Nelle pieghe del vivere

di

Andrea Bigalli

(Parroco e giornalista pubblicista)

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Lo spazio del divino è per definizione uno spazio vuoto, inabitabile per l’umano; proprio perché rappresenta la possibilità della totalità, nessuno può pretendere di abitarlo, se non questa stessa totalità.

Il Dio che crea l’esistente non può tollerare assenze nel con\venire a sé, se non motivate dalla stessa volontà delle creature.

I grandi racconti evangelici del banchetto del re narrano con chiarezza questo desiderio di una assemblea plenaria, da cui ci si sottrae per propria responsabilità, mai per determinazione avversa da parte del Padre.

Se Dio è per tutti, non può essere solo di qualcuno, a scapito di questa collettività.

Nessuno può pretendere di imprigionare il divino, non gli si può fare una casa che non sia segnata da assoluta precarietà, come una tenda, perché non ci sia alcuno che pretenda di poter affermare di averlo rinchiuso in un recinto.

La Presenza di Dio è l’espressione della più assoluta libertà; non è garantita per diritto di popolo o identità religiosa, se nei fatti se ne rifiuta la realtà, essa si trasferisce altrove, come racconta il profeta Ezechiele in un testo bellissimo del libro a suo nome.

E del resto il grande tema anticotestamentario dell’impossibilità di vedere Dio, conseguenza il morire, diviene il divieto di imprigionarlo in una visione, nel possesso attraverso l’immagine e l’atto stesso del com\prenderlo con gli occhi.

Il Dio indicibile è espresso da una Parola che solo Dio stesso può darti; questa intangibilità divina è data non per la condanna creaturale, condanna ad essere circoscritti nel proprio limite, ma a tutela della reciproca libertà di incontrarsi nella rispettiva condizione. Hai il nome per dire Dio ma non puoi adoprarlo, non puoi pronunciarlo nella Parola: devi rispettarne l’identità come Ella\Egli rispetta la tua, devi fermarti sul limite invalicabile dell’uso di tale nome, non puoi eludere la sacralità adoperando a tuo vantaggio.

Fin qui la metafisica e a seguire Scrittura, e in particolare il Vangelo.

Ma ciò, come si traduce nella nostra ardua contemporaneità?

La mia è una riflessione di ordine pastorale, tesa a pensare questo tema nell’ordinarietà della vita ed una vita comune, non contraddistinta da particolari strumenti di cultura.

Una vita che chiede di essere illuminata dalla Sapienza biblica, che supera la conoscenza umana ma è donata a chiunque ne faccia richiesta: il sapere prezioso che scaturisce dall’incrociarsi del divino e dell’umano nelle pieghe del vivere, sovente non riconosciuta, quasi sottotraccia rispetto alla razionalità o alla massa di informazioni che ci troviamo a filtrare e recepire. Eppure espressa chiaramente nel senso comune più prezioso, quello che ti conduce a vivere portando vantaggio agli altri e a te stesso: temere Dio nei libri sapienziali – ed in particolare nel Libro di Qohelet – è tener conto con intelligenza della realtà di ciò che trascende l’umano, che pure è in relazione autentica e vitale con gli esseri umani stessi, le loro esistenze nell’intreccio tra spazio e tempo.

La trascendenza che impedisce il controllo e l’acquisizione strumentale del divino si articola nella condanna dell’idolatria e del fondamentalismo.

Nel dialetto siciliano c’è un bellissimo modo di dire; essere legati ad una persona si esprime in “io appartengo a …”, indicando nome e condizione di chi si sa detenere le fila di noi stessi. Si appartiene a chi ci ama e a coloro che amiamo, in piena libertà, senza che questo comporti il vincolo obbligato della obbligatorietà o lo scambio mercantile che uccide il sentimento.

Ma la stessa espressione, sempre in siciliano, può divenire quel “lo sai a chi appartengo?” che indica il rapporto con il boss, di sudditanza ma anche, a propria volta, di un potere che si può esercitare su altri perché lo si accetta su di sé, nel sapersi di altri, la libertà venduta, la dignità esautorata.

Ognuno deve imparare l’arte esigente del non vendersi e del legarsi in libertà per non appartenere a nessuno sapendo servire tutti. Servi per amore, padroni di nessuno, schiavi mai.

Soprattutto ai giovani, urgente donare gli elementi per questa cultura che sappia riconoscere le catene ma educhi i vincoli e li faccia evolvere in agape.

Quanto poi al fondamentalismo…, il nome divino a cui ognuno può dare il nome che ha conosciuto, nella bellezza di conoscere quelli che ancora deve scoprire, è un nome che rifiuta il vincolo dell’attribuzione e della violenza.

Dio lo si può vivere solo nella vertigine della passione folle che è così preda dell’oggetto dell’amore che si perde nell’identità altrui, e mentre si perde, si definisce.

Chi mortifica Dio nel possesso si condanna a smarrire l’ulteriore della mistica, smarrisce la via dell’altrove che sappiamo non è un luogo ma l’eterna relazione tra Risorti.