Andrea Grillo - Teologia e diritto intorno ad “Amoris Laetitia”: come superare il “nichilismo canonico”?

Teologia e diritto intorno ad “Amoris Laetitia”:

come superare il “nichilismo canonico”?

di Andrea Grillo

La pubblicazione della Esortazione Apostolica Amoris Laetitia (di seguito anche “AL”), nel marzo del 2016, ha messo in luce un limite obiettivo della nostra tradizione cattolica in ambito di dottrina morale e giuridica sul matrimonio.

Modelli di pensiero antimodernistico, illusioni di controllo istituzionale della realtà, stili canonici statici e pretesa di ridurre la tradizione alla “norma oggettiva”, inerzia di approcci “non-pastorali” e “formali” hanno pesato non solo sulla recezione del documento, ma anche sulla sua preparazione e “gestazione”.

In questa vicenda, che qui vorrei brevemente sottoporre ad esame, emerge una duplice questione, che mi pare meriti grande attenzione e sulla quale concentrerei la seconda e terza parte del mio testo.

Dunque, in primo luogo presento una rapida ricostruzione di una “storia tardo-moderna del matrimonio cattolico”, da cui trarre utili criteri per una interpretazione della vicenda più recente; in secondo luogo delineo le due questioni, che riguardano il modo di intendere la autorità e il ruolo che in essa svolge il magistero.

I) Perché ci manca la “profezia dei canonisti”? Una lunga storia, tra teologia, diritto e pastorale 

Le reazioni alla espressione forte con cui papa Francesco ha risposto con la consueta parresìa ad una domanda sul matrimonio dimostrano molte cose: che la Chiesa cattolica entra in difficoltà quando si toccano i suoi nervi scoperti; che le evidenze dei fenomeni vengono spesso nascoste, edulcorate o negate addirittura da approcci teorici inadeguati e distorti; che una certa “moderazione” – sicuramente utile in molti casi – può anche minare a fondo la nostra capacità di avere rapporto con la realtà. Per questo mi propongo di ricostruire brevemente il “caso”, di coglierne un senso non immediatamente evidente e di trarne alcune conseguenze non secondarie per la complessa recezione di Amoris Laetitia.

a) Una “battuta” del papa in originale e la sua “versione ufficiale”

In molti ambienti ecclesiali ha suscitato sconcerto la versione originale di una risposta di papa Francesco circa i “matrimoni nulli”, che egli ha riferito alla “maggior parte” dei matrimoni, poi correggendo la versione stampata con “una parte”.

Ora, la versione “originale” - pronunciata a braccio - è significativa, mentre quella ufficiale e scritta è priva di alcun significato.

Che “parte” dei matrimoni siano nulli dice una cosa assolutamente ovvia.

La vera notizia è che il papa dica apertamente che “la maggior parte” dei matrimoni sono nulli…

E, se si ascoltano alcuni canonisti, si sente dire anche peggio, ossia che “tutti i matrimoni canonici” potrebbero essere riconosciuti nulli.

Questo dato, a mio avviso, porta alla luce una questione decisiva nella “cultura matrimoniale cattolica” degli ultimi due secoli.

Poiché quella “nullità” che oggi possiamo lamentare in forma tanto diffusa, dipende da una “teoria del matrimonio” che è nata nel contesto dello scontro della Chiesa con il mondo moderno.

Abbiamo fatto con il matrimonio come le compagnie aeree hanno fatto con la cabina di pilotaggio dell’aereo.

Abbiamo blindato il “disegno divino” scritto nel matrimonio, rendendolo autonomo e compiuto, quasi autosufficiente.

Abbiamo chiesto solo una cosa, agli uomini e alle donne: il “consenso originario”.

In questo modo, pensavamo più di 150 anni fa, la pretesa moderna di “avere ragione” del disegno di Dio, e di piegarlo al proprio arbitrio, sarebbe stata ostacolata e combattuta in radice.

Ma questo modello, lungo più di 150 anni, è diventato una sorta di boomerang.

Da un lato, infatti, il “consenso” si è molto complicato, perché il “soggetto” è diventato complesso, condizionato dal contesto sociale, dal suo inconscio, da diverse logiche culturali, da nuove tutele giuridiche, da nuovi linguaggi e da nuove promesse.

Dall’altro, questo sguardo concentrato solo sull’inizio, ha distorto l’attenzione, ha portato ad accuratissime retrospettive, senza riconoscere alle crisi alcuna prospettiva.

Da cattolici, ci siamo specializzati in “retrospettive sulle crisi”.

A causa di un modello difensivo, privo di vera interazione tra divino ed umano, abbiamo perso il rapporto con la realtà umana e divina e alle sue nuove forme di relazione.

Dire che “la maggior parte dei matrimoni sono nulli” significa ammettere che il nostro modo di comprendere ufficialmente il matrimonio non è più all’altezza né della libertà degli uomini, né della grazia di Dio.

Il testo “detto a braccio” dice qualcosa di importante.

Il testo scritto non dice nulla.

b) Un modo distorto di guardare al matrimonio

Ecco allora la questione: la nostra insistenza unilaterale e ossessiva sulla “verifica della validità” dipende da un difetto di approccio teologico, che la canonistica del XX secolo ha disinvoltamente avallato, senza alcuna significativa distanza critica.

Giungendo a produrre quello che non è azzardato chiamare un “nichilismo canonico” sul matrimonio.

Non si tratta, infatti, soltanto di “costatare una nullità”, ma di costruire progressivamente un sistema al cui sguardo “molti matrimoni” (per non dire quasi tutti i matrimoni) possono apparire “nulli”.

Per aver accesso al reale – ossia alle vicende delle storie e delle coscienze dei soggetti – ci siamo sentiti costretti, nello stesso tempo, ad un duplice movimento.

Ad onorare da un lato formalisticamente una “indissolubilità” che “si impone” per autorità, per poi svuotarla, dall’altro, di ogni contenuto mediante la rilevazione accuratissima di numerosi “vizi del consenso”.

Il mutare della società e dei soggetti passa così attraverso la “cruna dell’ago” di un “vizio del consenso”.

Si pensi, ad esempio, alla “violenza”.

In una società tradizionale tutte le “violenze” che i genitori imponevano a figli e figlie, nell’esprimere il loro consenso alle nozze, erano sostanzialmente inapprezzabili e irrilevanti.

Solo una “società dei diritti” ha progressivamente elaborato un concetto di “violenza” (e di libertà) del consenso, che la società tradizionale conosceva solo molto approssimativamente.

Ma – e qui sta il paradosso – la novità della società può essere apprezzata solo nella forma di una “nuova ermeneutica dei capi di nullità”.

E questo non solo è troppo poco, ma opera continuamente una distorsione quasi irrimediabile nella percezione e nella elaborazione della esperienza dei soggetti, della loro storia e della loro coscienza, retrodatando ogni evento, ogni dolore, ogni scacco.

c) Le responsabilità ecclesiali nella tendenza a questo “nichilismo”

Se a questo “nichilismo matrimoniale” la Chiesa cattolica ha dato il suo contributo, lasciandosi mettere nell’angolo dalle proprie normative difensive rispetto al diritto civile, come possiamo oggi tentare di rispondere con responsabilità?

La strategia di papa Francesco è chiaramente quella della “pluralità dei fori”, per usare una espressione del compianto Paolo Prodi.

Se tutte le crisi passano soltanto attraverso il “processo canonico”, la Chiesa perde rapporto con la realtà.

Per recuperare terreno e senso, occorre aprire un “foro alternativo”, che potremmo chiamare “foro pastorale”, in cui non si affrontano le questioni solo “ab ovo”, ma si accetta lo spazio e il tempo della relazione, la storia dei soggetti e la maturazione delle coscienze come regola della esperienza faticosa della comunione.

Per far fronte al “nichilismo canonico” la Chiesa ha scelto, con Amoris Laetitia, di aprire una strategia di “accompagnamento, discernimento e integrazione” che si colloca su un altro piano rispetto al “processo canonico” e che, inevitabilmente, lo circoscrive e lo delimita, sottraendogli definitivamente l’esclusiva di una autorità che era diventata sempre più imbarazzante, per tutti.

Il sonno della “ragione giuridica”, che spesso perdura anche oggi, genera sempre mostri.

d) Il superamento del “modello giuridico” impostosi nel XIX secolo

Ma questo “pluralismo di fori” (idea per la quale non saremo mai abbastanza grati a Paolo Prodi) che viene introdotta con la recezione di AL a livello di prassi pastorale, non è ancora il passaggio decisivo.

Creerà nuove prassi, aprirà nuove speranze, entrerà meglio nelle dinamiche, ma sarà impotente sul piano della “oggettività formale”, che continuerà ad essere definita da un “diritto sostanziale canonico” che appare – anche alla luce della nuova Esortazione – un “sistema inadeguato” di rappresentazione e di gestione del matrimonio.

Questo punto avrà però bisogno di lunga e appassionata gestazione.

Dovrà elaborare una “teoria matrimoniale” che traduca la Parola di Dio in un contesto non più segnato dalla priorità di difendere la Chiesa dal “sopruso moderno”.

Che la Chiesa conservi tutta la competenza su “unione” e “generazione” è stato il progetto del XIX secolo che con AL ha visto iniziare la sua fine.

Quel modello giuridico ha, al suo interno, una lettura della Scrittura, della Tradizione e del rapporto tra la Chiesa e il mondo che non risponde più alla dottrina comune, acquisita dopo il Concilio Vaticano II.

Solo con un profondo mutamento di “traduzione istituzionale” si potrà venire a capo della sfida secolare, che intorno al matrimonio, è stata lanciata alla tradizione ecclesiale, come preziosa occasione di rinnovamento.

e) Le “chances” e le difficoltà di AL

Non vi è dubbio che in questo ambito il primo passo significativo viene mosso da AL.

Che è “inizio di un inizio”, con la non piccola difficoltà di richiedere una “conversione” a pastori e popolo, abituati da almeno un secolo e mezzo all’ “habitus” della esecuzione di normative dall’alto, stile che contrasta profondamente con le nuove richieste di accompagnamento, discernimento e integrazione, con largo spazio lasciato alla discrezione.

Questi tre sostantivi indicano “modi di agire” che non sono affatto scontati e che contrastano profondamente con quella “identità di funzionari” che non pochi presbiteri vivono come profilo primario e che non minor numero di laici pretendono dai loro preti, per aver salvata l’anima senza troppi problemi.

Tra qualche decennio avremo “norme” capaci di formare habitus adeguati.

Oggi dobbiamo creare le condizioni di nuovi habitus che possano tradursi, domani, in norme generali di altra qualità e finezza.

Sarà un cammino lungo e duro, ma sarà l’unico che meriti di essere percorso.

Nella speranza e nella carità.

Perché domani il “nichilismo canonico” non sia più né il nostro spauracchio autogratificante, né la nostra farmacia sottobanco.

II. La paralisi della autorità per la conservazione del potere

Nel dibattito ecclesiale scaturito dalle parole profetiche di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita” e sul “superamento della autoreferenzialità” - e tra le quali deve essere collocata con grande rilievo il testo di Amoris Laetitia - forse non si è ancora chiaramente compreso quanto questa priorità, che giustamente il papa ha enunciato fin dai primi giorni del suo ministero – e che già era chiaramente presente nel suo testo presentato alla Congregazione dei Cardinali in conclave – richieda una profonda revisione dello stile con cui la Chiesa pensa e agisce rispetto al tema del “potere”  e della “autorità”.

Potremmo esprimere la cosa in questo modo: per poter “uscire dalla autoreferenzialità” e diventare davvero “eteroreferenziale” – ossia per non mettere al centro sé, ma l’Altro e l’altro –  la Chiesa deve anzitutto riconoscere di essere investita di una reale ed efficace autorità. In altri termini, essa deve poter confidare nella possibilità di intervenire autorevolmente sulla propria dottrina e disciplina – su ciò che pensa di sé e su ciò che fa di sé -, senza cedere alla tentazione di “impedirsi un ripensamento”, magari in nome della fedeltà alla tradizione. Questa via, che è spesso una scappatoia, resta infatti, anche oggi, molto praticata e non poco seducente. Sembra una virtù quasi eroica, ma spesso si trasforma solo in una forma di retorica e in un alibi.

a) Non riconoscersi  un’autorità: virtù o alibi?

Se la Chiesa pensa che l’unico modo di essere fedele al Vangelo sia continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerà subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo – e dei beni immobili – la sua ossessione.

A questa tentazione Francesco ha voluto rispondere con tre anni di una parola profetica, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:

- che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;

- che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.

b) L’autorità necessaria per uscire dalla autoreferenzialità

Ma questa considerazione trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, di cui vorrei considerare quello che possiamo esprimere come la riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”.  

Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi.

Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”.

È questo uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. 

Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”.

Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dagli anni ’90.

Una serie di documenti, che vanno dal 1994 al 2007, segnano una sorta di “basso continuo” nel quale, mediante questa autolimitazione della autorità ecclesiale, si è lasciata in vigore la comprensione e la pratica precedente come “unica autorità possibile”.

Questo, infatti, è il limite di tale “luogo comune” dell’esercizio del Magistero.

Il Magistero, in tutti i casi che ora brevemente esamineremo, nell’affermare di “non avere l’autorità”, non si spoglia della autorità, ma conferma la autorità nella sua formulazione precedente e classica.

Ed è proprio qui che la “autolimitazione” – anche contro le intenzioni – rischia di avere come esito la “autoreferenzialità”, e che la “resistenza” autoreferenziale del potere ecclesiastico si dia la forma accattivante di una rinuncia al potere.

c) Quattro casi esemplari di “resistenza” all’esercizio della autorità

In alcuni documenti, che hanno caratterizzato gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e il papato di Benedetto XVI, troviamo la emergenza forte, e direi univoca, di una possibilità di “autolimitazione” del magistero, che la storia ha sempre conosciuto, ma che raramente ha assunto con tanta coerenza e con continuità tanto forte.

Può forse sorprendere che questa inclinazione appaia tanto forte proprio a partire dagli anni 90.

In realtà essa deriva da una sorta di “paralisi” che è nata dopo la grande fase “conciliare”, che invece fu caratterizzata da un nuovo slancio di “magistero positivo”, nella quale il magistero non solo rivendicava una “autorità” in ogni campo della esperienza di fede, ma la esercitava con ricchezza e creatività.

A partire dagli anni 90, su una serie di questioni rilevanti, si è scelto di piegare verso una “autolimitazione della autorità”. Vediamo i casi più significativi:

c1) nel 1994 Ordinatio sacerdotalis, sul tema della “ordinazione delle donne al sacerdozio”, inaugura con forza questo stile, dichiarando che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”. Con una dichiarazione di “non autorità” si vuole chiudere la questione, pur non escludendo che “altre ordinazioni” siano percorribili. La negazione della autorità determina la conferma della forma classica del potere ecclesiale;

c2) nel 2001 Liturgiam authenticam, la V Istruzione della Congregazione per il culto divino per la attuazione della Riforma Liturgica, nega ogni autorità della cultura ecclesiale “in lingua vernacola”, attribuendo autorità soltanto al “testo latino”, e dunque solo al passato. Anche in questo caso, alla complessa mediazione tra cultura moderna e cultura premoderna si sostituisce la semplice autorità della seconda sulla prima;

c3) nel 2005 la Nota della Congregazione per la Dottrina della fede sul ministro della unzione degli infermi, nel dichiarare che soltanto i sacerdoti (Vescovi e presbiteri) sono ministri della Unzione degli infermi), nega ogni autorità alla Chiesa di poter considerare non solo la evoluzione della definizione del sacramento (da estrema unzione a unzione dei malati) ma anche quella del ministero (con la rinascita di un “diaconato permanente”). Alla Nota si accompagna un “commento” che offre una spiegazione della Nota poco convincente, alimentata solo da una lettura della storia con gli occhiali del diritto canonico e del catechismo;

c4) nel 2007 il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, con cui si crea un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spoglia della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettono in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare. Anche in questo caso il Magistero “si autolimita” poiché non avrebbe la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare.

Come è evidente, tutte queste decisioni, sia pure nella loro diversità di contesti e di intenti, fanno ricorso ad un luogo comune secolare del magistero.

Hanno tutti in comune una sottile dialettica tra “perdita di potere” e “assunzione di potere”: nel momento in cui il magistero dice di “non avere autorità”, lascia nella autorevolezza lo status quo.

Esso tende ad identificare ciò che è con ciò che può e deve essere.

E pertanto blocca il dibattito sul ruolo ministeriale delle donne, sulle forme della inculturazione liturgica, sulla articolazione dei ministeri nella pastorale sanitaria e sul cammino organico della riforma liturgica.

Non è difficile notare come questo “non riconoscimento di autorità” si identifichi con una conservazione del potere acquisito. Spesso diventando principio e alimento di una rischiosa inclinazione alla autoreferenzialità.

d) Francesco: riconoscimento e ripresa della autorità per via collegiale

Dopo questo lungo percorso, il “ritorno al Concilio” di papa Francesco appare segnato dalla esigenza di ridare autorità all’azione ecclesiale. Solo così essa potrà uscire dalla tentazione della autoreferenzialità. Ma per farlo deve assumere un approccio alla tradizione diverso. La Chiesa non si riconosce come una “storia chiusa”, come un “museo di verità da custodire”, ma come un “giardino da coltivare”. 

Per questo sarebbe molto utile rileggere il pontificato di Francesco, a quasi quattro anni dal suo inizio, non come una forma incerta e “soft” di ministero pastorale, ma come un ripensamento “hard” della forma con cui la Chiesa non rinuncia ad esercitare la autorità. Francesco assume la esigenza di esercizio della autorità che i suoi predecessori avevano come sospeso, determinando sempre delle “paralisi”. Di fatto in ognuno dei campi che abbiamo considerato si è giunti ad una “impasse”: ministeri femminili, rapporto con le culture, pastorale sanitaria e cammino della riforma liturgica sono tutti campi della tradizione in cui abbiamo sperimentato un “perdita di rilevanza” in nome della conferma di una “autorità autoreferenziale”.

Per uscire da questo modello “introverso” di autorità, Francesco ha messo in campo uno stile e un linguaggio, ma anche un procedimento e una consultazione che trasformano l’esercizio della autorità. 

Ciò comporta una serie di avvertenze, che possiamo illustrare con due casi esemplari.

In tutti questi due esempi, la logica della “tentazione autoreferenziale” continua ad usare il linguaggio del “non possumus”, mentre la logica della “misericordia” scopre strade nuove e possibilità inaudite:

d1) la lavanda dei piedi e le donne.

Un semplice gesto profetico, ripreso dalla più autentica tradizione evangelica giovannea, ma liberato dalla gabbia delle rubriche, ha rimesso al centro dei riti della settimana santa una “vocazione universale” che altrimenti sarebbe risultata come soffocata, attutita, quasi oscurata dalla “obbedienza” al regolamento cerimoniale.

La resistenza del “non possumus” e la ripresa di autorità del gesto si sono manifestati come una possibilità di uscita dalla autoreferenzialità.

Ora anche alle donne si possono lavare i piedi.

Anche se poi, nella esistenza cristiana, sarà molto più facile che siano le donne a lavare i piedi dei preti piuttosto che i preti a lavare quelli delle donne…

d2) la Chiesa e le famiglie dei divorziati risposati. Anche sul tema della “comunione” dei fratelli che vivono in seconde nozze, l’argomento del “non possumus” viene usato indiscriminatamente per alimentare la ipocrisia della competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici o la apologetica antidivorzista.

Senza considerare l’effetto di distorsione che un “divorzio tramite nullità” determina nel sentire comune e nella autocoscienza dei battezzati.

Prendere la via della “maggiore misericordia” significa, per Francesco, inaugurare le strade pastorali di riconciliazione dei soggetti e dare credito a nuove forme di “vita comune”, nelle quali si realizza non solo la esperienza degli uomini, ma anche la vocazione del Vangelo. Non si tratta di “dare la comunione ai divorziati risposati”, ma di riconoscere che “battezzati in seconde nozze” diventano soggetti di comunione e testimoni di grazia. La autorità ecclesiale passa dalla prospettiva “legale” alla prospettiva “testimoniale”.

e) Fratellanza, per la libertà e la eguaglianza

In conclusione, papa Francesco, e la Chiesa che cammina con lui, ha compreso – non senza fatica e non senza la preoccupazione di farlo capire a tutti gli altri – che il “non possumus”, ossia la dichiarazione di “impotenza” del Magistero, manifesta spesso, oltre che il giusto scrupolo nella mediazione della tradizione, una cieca “volontà di potenza”, una “autoaffermazione” che cancella l’altro e lo annulla. Levarsi i calzari di fronte alla terra sacra dell’altro significa non poter rinunciare all’esercizio della autorità: sentire il dovere di provvedere adeguatamente.

E lo sguardo rivolto al Crocifisso e alla sua Pasqua non diventa l’alibi per la inerzia o la fonte di parole consolatorie, ma il fondamento di una conversione, di uno stile nuovo e di una nuova e promettente prossimità. In una “fraternità mistica” riscopriamo il cuore del vangelo. 

Nel mondo che è nato dagli ideali di “libertà, uguaglianza e fraternità” sappiamo che possiamo pretendere dalla legge libertà ed eguaglianza. Ma la fraternità possiamo solo lasciarcela donare dalla benevolenza altrui.

Una Chiesa che torna a fare questa esperienza, e che la comunica a tutti, saprà di dover contare sulla profezia della fratellanza, per promuovere la giusta esperienza di libertà e di uguaglianza. E ogni volta che dirà “non possumus” lascerà che lo “status quo” determini forme di illibertà, di diseguaglianza e di indifferenza. 

A questa pericolosa autoreferenzialità si oppone con decisione ogni gesto e ogni parola della visione pastorale di questo papato, che chiede a forme nuove di collegialità e di comunione di trasformare questo stile e questo linguaggio personale in patrimonio comune, nel solco del grande ripensamento della autorità promosso dal Concilio Vaticano II.

III.  Quale “procedura di Magistero” dopo i due sinodi 2014-2015?

Una delle questioni più appassionanti, che è emersa chiaramente dal dibattito sinodale tra il 2014 e il 2015, alla luce di quanto abbiamo osservato fin qui, potrebbe essere formulata in questi termini: come è possibile che il Magistero ecclesiale possa restare tanto “sordo” e “immobile” di fronte alle esigenze della realtà familiare che cambia, arroccandosi in modo così “autoreferenziale” sulle impostazioni di una dottrina e di una disciplina rigida e inadeguata non solo rispetto all'uomo, ma anzitutto nei confronti del Vangelo?

O, per formulare la cosa in altri termini, come può essere tanto grande la divaricazione tra dottrina ufficiale, sensus fidei e consensus fidelium?

a) Due sviluppi ecclesiali del XX secolo

Per rispondere a questa domanda dobbiamo individuare in due sviluppi ecclesiali del XX secolo le radici remote e prossime della nostra peculiare condizione, che forse non ha eguali nella storia della Chiesa.

a1) Da un lato, esattamente 100 anni fa, nel 1917, entrava in vigore per la prima volta nella storia della Chiesa un Codice di Diritto Canonico.

Con la introduzione di questo “strumento”, fortemente voluto da papa Pio X e poi portato ad effetto da Benedetto XV, l’approccio alle questioni giuridiche mutava di orizzonte.

Entrava nella esperienza ecclesiale non solo l’idea di un “corpus unitario”, contenente tutta la legislazione fondamentale della Chiesa, ma veniva introdotta anche la esperienza di una “legge universale e astratta”, che non lasciava lacune o buchi: ogni questione veniva integralmente prevista, anticipata e risolta.

Lo spazio della “discrezione” (e della “economia”), pur non essendo del tutto superato, veniva fortemente ridotto e limitato. A questa “idea moderna” dobbiamo sia la sparizione del criterio del “male minore” come soluzione delle questioni controverse, sia la “blindatura” del sistema con il (nuovo) principio di “completezza del sistema giuridico”.

Le procedure giuridiche venivano profondamente trasformate da questo nuovo principio.

a2) Qualche decennio più tardi, con diverso intento, il Concilio Vaticano II introduceva un nuovo paradigma magisteriale.

Di esso importa qui sottolineare non tanto la originalità dello stile o la profondità delle riscoperte, ma soprattutto la totalità profetica della competenza.

Per la prima volta nella storia della Chiesa, il Magistero assumeva, in positivo, una competenza diretta su ogni sfera della esistenza del soggetto credente.

L’esercizio del magistero, che almeno fino al Vaticano I era consistito quasi solo in una duplice forma di linguaggio – quello del canone di condanna e quello della definizione dogmatica – ora assumeva il compito di dire, in positivo, la esperienza della fede e la struttura della Chiesa, l’ascolto della parola e la celebrazione del culto, il lavoro dell’uomo e il suo tempo libero, i mass media e la formazione dei presbiteri, la libertà religiosa e la missione...

Nulla restava esterno al Magistero.

Questa era, allora, una totalità positiva, assunta profeticamente; ma costituiva anche un precedente non privo di inside: estendendo le competenze magisteriali a tutta la realtà, tale scelta avrebbe potuto essere usata, in futuro, come  una formidabile autodifesa contro la realtà.

Inventata per “riaprire le finestre” e far entrare aria fresca, avrebbe potuto essere usata, un domani, per “sprangare le porte” e vivere solo di aria condizionata e stantìa.

b) Dal Sinodo alla recezione di Amoris Laetitia

Se in questi ultimi anni il Sinodo dei Vescovi, pur rilanciato con slancio conciliare da papa Francesco, ha trovato molte difficoltà a “riconoscere” una realtà ad esso “esterna” - la vita irriducibile delle famiglie, la loro diversità, le loro gioie e le loro sofferenze – ciò è dovuto alla combinazione inattesa di una “totale blindatura del sistema giuridico” - anche se pensato da Pio X come modernizzazione della Chiesa – che si è unita alla estensione del Magistero ad ogni aspetto della vita del cristiano, che da segno di profezia e di ascolto diventa indizio di diffidenza e di sospetto.

Se dai lavori sinodali si sono sollevate questioni che riguardano la autonomia della vita familiare, il riconoscimento del bene delle seconde unioni, la pluralità delle forme con cui trova origine la vita, ecc., davanti a tutto ciò è legittimo che si ponga una questione di fondo: è possibile che un “apparato” che ha nel Codice uno strumento onnicomprensivo e nel Magistero un principio di autorità coestensivo alla esistenza possa “riconoscere” altro che se stesso? Potrà mai liberarsi davvero della  autoreferenzialità una Chiesa che si rifugi, continuamente, nella legge blindata dal codice e nella autorità garantita dalla estensione del Magistero conciliare?

Alla luce di questa domanda, di peso specifico non trascurabile, potrebbe essere una buona cosa comprendere ciò che è vivo e ciò che è morto – come si diceva un tempo – di queste due grandi esperienze della tradizione ecclesiale. Da questa domanda dipende, in buona parte, il senso che riusciremo ad attribuire ad una “cura per le procedure” nella pastorale di domani. Ce lo chiediamo limitando la nostra analisi alle questioni sollevate dagli ultimi due Sinodi 2014-2015, intorno al tema del matrimonio/famiglia:

b1) Anzitutto, per salvaguardare la preziosa tradizione giuridica latina, occorrerà metter mano ad una delicata riforma del codice – riforma non solo procedurale, ma sostanziale -  che possa sincronizzare la comprensione del matrimonio canonico ad una forma ecclesiale e ad una forma civile che abbiano acquisito il principio di “libertà di coscienza” non solo “prima” e “nel” consenso, ma anche “dopo” di esso.

La “storia del vincolo” deve essere integrata in un sistema giuridico canonico – e in un pensiero sacramentale e teologico - che oggi non riesce a riconoscerla e che, per questo, è costretto a infinite finzioni, ipocrisie, giochi di prestigio, salti mortali, non solo per conseguire la salvezza delle anime, ma non raramente per salvare anzitutto se stesso.

Vi è qui una “procedura giuridica” che, monopolizzando il campo e condizionando strutturalmente la pastorale e la teologia, impedisce il rapporto con il reale.

b2)  Per salvaguardare, invece, il prezioso avanzamento che il Vaticano II ha consentito alla tradizione ecclesiale, occorre restituire al Magistero i suoi “limiti naturali”. Potremmo dire, quasi come un paradosso, che  la fedeltà al Vaticano II potrà essere garantita solo da un Magistero che sappia “ascoltare” e “riconoscere” che il “sensus fidei” e il “consensus fidelium” rimane - in una percentuale assai consistente - esteriore al servizio magisteriale.

Solo un Magistero che non identifichi la Chiesa con se stesso è veramente al servizio del Vangelo e permane fedele al Vaticano II.

Solo un tale Magistero potrà dare ascolto con curiosità e interesse alle questioni nuove, inventare soluzioni veramente spirituali, accendere di speranza i cuori dei fedeli, ossia non perdere la tradizione nell'unico modo con cui le si resta fedeli: restando capaci di fare cose nuove.

Ma, anche qui, sono le “procedure” a diventare mediazioni delicatissime, perché questa “esteriorità” sia riconosciuta e ascoltata.

c) Procedura istituzionale ed esercizio della autorità

Forse la insistenza sulla “chiesa in uscita” e sul superamento della “autoreferenzialità” - che risuona con tanta forza e fin dal principio nelle parole di papa Francesco – ha proprio qui la sua vera origine.

Francesco sa bene che tutti i temi “conciliari” - e in primis il tema della “communio” - non sono compatibili con  una Chiesa che non abbia un altro “fuori di sé”, e che abbia perduto la strada per uscire da sé e che non abbia una “esteriorità” da riconoscere.

Per questo le provocazioni del linguaggio - “chiesa in uscita”, “ospedale da campo”, “campo profughi” - mettono in rilievo questa “condizione procedurale” per poter attingere la communio nella esperienza ecclesiale. 

Solo il rapporto strutturale con una “esteriorità” significativa, con una rilevanza dell’altro da riconoscere come non accessoria, determina l’orizzonte di quella comunione che, proceduralmente, possiamo attingere nella uscita da sé e nel levare i calzari di fronte alla sacralità di un “altro” come luogo di rivelazione.

Questa pratica di attenzione alla esteriorità del bene -  che potremmo chiamare come una sorta di “ur-procedura” [“ur”, in tedesco, come prefisso rafforzativo che indica schiettezza e origine primigenia] consistente nell’uscire da sé, salvaguardando accuratamente già nello “sguardo”, un “fuori” e un “extra nos” - è oggi il fondamento di un accesso corretto alla “communio” come verità della Chiesa di Cristo: per questo motivo, edificare la comunione e prendersi cura delle procedure sono compiti e doni cooriginari, aperti su una esperienza ecclesiale che intende restare autenticamente fedele alla tradizione. 

Un diritto canonico che sappia riconoscere soltanto “nullità del vincolo” introduce nella esperienza ecclesiale e civile un “nichilismo canonico” estremamente pericoloso. Per ovviare a questa “distorsione del sistema canonico” occorre intervenire contemporaneamente su tre fronti:

Vi è dunque oggi, nella Chiesa, una grande domanda di “profezia giuridica”, messa a nudo soprattutto dalle vicende riguardanti il tema del matrimonio.

Sembra una contraddizione in termini, ma forse proprio qui c’è uno dei lati più deboli della nostra cultura ecclesiale: il fatto che la profezia non si occupi di normative istituzionali e che la giurisprudenza abbia smarrito ogni interesse per la profezia.

Una riforma della Chiesa passa necessariamente per una profonda ed accurata riconciliazione di questi due fronti.