/speeches/2013/march/documents/papa-francesco_20130313_benedizione-urbi-et-orbi_it.html. Su questo primo discorso e il nuovo stile di papa Francesco vedi François Euvé s.j., Un nouveau pape, in «Études», mai 2013, pp. 580 sgg. Un intervento illuminante delle attese e delle possibili implicazioni presenti nella sua elezione offre Felice Scalia s.j., Le speranze di un confratello, in “Adista”, 13, 6 aprile 2013, supplemento al n. 6178, pp. 8-9 (ringrazio Piergiorgio Giudici della segnalazione).

[90] Cfr. Udienza ai rappresentanti dei media. Discorso del Santo Padre Francesco (16 marzo 2013), in http://www.vatican.va/holy_father//francesco/speeches/2013/march/documents/papa-francesco_20130316_rappresentanti-media_it.html. Per le diverse implicazioni possibili presenti nel nome prescelto cfr. Bernard Forthomme, De qui François est-il le nom?, in “Études”, mai 2013, pp. 643-52.

[91] Cfr. Chiesa e post concilio: Sandro Magister. L’incantesimo di papa Francesco (http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/04/sandro-magister-lincantesimo-di-papa.html). Per una spiegazione ufficiale delle ragioni per cui le omelie di Santa Marta vengono rese note solo parzialmente vedi la nota di padre Lombardi del 29 maggio 2013 (http://it.radiovaticana.va/storico/2013/05/29/omelie_del_papa_a_santa_marta_nota_di_padre_lombardi_in_risposta_a/it1-696541)

[92] Cfr. Jorge Bergoglio-Abraham Skorka, Il cielo e la terra, a cura di D.F. Rosemberg, La biblioteca di Repubblica-L’Espresso, Roma 2013, pp. 211; Jorge Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, Conversazione con Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, Corriere della Sera, Milano 2013, pp. 190. Una raccolta (piuttosto confusa) delle sue interviste alla rivista “30 giorni” tra il 2002 e il 2009 in G. Valente, Francesco un papa dalla fine del mondo, Emi, Bologna 2013, pp. 63.

[93] Cfr. G.G. Vecchi, “Wojtyla santo a ottobre”, E riparte la causa per Romero, in CdS, 23 aprile 2013, p. 27.

[94] Cfr. Santa Messea con i cardinali. Omelia del Santo Padre Francesco (14 marzo 2013), in http://www.vatican.va/holy_father//francesco/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130314_omelia-cardinali_it.html

[95] Vedi sopra, n. 90, e G.G. Vecchi, «Voglio una Chiesa povera per i poveri». La scelta di chiamarsi Francesco, in CdS, 17 marzo 2013, p. 12.

[96] Cfr. G. Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano II, il Mulino, Bologna 2005, p. 49 sg. Una recentissima messa a punto della vicenda offre M. Mennini, Paul Gauthier e la povertà della Chiesa durante il Vaticano II, in “Cristianesimo nella storia”, 34 (2013)/1, pp. 391-422.

[97] Cfr. G. Gutierrez, La chiesa e i poveri, visti dall’America latina, in Alberigo-Jossua, Il Vaticano II e la Chiesa cit., pp. 231-260; J. Comblin, Medellin et les combats de l’Église en Amérique latine, e F. Malley, Les enjeux de la théologie de la libération, in Le retour des certitudes cit., pp. 34-53, rispettivamente  54-72; L. Ceci, La teologia della liberazione in America latina. L’opera di Gustavo Gutiérrez, Franco Angeli, Milano 1999. Ho cercato di illustrare l’insieme della vicenda in Le pontificat de Jean-Paul II. Un gouvernement contrasté, Lessius, Bruxelles 2012, pp. 35-86.

[98] Cfr. Santa Messa nella parrocchia di Sant-Anna in Vaticano. Omelia del Santo Padre Francesco (17 marzo 2013), in http://www.vatican.va/holy_father//francesco/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130317_omelia-santa-anna_it.html

[99] Santa Messa del crisma. Omelia del Santo Padre Francesco (28 marzo 2013), in

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130328_messa-crismale.html

[100] Cfr. Le contenu de l’intervention du cardinal Bergoglio avant le conclave révélé par le cardinal Ortega, in DICI, n° 273, 12 avril 2013. Merita rilevare che questo invito ad abbandonare ogni autoreferenzialità, a “sortir de soi-même”, suscita i sospetti e le critiche della Fraternità (cfr., ad es., A. Philippe Toulza, Le cardinal Bergoglio désormais François, in “Fideliter”, N° 212, mars-avril 2013, pp. 23 sgg., e in particolare p. 29).

[101] Cfr. Veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali. – Parole del Santo Padre Francesco, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2013/may/documents/papa-francesco_20130518_veglia-pentecoste.html

[102] Cfr. Incontro con i  rappresentanti delle Chiesa  e delle Comunità ecclesiali, e di altre religioni. Discorso del Santo Padre Francesco (20 marzo 2013), in http://www.vatican.va/holy_father//francesco/speeches/2013/march/documents/papa-francesco_20130320_delegati-fraterni_it.html

[103] Cfr. G.G. Vecchi, Il Papa sceglie 8 nomi per cambiare la Chiesa, in CdS, 14 aprile 2013, p.18 sg.

[104] Cfr. Indietro non si torna, Francesco e il Concilio Vaticano II, in http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/concilio-24118/

[105] Cfr. Revue de presse FSSPX: interrogations à propos du cardinal Bergoglio e du pape François (17 mai 2013), http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/mars2013/17_05_2013_cardinal_bergoglio_pape_francois.php

[106] Communiqué (DICI, 11 février 2013),in http://laportelatine.org/maison/communiques/demission_benoit16_130211/demission_benoit16_130211.php

[107] Cfr. Entretien de Mgr Fellay à Nouvelles de France sur les tentatives de rapprochement de la FSSPX avec Rome (15 février 2013), in http://laportelatine.org/publications/entret/2013/fellay_nouvelles_de_france_130215/fellay_130215.php

[108] Cfr. Election du Pape François 1er. Communiqué de la Maison générale de la Fraternité Saint-Pie X, in http://laportelatine.org/maison/communiques/election_francois_1er_130313/election_francois_1er_130313.php

[109] Cfr. C. Bouchacourt, Le cardinal Bergoglio et la Fraternité Saint-Pie X en Argentine (14 mars 2013), in http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/mars2013/14_03_2013_bouchacourt_cardinal_bergoglio.php

[110] Cfr., ad es., Abbé M. Rebourgeon (del priorato di Saint-Maximin di Tolone), Un nouveau pape pour l’Église (St-Pré le 17 mars 2013), in Vatican II-Rome et la FSSPX: sanctions, indults, etc. – dossier XVI, mars 2013: L’après Benoit XVI, l’élection de Pape François.

[111] Cfr. Abbé Régis de Cacqueray, Le pape François, in  «Fideliter», N° 212, mars-avril 2013, p. 1 sg. (anche in http://laportelatine.org/publications/presse/2013/fideliter212/cacqueray_212_pape_francois.php). Questo e altri interventi critici sui primi mesi di papa Francesco sono riportati in Revue de presse FSSPX: interrogations à propos du cardinal Bergoglio e du pape François cit. (vedi sopra n. 105).

[112] Cfr. Abbé Christian Bouchacourt, Élection du pape François – Une nouvelle ère ? (avril 2013), in Vatican II- Rome et la FSSPX: sanctions, indults, etc. – dossier XVI, mars 2013: L’après Benoit XVI, l’élection de Pape François.

[113] Per il Katholischer Katechismus zur  kirchlichen Krise del padre Matthias Gaudron, vedi il mio La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Bari 2011, p. 137 sg.

[114] Sermon de Mgr Tissier de Mallerais pour le pèlerinage de Chartres 2013 (dimanche, 19 mai 2013), in http://laportelatine.org/mediatheque/sermonsecrits/tissier_130519_chartres/tissier_130519_chartres.php