Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù

di

Giovanni Minnucci

(Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno presso l’Università di Siena)

[*]

 

Nell’ormai lontano 1982 mi trovavo negli Stati Uniti, presso l’Institute of Medieval Canon Law della University of California – Berkeley - diretto dal compianto Stephan Kuttner. In quella prestigiosa Istituzione ebbi la possibilità di avviare una ricerca di natura eminentemente storico-giuridica: studi che avrei completato nello spazio di alcuni anni e che avevano ad oggetto la condizione giuridica della donna nella canonistica classica, con particolare riferimento al suo status processuale.

Dopo le indagini del Metz e del Lefebvre, infatti, che si erano soffermati, più in particolare, sul Decreto di Graziano, nessuno aveva ancora avviato un’indagine che, attraverso l’esame sistematico della letteratura giuridica, per la grandissima parte manoscritta, tentasse di illustrare come e se si fosse evoluta, grazie all’opera degli interpreti, la condizione processuale femminile. Né l’argomento era stato fatto oggetto d’esame alla luce della dottrina civilistica che si era sviluppata, nell’età di mezzo, sulla base dei monumentali Libri legales.

Sia il Decreto di Graziano o Concordia discordantium canonum – un vero e proprio monumento, testimone di un plurisecolare lascito di sapienza giuridica, scritturale e patristica - che aveva visto la luce intorno alla prima metà del XII secolo, sia le Decretali di Gregorio IX o Liber Extra, promulgate nel 1234, conservavano espressioni fortemente riduttive e comunque negative in relazione al genere femminile.

Nel Decreto, ad esempio, si trovano testi che possono essere così riassunti:  Mulier non est imago Dei (C. 33 q. 5. c. 13, 19); arbitrium viri mulierem sequi oportet (C. 33 q. 5 c.16); propter originale peccatum mulier debet subiecta videri (C. 33 q. 5. 19); mulier docere non potest (C. 33 q. 5 c. 17 e 19); Mulier debet uelare caput (C. 33 q. 5. c.19); ad essi occorre aggiungere il dettato del c. 17 della C. 33 q. 5, dove viene sostanzialmente riprodotto un passo delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti che costituisce una vera e propria summa delle limitazioni previste per il foemineus sexus: Mulier constat subiectam dominio uiri esse, et nullam auctoritatem habere; nec docere potest, nec testis esse, neque fidem dare, nec iudicare.

Nel Liber Extra di Gregorio IX, inoltre, sotto il titolo De verborum significatione, si rinviene l’espressione Nam varium et mutabile testimonium semper foemina producit: testo che, proveniente dall’Eneide di Virgilio (IV, 569), era rifluito nelle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (XVIII.XV.9), per riemergere, in pieno XII secolo, nella Summa Quoniam status ecclesiarum: un’opera della dottrina canonistica d’Oltralpe.

Non erano da meno le fonti della civilistica. Nel Corpus iuris civilis giustinianeo, riemerso dalle nebbie dell’alto Medio Evo, e testo giuridico di riferimento per la dottrina, non pochi erano i passi, i testi normativi che disegnavano una condizione giuridica della donna fortemente diversa rispetto a quella dell’uomo. Basterà qui ricordare il frammento del Digesto (Dig. 50.17.2) che così recita: “Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo ec iudices esse possunt, nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores existere”.

Se, infine, si volesse far riferimento alla dottrina in un’epoca più recente non si potrebbe ignorare, ad esempio, il Tractatus  quaestionis ventilatae coram D. Iesu Christo. Inter Virginem Mariam ex una parte, et diabolum ex alia parte, attribuito a Bartolo da Sassoferrato. In esso il giurista immagina lo svolgimento di un processo civile, avviato dall’azione del diavolo che – testimoni Maometto e Cerbero – chiede la restituzione del genere umano: un’umanità che affida la sua difesa, di fronte a Cristo Giudice, alla Vergine Maria, la cui capacità di assumere il ruolo di avvocato e difensore, in quanto donna, viene eccepita e contrastata da Satana – indubbiamente un “romanista di prima forza” - il quale sostiene il suo punto di vista proprio sulla base del frammento del Digesto sopra ricordato e di altre fonti tratte dalla compilazione giustinianea.

Non vi narro, perché mi allontanerei dal tema che ho deciso di affrontare, quali furono le conclusioni delle mie indagini. Basterà solo dire che i giuristi riusciranno, malgrado la perentorietà di alcuni divieti, a ridurre il discrimen esistente nei confronti del foemineus sexus, pur non raggiungendo mai, com’è noto, l’eliminazione di quelle che a noi contemporanei apparirebbero delle gravissime discriminazioni: alle donne, ad esempio, non sarà consentito l’esercizio della professione forense, solo alcune di esse, in ragione dell’ufficio ricoperto (si pensi alle regine o alle titolari di un feudo), potranno esercitare la funzione giudicante, ad esse si riconoscerà l’esercizio dell’azione penale solo nel caso in cui siano vittima di reato.

Se questa era la condizione processuale femminile, tutta derivante da una plurisecolare concezione riduttiva del foemineus sexus; se alle donne venivano negati – salvo rarissime eccezioni derivanti dal loro status personale – ruoli pubblici o di pubblica valenza; se ad esse poteva applicarsi il noto passo paolino della I ai Corinzi (Mulieres in ecclesia taceant; 1 Cor. 14,34), com’era possibile che Caterina da Siena, una donna appunto, fosse riuscita ad avere un ruolo così significativo, spesso dirompente, nella vita della Chiesa del Trecento? È a questa domanda, che più volte mi sono posto, che cercherò di dare una risposta.

I due corpora iuris, oggetto di interpretazione, spesso innovativa, da parte dei giuristi, così come le norme statutarie che in quell’epoca conosceranno una particolare fioritura, costituivano in qualche misura lo specchio della vita quotidiana: un vita, quella delle donne, che non era, sotto il profilo dei diritti, minimamente paragonabile a quella degli uomini perché indubbiamente considerate, sotto molti aspetti, ad essi inferiori.

Malgrado i divieti e le limitazioni Caterina è una donna che non tace, che non teme di prendere la parola: una parole forte e chiara; che non teme di “insegnare” soprattutto agli uomini di “potere”, sia esso ecclesiastico o laico, in un’epoca che è fortemente segnata da grandi cambiamenti.

Caterina, infatti, è la donna che vede decomporsi il Comune italiano, l’Istituzione che, forse più di ogni altra, con la sua laboriosità, con la sua voglia di crescere e di svilupparsi, aveva caratterizzato sino ad allora la rinascita della Penisola. Ma Caterina vede soprattutto frantumarsi quell’unità che aveva caratterizzato i due secoli precedenti. Un’unità che si era sostanziata nell’esistenza di un ordo giuridico-politico universale nel quale la discretio fra lo spirituale e il temporale, frutto del pensiero cristiano, aveva per suo fine ut simul regale genus et sacerdotale subsistant, e che faceva riferimento alle affermazioni di principio, formulate dai Pontefici di inizio XIII secolo che possono essere racchiuse nella professione di fede formulata da Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV: “Una est Ecclesia: extra Ecclesiam nulla salus”, e nella bolla di indizione del primo Giubileo (1300) da parte di Bonifacio VIII: la Antiquorum habet fida relatio.

Il papato, nell’epoca di Caterina, è profondamente mutato. Non è più quello di un Innocenzo III, di un Gregorio IX, o di un Bonifacio VIII, forse l’ultimo Papa medioevale, quel Papa che aveva fortemente dibattuto con Filippo il Bello. Ne è un esempio il destino della Unam sanctam, ignorata dai successori (talché la ritroviamo solo nelle Extravagantes communes I.VIII.1 di un secolo e mezzo successive), spesso ritenuta il manifesto della ierocrazia pontificia per il contenuto della sua parte conclusiva, dimenticando, talvolta, di sottolineare i continui richiami all’unità e alla universalità della Chiesa contenuti nella sua prima parte tanto da caratterizzarlo come un testo ecclesiologico-dogmatico. Il papato, ormai, si è trasferito ad Avignone, ed i Papi fanno fatica a mantenere una propria indipendenza dal Re di Francia.

L’Impero, non è da meno. Dopo la morte di Enrico VII a Buonconvento, Lodovico il Bavaro nel 1338 si fa incoronare da un Colonna (l’antica famiglia avversa ai Caietani): non c’è più bisogno della conferma papale; nel 1356 Carlo IV emana la Bolla d’oro: la procedura di elezione viene assegnata a 7 principi tedeschi (4 laici e 3 ecclesiastici). L’Impero si sgancia dall’autorità pontificia.

Caterina vede innanzitutto il decomporsi della Chiesa, ma vede anche il sostanziale decomporsi di un’epoca. È solo una terziaria domenicana, non è propriamente una religiosa, gira per il mondo scandalosamente circondata da uomini devotissimi. Ebbene Caterina fa la predica al Papa, lo apostrofa in nome di Dio, lo supplica a ben fare, lo minaccia persino se non metterà in atto la linea politica che lei gli suggerisce: “Lettera 255 ...Io se fussi in voi temerei che ‘l divino  giudicio non venisse sopra di me..  Fate si ch’io non mi richiami a Cristo crocifisso di voi...” (fate in modo che io non debba lamentarmi di voi presso Dio).

Espressioni dure? Troppo franche? Espressioni di un’audacia unica. Ma qual è il significato di questo linguaggio così forte? “Non è – come ha sostenuto Claudio Leonardi - quello di un’esaltata, e non è, nel Medioevo, un linguaggio singolare. Possiamo anzi dire che questo è il linguaggio abituale della Chiesa medievale, specialmente del tardo Medioevo. Il Medioevo vive infatti in un clima a suo modo biblico, in cui il profeta ha ancora un senso: come altrimenti intendere Ildegarda e Gioacchino, Bernardo e lo stesso Dante? La vita della Chiesa è misurata sulla parola divina che la Bibbia rivela, non è misurata sul potere del Papa o dei vescovi o del concilio. La ‘parola’ divina non è una realtà il cui possesso e il cui uso sia riservato a un potere, questa ‘parola’ è pubblica, e ognuno può appropriarsela”.

Caterina è quindi una profetessa del suo tempo. La dottrina di Caterina è la dottrina della sua epoca, vissuta in una fitta trama di rapporti intellettuali e spirtuali, di relazioni personali, di suggestioni dotte. Quel che sta a cuore a Caterina è quel che sta a cuore al popolo cristiano: l’unità della Chiesa universale intorno al Papa. Un Papa che torni ad essere romano, non per ragioni di governo, ma perché Roma è custode delle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, e perchè solo nella Roma così intesa, può prendere avvio un programma pastorale e spirituale di profonda riforma.

Non potrei trovare parole migliori di quelle che l’amico e collega Diego Quaglioni pronunciò ormai tredici anni or sono in una indimenticata Lectura Catharinae senese, per descrivere, nelle sue relazioni col Romano Pontefice, il programma cateriniano:  “... Il Papa cui Caterina rivolge la sua predica, il Papa cui ella chiede, anzi impone di far uso della plenitudo potestatis è il Papa al crocevia tra due mondi e davanti alla sua responsabilità immensa davanti al solo potere che lo sovrasti...”.  La sua “non è un’ecclesiologia alternativa... ma un’ecclesiologia della reformatio, nel senso preciso della restaurazione di una forma originaria, che non può che essere quella dell’ecclesiologia due-trecentesca”: la Chiesa una ed universale.

Ed è proprio qui la risposta alla domanda che ci eravamo posti: una donna, pienamente calata nella sua contemporaneità, ha potuto esprimersi con forza e vigore per la sua totale adesione a Cristo, usando un linguaggio che, proprio per essere fondato sulla Fede e sulla Scrittura, non poteva essere messo in discussione, tanto meno da chi, come il Vicario di Cristo, della Scrittura doveva essere il primo e più importante testimone: “Lettera 206 ...dicovi da parte di Cristo crocifisso: tre cose principali vi conviene adoperare con la potenzia vostra. Cioè, che nel giardino della santa Chiesa voi ne traggiate li fiori puzzolenti, pieni d’immundizia e di cupidità, enfiati di superbia... Usate la vostra potenzia a divellere questi fiori. Gittateli di fuori, che non abbino a governare. Vogliate ch’egli studino a governare loro medesimi in santa e buona vita. Piantate in questo giardino fiori odoriferi, pastori e governatori che siano veri servi di Gesù Cristo, che non attendano ad alto che all’onore di Dio e alla salute dell’anime, e sieno padri de’ poveri...”.

L’incipit delle Lettere di Caterina (Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù) che richiama alla mente l’espressione con la quale il Romano Pontefice fa riferimento a sé stesso (servus servorum Dei), pur potendo essere intesa come l’espressione di un’audacia unica - come se Caterina si sentisse capo della Chiesa – sta molto probabilmente a significare che le parole evangeliche (Mc. 10, 43-44), cui quella formula si ispira, debbono essere le parole di ogni semplice cristiano che, seguendo la Parola di Dio, deve farsi “servo e schiavo de’ servi di Gesù”.Ella indica così la strada, che è la strada di ogni cristiano, ma è anche e soprattutto la strada di chi, quale Sommo Pastore, quel popolo deve guidare: “Lettera 270 ...Da qualunque lato io mi volgo, vedo che ognuno gli porta le chiavi del libero arbitrio con la perversa volontà; e’ secolari, e’ religiosi, e li chierici, con superbia correre alle delizie, stati e ricchezze del mondo, con molta immondizia e miseria... Mettete mano a levare la puzza de’ ministri della santa Chiesa; traetene e’ fiori puzzolenti, piantatevi e’ fiori odoriferi, uomini virtuosi, che temono Dio...”.

Caterina ha manifestato tutta la sua grandezza di donna pienamente inserita nella sua epoca ma, a differenza delle donne sue contemporanee, ha avuto il coraggio – e per questo è una gigante della storia – di uscire fuori dal quel circuito ristretto nel quale le donne del suo tempo erano tenute, per parlare con voce chiara, limpida e forte, con la voce guidata da Dio e dal Vangelo. Proprio per questo chi legga Caterina non può non cogliere il forte senso di contemporaneità della sua voce (quell’ “uscire fuori”, quella necessità di riformare, quell’attenzione per i poveri tanto cari all’attuale Pontefice Francesco) restando beninteso pienamente consapevoli della piena appartenenza della santa senese al suo tempo. Un tempo di crisi – come di crisi è il tempo che stiamo vivendo - che aveva bisogno di spiriti profetici annunziatori di verità: spiriti profetici, spesso inascoltati, come talvolta accadde, appunto, alla santa senese.

[*] Si riproduce parzialmente l’intervento tenuto a Siena, il 28 maggio 2014 presso la Sala Capitolare di S. Domenico, in occasione della presentazione del volume Virgo digna coelo. Caterina e la sua eredità, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, L. Cinelli, P. Piatti, Città del Vaticano 2013 (Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Povincia Romana ‘Santa Caterina da Siena’ dell’Ordine dei Predicatori. Memorie Domenicane; Atti e Documenti, 35).