Eran trecento, chissà se giovani e forti, ma sono vivi

Ogni cento numeri di questo giornale accade qualcosa.

Era il marzo 2013, uscita del numero 200, e ci trovavamo alla vigilia del Conclave dopo l’evento inaudito di una dimissione papale che portò all’altrettanto inaudito evento di un papa gesuita che assunse il nome di Francesco.

Ieri, vigilia di questo numero, è stato eletto il nuovo Presidente della Repubblica Italiana, nella persona di Sergio Mattarella, appalesando ancora come sia irrinunciabile il tormentato rapporto tra identità credente e laicità della storia.

Eccoci.

È il numero 300 de “Il giornale di Rodafà”, che sottotitoliamo, per così dire, “Rivista online di liturgia del quotidiano”.

Siamo molto emozionati, non possiamo nasconderlo.

Una parte importante della nostra vita si è concentrata in questo scrivere da più di 5 anni.

Scrivendo, viviamo. Abbiamo vissuto, vivremo. Nonostante tutto.

Ciò che ci colpisce però oggi, sino alla commozione, è la partecipazione di tanti che, con sentimenti di amicizia, di condivisione, di dialogo costante, di confronto, hanno accettato – su nostra timida richiesta – di entrare nello spazio di Rodafà.

Un’avventura davvero straordinaria questo numero 300.

Che cosa combina Rodafà quest’oggi?

Mette assieme le cronache della nostra vita, anzi ci prova semplicemente, con il rigore delle indagini di livello accademico.

Sì, niente di meno. Con umiltà, ma anche con entusiasmo e con serena convinzione che, rimembrando Seneca, “verum gaudium res severa est”.

In questo numero è come se tutti si prendessero per mano e ci aiutassero a capire e ci chiedessero che cosa vogliamo, noi, adesso, qui, dalle nostre “liturgie del quotidiano”, dalle nostre ferialità che celebrative sono sempre, volenti o nolenti.

Iniziamo a presentare i protagonisti di questa uscita che, per l’occasione, non siamo – volutamente – io ed Emiliano Bazzanella.

Piuttosto, abbiamo storici di fama mondiale.

Due già presenti, con la loro autorevolezza e profonda saggezza, nel numero 200 di due anni fa, Giovanni Miccoli e Giovanni Minnucci.

Il primo prosegue una intensa, scientificamente eccezionale – lo diciamo con vera convinzione -, analisi delle dinamiche ecclesiali a cavallo tra la fine del papato ratzingeriano e gli inizi di quello di Francesco.

Il secondo – con cui ci laureammo ormai diversi anni fa nella cara Università di Siena – ci presenta, con padronanza unica delle fonti, la vivida attualità di una figura femminile della storia della Chiesa.

E c’è, nel numero di oggi, la presenza di Giuseppe Trebbi, ordinario di Storia moderna presso l’Università di Trieste, con un’illuminante presentazione di che cosa accadde al rito aquileiese, aspetto importante di riflessione per tutti i liturgisti, anche se “quotidiani”.

Abbiamo, sempre nella scia della più alta competenza storica, studiosi dell’attualità ecclesiale del calibro di Massimo Faggioli.

Abbiamo teologhe i cui contributi sono elementi portanti della riflessione ecclesiale contemporanea: Serena Noceti, ecclesiologa pure di fama mondiale, vicepresidente dell’Associazione Teologica Italiana, e Cristina Simonelli, insigne patrologa, presidente del Coordinamento Teologhe Italiane.

E Rita Torti, autrice del volume, per noi imprescindibile, “Mamma, perché Dio è maschio?”.

Abbiamo il liturgista Andrea Ponso e le sue profondità provenienti dai chiostri benedettini di Padova.

Abbiamo studiosi delle arti figurative come Stefano Agnelli che riesce a leggere la liturgia dentro la pro-vocazione del vedere e lasciarsi vedere nelle forme del simbolo, che sia filmico o pittorico.

Abbiamo lettori e lettrici appassionati di Rodafà, come Anna Petri, con la sua straordinaria sensibilità, come Antonio Sodaro , anch’egli già presente nel numero 200, con il suo afflato partecipativo lungo una storia che, - certo – per motivi familiari, ci appartiene interamente e ci indica la strada.

Abbiamo, in questo numero, firme di giornalisti come Gianni Di Santo, celebre per i suoi libri di indagine che scavano oltre l’apparenza, cercano, pongono domande e illuminano passaggi chiave della storia dell’intera nostra società italiana, mai disgiunta da un robusto afflato poetico e da una competenza musicale apprezzata anche di recente.

Come Andrea Dessardo, con la palmare verità di una domanda attuale e cocente, tratteggiata secondo le sua attitudine interpretativa di onesto confronto con i dati di cronaca effettivi.

Abbiamo Davide Casali, nome di assoluto primo piano nell’interpretazione della musica klezmer, testimone amico di un’intera cultura centrale a Trieste, come nella memoria e nella modernità di qualunque luogo che ospiti profezia, soprattutto laddove l’altro è dimenticato o addirittura negato.

E abbiamo ancora la teologia fresca di Annalisa Margarino, con la sua vivacità letteraria, la sua capacità di ascolto della vita.

E c’è Andrea Bigalli, l’unico prete di questa “compagnia”, non, di sicuro, per motivi di esclusione ma quasi per “delega” ad un’unica voce presbiterale – e non triestina – di quelle attese che l’assemblea (ekklesía) di chi si vuol bene invoca e che guardano ad un Dio non imprigionabile, sempre nuovo, adveniente.

E ci siamo noi due, io ed Emiliano Bazzanella, che in questo numero tuttavia stiamo un po’ contemplativamente a guardare l’intersecarsi di parole nuove, diverse, di altri eppure nostre, belle, vivide.

Tutti i contributi di oggi vedono per la prima volta la luce in questa forma, scritta e pubblicata. In alcuni casi si tratta di studi già presentati, ma non per iscritto, oppure non in Italia.

Alcune indicazioni sono però necessarie per l’orientamento nella lettura di questo numero.

Il contributo del Prof. Miccoli sull’evoluzione dei rapporti tra Roma e Comunità lefebrviane sta qui apposta.

Il grande storico, come accennavamo, ci onorò già di un suo contributo originale due anni fa in occasione del numero 200, focalizzandosi sull’evento della rinuncia di Benedetto XVI e sugli interrogativi che esso tuttora non smette di provocare.

Questo numero, così come l’incontro pubblico che lo presenterà stasera al Caffè San Marco di Trieste, si intitola – ovviamente non a caso – “Dio non è mio” e la dialettica sviluppatasi attorno allo scisma del vescovo tradizionalista Marcel Lefebvre testimonia proprio di un disegno di fuoriuscita, da tutte le aperture possibili parrebbe, dei tentativi di costringere Dio nelle maglie confessionali. Lefebvre è un caso serio, paradigmatico di tanta parte della contemporaneità ecclesiale.

E, su tale pista di esplorazione, intervengono i due scritti di indagine storica, su Tertulliano e la questione del velo (questione estremamente attuale se solo pochi giorni fa la presenza di Michelle Obama in Arabia Saudita a capo scoperto, in occasione dei funerali di re Abdullah, ha destato polemiche) a firma di Cristina Simonelli, e su Caterina da Siena a firma di Giovanni Minnucci, a presentare la complessità di un essere donna dentro la Chiesa che trova nel passato stimoli ed interrogazioni cui forse appena domani sarà possibile abbozzare una risposta.

Sino alla sintesi teologica magistrale di Serena Noceti, che apre sulla prospettiva – fondamentale, ma temibile – di due immagini cristologiche attinte dentro la più ordinaria quotidianità, la donna che spazza tutta la casa per cerca una moneta e la donna che partorisce.

Ma vi è poi un costante movimento, quasi di danza, che presenta un’alta e altra argomentazione analitica attorno alla novità istituzionale millenaria di un papa che “osa” chiamarsi “Francesco”.

Il papa gesuita con il nome del santo giullare assisiate destabilizza approcci, contesti e presunte coerenze. Qualcosa si sfalda, qualcosa si ricompatta altrove, sempre secondo “altre” logiche ed “altri” funzionamenti.

Intorno alle domande della novità papale scrivono Faggioli e Di Santo, perché così abbiamo ritenuto fosse opportuno, per dire, pronunciare, far sentire parole di novità vera dentro la comunità ecclesiale. Parole vere in quanto altre.

E questo dell’alterità – con quell’aggettivo, lo si vede, che ritorna di continuo - è un tema che ci circonda, ci attraversa e probabilmente non ci lascerà più.

È il tema che si legge in controluce in tutti gli ulteriori interventi e contributi che lasciamo a chi legge il gusto di scoprire e assaporare.

Ci siamo anche noi due, io ed Emiliano, che proviamo ad interloquire secondo le nostre – così singolarmente assieme - due specificità, canonistica e filosofica, che però vedremmo volentieri quasi silenti scegliendo piuttosto di ascoltare.

Crediamo che sia il diritto, sia la filosofia siano campi da arare secondo “canoni” (con le parole si dovrà pur un pochino anche giocare…) del quotidiano che lo facciano diventare liturgia, a prescindere da adesioni di fede o approcci laici. Liturgia della vita.

Diranno i lettori, se lo vorranno, che cosa riesca ad esprimere questo numero 300 del Giornale di Rodafà.

Qui c’è anche Roiano, la nostra “periferia esistenziale”, con le sue contraddizioni ed i suoi angoli per appartati innamoramenti, d’ogni tipo e natura. Dove c’è una scuola, una parrocchia, un dedalo di strade (di “klanz”, precarsiche viuzze). Dove ci sono lutti e gioie, nascite e morti, negozi che chiudono e speranze che aprono. Volti che magari prima sorridono, anzi ridono forte, cercano carezze e strette di mano, e subito dopo si fanno seri e a stento salutano.

C’è Trieste, dove vivendo, affermò lo scorso dicembre Pier Aldo Rovatti, non capisci più chi sei. La “Vienna del mare”. La città della Risiera e delle Foibe. La città che ha preso di petto il Novecento tutto e non lo molla. La città di una comunità cristiana molto particolare.

Ci siamo noi tutti. Così come siamo.

Quest’oggi viene per noi da Graz l’amico teologo anglicano Gianluigi Gugliermetto che questa sera, proprio a Trieste, come si diceva, ci aiuterà a presentare pubblicamente il numero che state sfogliando. Lo ringraziamo di cuore.

Così come di cuore, ma veramente, senza nessuna piaggeria o frase di circostanza, ringraziamo tutti coloro che hanno scritto oggi per Rodafà.

Terminiamo?

In realtà noi siamo fautori di un “continuum” dove non ci sono mirabili cominciamenti ed esiziali conclusioni.

Allora, piuttosto, semplicemente proseguiamo. Verso dove?

Una chiusa “romantica” ci sta. Orizzonti d’amore.

Con una motivazione.

Alla fine di tutto, quand’anche il “continuum” comincia ad annebbiarsi ed il canto di voci lontane si fa flebile, indistinto, resta solo, esclusivamente, una luce: il volersi bene.

Buona domenica, care Amiche, cari Amici.

Grazie a Voi di esserci.

E, Vi raccomandiamo, fatevi vive, fatevi vivi.

Perché il volersi bene assicura vita imperitura, qualunque cosa dopo accada.

E noi vivi vorremmo continuare ad essere, dopo i trecento che – così ci piace pensare – non sono morti.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro