I tre paradossi di Papa Francesco

di

Gianni Di Santo

(Giornalista e scrittore)

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Eppure, quel 13 marzo di due anni fa, qualcosa ha ridato fiato al mondo.

Un papa che si fa chiamare vescovo restituisce alla storia la primizia della carità dell’antica Chiesa di Roma e la costringe a fare i conti con un uomo, chiamato Gesù di Nazareth, profeta di unione tra cielo e terra.

Il cristianesimo, la casa del figlio di Dio, è l’unica religione che convive con la storia del mondo tanto da esserne stata, nei secoli, compagna, amante, madre, matrigna, sorella, figlia.

Ogni tanto si arrocca il diritto di generare profezia.

Un giorno venne il poverello di Assisi, Francesco, e la storia cambiò.

Poi, a seguire, Santa Chiara, San Filippo Neri, Sant’Ignazio di Loyola, tanto per citarne alcuni.

Profeti del Dio vivente, venuti a stare in mezzo a una Chiesa traditrice.

Allora quel 13 marzo, giorno di svolta nella grande storia millenaria della Chiesa cattolica, è successo che un uomo venuto dall’altra parte del mondo, cominciasse a parlare con il suo popolo come nessuno aveva fatto prima di lui. Un dialogo profondo e sincero.

Un “a tu per tu” dove non sono possibili posti di avanzo per le lettere maiuscole e quel “tu” diventa l’unico aggancio possibile di scrittura sacra e di incontro tra uomo e Dio.

Già, lui, Francesco. Vescovo Francesco, figlio operaio del mondo che non esiste ai nostri occhi stanchi occidentali.

Ma figlio voluto e cercato dal più grande esperimento di democrazia globale, il conclave, organizzato da una monarchia illuminata qual è l’istituzione Chiesa cattolica, e dove, qualcuno, ci vede pure il suggello dello Spirito Santo.

Certo che Francesco è figlio spirituale del card. Martini, che già in vita aveva sperimentato le virtù della profezia e della speranza evangelica.

Certo che ama i poveri, ci ha vissuto insieme.

Ma è altrettanto vero che la sua venuta in mezzo ai leoni della battaglia temporale, si è colorata subito della speranza evangelica delle beatitudini.

Come se tra le sue gesta, le sue parole, i suoi atti, sia possibile scorgere fatti di duemila anni fa riguardanti un uomo di nome Gesù, morto in croce per mano di giudei e romani e risorto il terzo giorno tra l’incredulità dei suoi stessi seguaci e amici.

 

Francesco vescovo incarna almeno tre paradossi, rispetto al suo status di papa regnante.

Il primo paradosso riguarda la desacralizzazione del trono, da lui attuata in modo scientifico.

Già la parola vescovo è rottura con la storia ultima, ma non con la storia prima. Francesco scende dal trono del regnante con la sua automobile utilitaria, con i suoi paramenti liturgici sobri e poveri, con i suoi gesti di misericordia e perdono, di accoglienza e tenerezza.

Scende dal trono mentre si fa un caffè da solo a santa Marta, mentre chiama al cellulare l’amico che non sente da un po’, mentre si rivolge al popolo dei fedeli e anche degli agnostici, pregate per me.

Oppure, ancora, mentre accoglie con una carezza i migranti di Lampedusa o riceve i grandi del mondo nella sua piccola dimora e non nell’appartamento pontificio.

Desacralizza il trono perché non comanda con autorità, non emette sanzioni dottrinarie, non promulga dogmi irrinunciabili, non promette l’inferno a chi sbaglia.

Ma, al contempo stesso, innalza il trono.

La sua persona è osannata in tutto il mondo, il suo sorriso contagioso è portatore di buone notizie, la sua diplomazia ha già fatto incontrare le ragioni dell’equilibrio e della giustizia, come nel caso dei rapporti Cuba-Usa.

Desacralizza il trono, ma lo rende sempre più alto, più vicino al cielo e quindi più puro dalle incrostazioni della terra.

E capovolge, all’improvviso, le dinamiche del sacro e della teologia dominante: è il popolo a pregare affinché il regnante stia bene e si comporti bene, non il regnante che emette i suoi giudizi inappellabili e definitivi.

 

Il secondo paradosso fa i conti con quell’espressione bellissima e portatrice di sani inquietudini spirituali, che è diventata l’architrave del suo pontificato: la Chiesa in uscita.

In uscita da se stessa, dai suoi indigeribili disastri temporali, da una curia in gran parte orfana di parola sacra, da noi, dai cattolici tiepidi che hanno dimenticato i dieci comandamenti e dai cattolici integralisti che hanno fatto diventare un campo di battaglia le pastorali delle nostre parrocchie.

Uscire dal tempio, per le strade della vita, ad ascoltare il canto del vangelo e delle pietre, e degli uomini che respirano.

Una Chiesa in uscita che diventa, per osmosi tra cielo e terra, una Chiesa in entrata.

Sì, ho detto bene: una Chiesa in entrata su di noi, il nostro spirito, la nostra intelligenza, e le nostre mancate relazioni con l’Altro.

Una Chiesa in uscita (e quindi in entrata) che spalanca le porte del tempio e fa entrare nella sua dimora la polvere della strada, ma che nello stesso tempo sa raccoglierla con le mani e poi spargerla lungo i confini del tempio.

Per contaminazione teologica e liturgica, per atto d’amore verso l’umanità.

 

Infine, l’odore delle pecore.

E non l’odore del lusso e dell’agio sociale.

Si riferisce solo ai ministri di Dio? Non credo.

L’odore delle pecore è la più dolce delle metafore inventate da Francesco.

Sa di miele e acido, di sale e vita vissuta.

È l’odore delle pecore che trasformerà le nostre parrocchie e le nostre chiese in templi di preghiera e di spiritualità.

Ed è l’odore delle pecore che diventerà dolce flagranza alle mele e ai frutti di bosco, in una sorta di lavaggio quaresimale che metterà a nudo il nostro corpo e la nostra anima di fonte all’infinità bontà rivelatrice di Dio.

Ma occorre uscire dal tempio, appunto, per poi ritornarci lavati, asciugati e riposati.

Quale teologia, allora, ci aspetta? Quale cammino lungo la geopolitica del sacro? Come tenderemo la mano a Dio?

Credo che il prossimo tempo della Chiesa sia un kairos dove i colori del creato (il cielo) e l’odore del creato (la terra) torneranno a non ostruirsi, gli uni accanto agli altri. Francesco è l’arma spuntata che ci ha regalato il soffio dello Spirito in una sera romana di anni fa, piovigginosa e beffarda, rispetto ai “desiderata” delle lobbies. Ogni sua parola è nuova beatitudine, scritta con l’inchiostro dei passi del pellegrino e di colui che è in ricerca.

È come se Dio si fosse stufato di stare sempre lassù a contare le (sue) stelle, e voglia passare un po’ di tempo con noi.

Io, almeno, la vedo così. Un tempo giusto di ajon per sognare e vivere spicchi di paradiso in questa nostra malandata e benedetta terra.