Filosofia e psicologia. Verso un criterio di demarcazione

di

Emiliano Bazzanella

(Filosofo a artista visivo,

membro di redazione de “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”)

***

1. Introduzione al problema 

Il criterio di demarcazione riguarda originariamente il modo in cui si distingue un'asserzione di tipo scientifico da un'asserzione di tipo non scientifico. Tale criterio fu adottato e problematizzato nell'ambito del Circolo di Vienna (Wienerkreis) ai primi del Novecento e diede inizio alla cosiddetta "Filosofia della scienza": dicesi scientifica quella proposizione il cui significato risulta "empiricamente verificabile", cioè quando possiamo metterla alla prova con la pratica sperimentale. Una proposizione che non soddisfa questo criterio diviene ipso facto una proposizione metafisica e, quindi, priva di senso.

Noi invece ci poniamo il problema di demarcare due saperi o due pratiche i cui rapporti sono stati da sempre molto ambigui, con frequenti détours reciproci dell'uno nell'altro: filosofia e psicologia. Chiamiamo "psicologia" tutto il campo caratterizzato dalle psicologie sperimentali e cliniche, dalla psicanalisi alla psichiatria, alla psicoterapia in genere. Questa genericità non è pregiudiziale, poiché alla fine il nostro tentativo sarà quello di demarcare i relativi spazi di inerenza non attraverso la definizione preliminare dei campi in gioco, né attraverso una distinzione per così dire in negativo, ossia determinando ciò che non appartiene all'uno e ciò che non appartiene all'altro. Riteniamo invece che una possibile demarcazione tra filosofia e psicologia sia rintracciabile in una ulteriore demarcazione, cioè in una distinzione tra il "filosofico" e il "non-filosofico".

Pensiamo che questa distinzione di secondo livello sia essenziale, soprattutto per comprendere -  esemplificando sommariamente - una certa inflessione filosofica e antropologica del secondo Freud (Al di là del principio di piacere, Totem e tabù, Il disagio della civiltà, etc.), il passaggio dalla psichiatria alla filosofia di K. Jaspers (a partire dalla Psicologia delle visioni del mondo) e, oggetto tematico di questo testo collettivo, la funzione dell'esistenzialismo heideggeriano e della fenomenologia husserliana nel pensiero clinico e teorico di Binswanger.

Tale criterio di demarcazione, infine, palesa oggi tutta la sua urgenza poiché si sta profilando una "professionalizzazione" della filosofia che prescinde dalla mera "funzione" pedagogica da sempre assegnatale dalla tradizione classica. Si tratta insomma di valutare se la filosofia possa assolvere altri compiti nell'ambito della società contemporanea e se tali compiti non interferiscano o, addirittura, non si sovrappongano pleonasticamente ad altre competenze disciplinari già consolidate e collaudate nel tempo, come la psicoterapia o la psicanalisi.

 

2. La filosofia non è una "diagnostica" 

È ovvio che, sia per la complessità della questione, sia per la ristrettezza degli spazi editoriali, un'interrogazione fondamentale del tipo: "che cos'è la filosofia?" non possa essere affrontata prima facie, ma solo appena abbozzata o lambita nei suoi confini da sempre incerti.

Una delle osservazioni più efficaci che possiamo effettuare, invece, è che la filosofia si è caratterizzata storicamente come un meta-récit (cioè una "grande narrazione" per dirla à la Lyotard) mai definito una volta per tutte. In Aristotele essa si era già distinta da certe competenze tecniche (matematica, medicina, geometria, astrologia) ma rimaneva un corpus di saperi variegati - corpus anche disomogeneo, a dire il vero, soprattutto dinanzi ai nostri occhi ormai usi all'enfasi specialistica delle scienze - che comprendeva, così, la fisica, la zoologia, l'estetica, la teologia,  l'etologia e non ultima una "psicologia" di tipo prettamente cognitivo e sperimentale (basti pensare al De anima e alle interessanti teorie percettologiche che vi ritroviamo).

In Platone, invece, assistiamo a un'interessante integrazione tra matematica, geometria e metafisica: nelle cosiddette "teorie non scritte" fatte emergere dalla Scuola di Tubinga, il "numero" diviene elemento costruttivo della realtà sensibile e soprasensibile e, quindi, fattore cosmogonico e gnoseologico. In altre parole la matematica si porrebbe alla base sia della psicologia che dell'astronomia.

Andando a ritroso nel tempo, però, Socrate rappresenta una figura emblematica poiché in esso ritroviamo una "competenza" del linguaggio quale primaria specificità del filosofo. Competenza del linguaggio finalizzata alla "terapia", cioè alla risoluzione di quei "crampi mentali" (come li definisce Wittgenstein) che, all'interno della pólis greca, potevano risultare cagione di malessere morale e fisico. Alcuni autori hanno persino visto in Socrate un "proto"-psicanalista, cioè il modello di colui che, attraverso l'uso della parola e della dialettica, riesce a dissolvere quelle inquietudini frutto esclusivo del sistema socio-culturale e simbolico di un'epoca.

Dobbiamo ciò nonostante notare - e qui uno storico della medicina ci potrebbe sovvenire senz'altro in aiuto - come il malessere psichico in tutte le sue varianti abbia storicamente subìto un trattamento distinto da quello che è stato uno studio della psiche umana sviluppato e articolato con metodiche filosofiche (e, quindi, non-sperimentali). È vero che certe metodiche diagnostiche e terapeutiche furono talvolta ispirate a dottrine eziologiche di derivazione filosofica (come in Galeno, ad esempio o in Alessandro di Afrodisia il quale, oltre ad essere un ermeneuta di Aristotele, si interessò di medicina), ma è anche vero che l'approccio fu di tipo scientifico o para-scientifico (nel senso di: osservativo, pratico e sperimentale) e non filosofico. La manía (dal greco maínomai: sono pazzo, folleggio) era ad esempio una sindrome che raccoglieva in sé una serie smisurata di patologie, dal morbo di Parkinson alla demenza senile (anticamente: marasma) e alla dementia praecox, ma veniva differenziata in maníe cum febribus (e quindi indicative di sottostanti patologie organiche, infezioni, etc.) e maníe sine febribus, cioè senza sintomi fisiologici eclatanti al di là dei disturbi del comportamento (come la classica melancholía nelle sue forme estreme).

L'esoticità di queste nosologie primitive può far sorridere ora, ma, andando oltre il loro valore storico, ci sembra significativa una demarcazione tra filosofia e psicopatologia già radicale sin dai primordi della cultura occidentale. La filosofia si occupò tutt'al più di psicologia sperimentale, ma mai ebbe né l'intento né la presunzione di occuparsi di psicopatologie o "neuropatie" che rimanevano di competenza esclusiva della medicina.

Con la frenologia e la fisiologia dell'Ottocento, anche la propensione dei filosofi verso il cognitivismo e la percettologia svanisce via via (dopo secoli interessanti e pregnanti nel pensiero medioevale, nei quali il problema delle "illusioni ottiche" fu al centro di numerose quaestiones quodlibetales, dando  luce a teorie illuminanti come quella occamista-nominalista o quella proto-fenomenologica di Pietro Aureolo): la veemenza con cui vi si scaglia Hegel nella Fenomenologia dello spirito testimonia una battaglia perduta o, meglio, un mutamento radicale all'interno dell'organizzazione dei saperi. I successi della scienza (lo sviluppo dell'anatomo-patologia, le prime organizzazioni degli ospedali psichiatrici con una sempre più accurata nosologia, il diffondersi della sperimentazione come criterio fondamentale per l'accertamento della "verità", la fisiologia stessa come scienza della physis, cioè scienza del corpo animale inteso quale elemento facente parte della natura e, quindi, da studiare con le metodiche galileiane della fisica) comportarono una graduale compressione di quello che fu l'originario orizzonte di pertinenza del filosofico.

Abbiamo così sinteticamente raggiunto due punti di riferimento che ci serviranno da guida per le prossime argomentazioni: 1) la filosofia non si è mai occupata di diagnostica, né di terapia (intendiamo qui "terapia" in senso medico e non "allargato" come nella prospettiva socratica e nella cosiddetta "consulenza filosofica"); 2) la filosofia ha cambiato nei secoli la sua fisionomia e i suoi campi di pertinenza, assolvendo quindi oggi ruoli e competenze che non possono essere più sovrapponibili a quelli svolti nella Grecia classica.

 

3. La questione del senso e le normotipie

La filosofia ha in qualche modo a che fare con la questione del senso. Si tratta di una parola enigmatica, un po' "a trabocchetto" come osservava Hegel nelle Lezioni di estetica: in tedesco, infatti, Sinn significa nello stesso tempo sia "sensibilità", sia "senso" ossia - un po' grossolanamente - Bedeutung, significato. Ma al di là di questa sporadica apparizione (finalizzata, tra l'altro, a una certa strutturazione dello Spirito assoluto in quanto passaggio progressivo ed evolutivo dall'empirico all'ideale), il problema del senso si profila nella sua centralità, prima nell'ambito della ricerca logica sul finire dell'Ottocento (l'articolo notissimo Sinn und Bedeutung di G. Frege), in seguito, nella seconda metà del Novecento, con la raccolta di saggi Logique du sens di G. Deleuze (1969). In quest'ultima trattazione emerge come per "senso" dobbiamo davvero intendere tutto ciò che tradizionalmente può essere sussunto sotto tale termine: "senso" è dunque la sensibilità, il "significato" di una proposizione articolata in un linguaggio formalizzato; ma è anche il "buon senso" da interpretare in tutte le sue inflessioni etiche e assiologiche, il "senso comune", ossia quel complesso di saperi condivisi che fungono da norma di riferimento per l'azione e il pensiero di una determinata comunità sociale; il "sesto senso" assimilabile a una sorta di intuitio irrazionale che scavalca paradossalmente le leggi della logica tradizionale e rappresenta quindi il lato "in-sensato" del senso stesso.

Non è tuttavia finita: Deleuze osserva come all'interno del "senso" dobbiamo anche includere qualcosa come il "doppio senso", cioè una sorta di "doppiezza" o ambiguità costitutiva del senso; ma dobbiamo anche includere il "senso" come direzione, cioè come l'"in vista di cui" un certo movimento si compie, sia esso un movimento puramente fisico-materiale (il senso di marcia), sia esso un movimento storico-culturale (verso dove va la nostra civiltà?). Infine - e qui forse può montare un certo sconcerto - dobbiamo osservare che non vi può essere del senso senza un certo non-senso: Deleuze evidenzia come le classiche espressioni inconsistenti e contraddittorie del tipo "quadrato rotondo", oppure le cosiddette “parole-baule” che designano qualcosa ed esprimono nello stesso tempo il proprio senso, siano tutte espressioni di un "non-senso" che tuttavia fa parte paradossalmente del senso.

Non è un caso che la problematica del senso si sia affacciata sulla scena filosofica da non molti anni: dopo le guerre mondiali e gli sconvolgimenti esistenziali derivanti dall'uso delle nuove tecnologie e dagli nuovi stili di vita, dopo ciò che i filosofi hanno interpretato come un "indebolimento" della soggettività occidentale e come una nuova forma "microfisica" del potere (Foucault) non più identificabile in un'autorità o in una gerarchia ben definita, la domanda "dove stiamo andando?" pare quantomai pressante. La caduta del muro di Berlino del 1989 non ha significato soltanto un nuovo scenario geopolitico internazionale, ma ha aperto un'epoca di incertezza e di mancanza di riferimenti certi (per quanto negativi, come i significanti-maestri di Lacan) che sembra imporre certamente e con decisione la questione della sensatezza della nostra esistenza.

Ma allora che cos'è un senso? Riassumendo quanto ci dice Deleuze, potremmo dire davvero che esso è un po' sensazione-emozione, un po' significato-linguaggio, un po' "norma etica"-valore, un po' coappartenenza a una comunità, un po' non-senso o extra-senso, un po' memoria e prospezione verso il futuro. Un'esemplificazione di quanto andiamo qui argomentando si evince dalla teoria delle "rappresentazioni collettive" di E. Durkheim e dalla teoria che ne deriva delle "rappresentazioni sociali" di S. Moscovici, di sessant'anni successiva. Entrambe queste teorie sembrano a loro volta derivare dalle formazioni dello spirito oggettivo di cui si occupò Dilthey e nelle quali vi si intravvedevano - andando oltre Hegel - quei luoghi in cui la vita o l'Erlebnis umano si oggettiva e prende forma, quasi in maniera inconscia (ovvero senza che il produttore stesso - l'uomo - se ne renda effettivamente conto). Queste oggettivazioni dello spirito umano (l'arte, l'etica, le scienze, la tecnica, etc.) tendono tuttavia ad assumere un'autonomia tale da condizionare - anche in modo negativo - l'esistenza dell'uomo: per Durkheim sono dei veri e propri rituali collettivi tesi a conferire un senso rassicurante e ricorsivo a un mondo che invece si presenta con caratteri orrorifici e angoscianti. La religione è il prototipo delle rappresentazioni collettive poiché in essa vi troviamo tutti gli elementi più caratterizzanti: la ritualità, appunto, assieme all'aspetto carismatico, al contenuto ideico e mitico (la Bibbia, l'escatologia, etc.), alla normatività (i comandamenti, le etiche applicate, etc.) e, non ultimo, al fattore politico (il potere "temporale" della Chiesa).

Le rappresentazioni sociali di Moscovici nascono invece nell'ambito di uno studio sociologico sulla diffusione della cultura psicanalitica nella cultura francese degli anni Sessanta. Vi si notava allora come espressioni tipiche del freudismo quali lapsus, inconscio, subconscio, rimozione, complesso edipico, libido, fossero ormai patrimonio d'una larga fascia della popolazione, tantoché esse non rimanevano soltanto lessemi utilizzati superficialmente e senza che ne fosse compreso bene il significato, ma facevano in effetti parte d'una determinata Weltanschauung. In seguito Moscovici notò come la rappresentazione sociale riuscisse a fungere da collante sociale con processi cognitivi suoi propri: essa innesca infatti un processo di "mitizzazione", creando dei "padri fondatori" spesso storicamente inconsistenti o inesistenti, con genealogie inventate e via via arricchite e idolatrate; induce un rafforzamento dei processi di identità sociale (e, a tal proposito, risultano fondamentali gli studi dello psicologo sociale H. Tajfel); funge da norma, cioè diviene il canone etico, valoriale e assiologico d'una determinata comunità sociale. Potrebbe dunque trasformarsi nello spauracchio di un'Astrazione (cioè in un'oggettivazione dello Spirito o Geist che in quanto tale dovrebbe rimanere spirituale e quindi astratto) che agisce e funziona nella realtà, diviene un motore sociale con tutti i vantaggi e i rischi della faccenda. Durkheim sosteneva, tra l'altro, che senza la religione non avremmo avuto addirittura la logica classica e, quindi, nessuno dei progressi culturali di cui si fa vanto la nostra civiltà.

Ecco, ciò che intendiamo per senso non è soltanto il significato di una proposizione atomica, come dicono i logici, e nemmeno il senso di un racconto. E non è soltanto il senso di un'esistenza, di una vita vissuta che cerca sempre una direzione, un orizzonte, un fondamento: il senso è anche questo insieme variegato ed eterogeneo di saperi, immagini, fantasie collettive, eventi storicizzati, competenze, mitizzazioni, rituali che costituiscono le rappresentazioni sociali. Per saldare il  côté durkheimiano con quello di Moscovici, abbiamo scelto di chiamare queste formazioni di senso con il termine normotipia: in esso risuona l'espressione type, "modello, tipo" (espressione diffusa nella semiotica anglosassone) e l'espressione "norma" che allude esemplarmente alla "norma" in quanto Legge e alla "normalità" in quanto ciò che viene usualmente etichettato come "normale". Tali formazioni di senso, infatti, hanno la caratteristica di fungere da fattori catalizzanti di qualsiasi senso in genere: essi sono normativi, cioè impongono delle regole e delle leggi; ma sono parimenti il canone della normalità, canone che riguarda sia il campo etico che quello gnoseologico (non tutto quello che vediamo è pure quello che possiamo vedere). Husserl aveva inserito una funzione normalizzante addirittura nell'ambito delle sensazioni propriocettive, alludendo nel secondo libro delle Ideen a una sorta di "ortostesia", cioè a una correttezza percettiva introiettata dal soggetto in maniera inconscia.

Sono dunque normotipie la religione, l'etica laica, un determinato canone scientifico (la scienza normale di T. Kuhn); fu normotipico, ad esempio, il razzismo nazista che condizionò ogni fascia di popolazione e a tutti i livelli, in una sorta di Zeitgeist che, nonostante le origini dubbie, influenzò pure studiosi insigni come Lorentz, Gehlen e Heidegger.

 

4. L'Altro lacaniano

Abbiamo fatto un piccolo sforzo per lambire la questione del senso e introdurre la nozione di normotipia che in seguito risulterà essenziale alla delineazione del nostro criterio di demarcazione. Dobbiamo tuttavia fare un ulteriore sforzo, ma sarà uno sforzo ben speso poiché esso ci farà toccare più dappresso la divaricazione che intercorre tra filosofia e psicologia. Per fare quest'ultimo passo, però, dovremo per così dire "canibalizzare" il pensiero di Lacan, cioè dovremo focalizzarne solo taluni aspetti, omettendo invece una contestualizzazione più ampia che abbisognerebbe invece di troppo spazio.

Per Lacan l'Altro è bifacciale, cioè presenta due volti: da un lato è il grande Altro, cioè il complesso delle leggi, dei saperi, dei linguaggi che costituiscono l'uomo secondo la tradizionale definizione aristotelica dello zoon logon echon, l'animale che possiede il linguaggio. Dall'altro, esso è più simile all'Autrui di Lévinas, cioè a quell'alterità radicale che viene prima di ogni categoria  e di ogni parola e che si esprime nel fatto che noi siamo implicati sin dapprincipio in un faccia a faccia con un'altra persona. Lacan accenna quindi - soprattutto nell'ultima fase della sua produzione - a un Altro reale e primordiale.

Il reale, tuttavia, non deve confondersi con una semplice categoria ontologica: esso, insomma, non corrisponde alla realtà tout court. Si tratta invece di un qualcosa di fallimentare, poiché esso emerge quando non ci sono più parole o quando il linguaggio s'inceppa: è l'Angst, l'angoscia e l'ansia; e paradossalmente è la jouissance, il godimento nella misura in cui si differenzia dal piacere. Nell'orgasmo così come nell'angoscia noi siamo nudi innanzi al reale: il simbolico in genere ci protegge, ma quando questo viene meno (come negli eventi catastrofici o nelle catastrofi della psiche) il soggetto scopre l'oscena e terrifica alterità del mondo. Non dobbiamo tuttavia pensare soltanto ad eventi estremi: per Lacan questa alterità "reale" la troviamo anche nel La donna dove l'articolo determinativo dovrebbe essere barrato. Incontro impossibile e mai avvenuto, alterità che congela l'uomo a un continuo tentativo di scrivere e riscrivere le tracce di un fallimento costitutivo.

Il processo di F. Kafka esemplifica molto bene il carattere ancipite dell'Altro: la legge con i suoi vischiosi villi burocratici rappresenta la norma e la normalità in cui tutti noi viviamo; ma questa medesima legge che incarna l'apice del processo della civilizzazione dell'uomo alfine dimostra dei caratteri aberranti e orripilanti, diviene una realtà escrementizia e mortifera contro cui il soggetto nulla può, se non soccombere con dignità.

Orbene, filosofia e psicologia si occupano entrambe di questo Altro, nella sua ambigua e doppia costituzione. Ma come se ne occupano? Dove vi rintracciamo una qualche divaricazione prospettica?

Se dovessimo tentare una generica definizione di filosofia, questa potrebbe basarsi sul concetto di auto-riflessione: si tratta di un metalinguaggio, di una riflessione sempre reiterata e senza fine che si rivolge al linguaggio. È linguaggio che tematizza ed oggettiva ulteriori linguaggi, e che si esprime nel linguaggio. Tralasciamo in questa sede una problematizzazione che ci porterebbe lontano e cioè - stando al noto aforisma di Lacan: "non esiste metalinguaggio" - all'incapacità di questo linguaggio che analizza se stesso di trovare quel Grund o fondamento esterno che gli possa consentire una riflessione efficace e libera da pregiudizi. Quello che ci interessa evidenziare è come la filosofia si occupi soltanto di un côté della faccenda, cioè di quel grande Altro che concerne i sistemi simbolici. Laddove invece c'è del reale - e quindi l'Altro levinassiano - ecco profilarsi l'impellenza della psicoterapia o della psicologia. È nel "faccia-a-faccia" con un'altra persona, nell'intreccio affettivo-emotivo di due vissuti reciprocamente "altri" e che non necessariamente si esprimono nel linguaggio, nell'abissalità che si cela dietro ogni Tu con il quale crediamo di appellare un nostro simile ma che invece scava una voragine in noi stessi: ecco in tutte queste circostanze la competenza o pratica filosofica serve a ben poco, mentre sono l'esercizio psicoterapeutico, il confronto emotivo e la costruzione di nuovi mondi interiori a prendere spazio e ad articolare quello che potremmo definire il "mistero" o con Lacan "quanto c'è di reale in un incontro" (cioè in Tyche: l'incontro-evento).

 

Ma allora: che cosa "fa" la filosofia?

Abbiamo ora qualche strumento in più per un criterio di demarcazione: la filosofia non si occupa del versante "reale" dell'Altro (versante osceno, dolente, angoscioso, potremmo dire freudianamente: unheimlich), mentre si occupa invece del linguaggio e dei giochi linguistici che vi si intrecciano. Ciò non significa che essa non si occupi dell'Altro tout court, ma se ne può occupare nella sua valenza di grande Altro, cioè in quanto articolazione dei grandi saperi che caratterizzano ogni epoca storica. Dobbiamo tuttavia approfondire questo passaggio e, precisamente: 1) caratterizzare meglio che cosa intendiamo per grande Altro al di là dell'esegesi lacaniana; 2) far affiorare i meccanismi euristici e "poietici" propri della filosofia e con i quali essa affronta appunto, more suo proprio, il grande Altro.

Riprendiamo allora la nozione di "normotipia", per dire che, per certi aspetti, il grande Altro si caratterizza come un fascio di normotipie. Ciò significa che il soggetto sociale è costitutivamente alienato in innumeri saperi, miti, riti sociali che parzialmente lo espropriano di una supposta egoità specifica: in altri termini, quando mi illudo d'aver consolidato una certa identità personale che utilizzo per riflettere su me stesso e che mi consente anche di "dire io" e, quindi, di distinguermi dagli altri, invero mi ritrovo attraversato da costellazioni di saperi e competenze che non mi appartengono e che mi inducono, anzi, ad agire secondo modalità che non sono propriamente il frutto d'una mia deliberazione volontaria. Ora, la questione insiste su d'un "potenziale patologico" di questi fasci o costellazioni normotipiche. Che cosa significa però una patologia a questo livello? E ci sono forse rapporti con la classica psicopatologia che tutti, più o meno bene,  abbiamo imparato a maneggiare?

La risposta che potremmo dare è che non si tratta d'una patologia come le altre, ma semmai - problematicamente - d'una patologia del senso. Per chiarire meglio questo concetto dobbiamo necessariamente ricorrere a qualche esempio. Tralasciando il fenomeno del nazismo sul quale ci siamo già brevemente soffermati, emerge nella sua rilevanza problematica il fenomeno solo apparentemente antinomico dello stalinismo. Nella Russia dei primi del Novecento, dopo la rivoluzione leninista in cui si assistette a un vero e proprio "cataclisma del senso" (nuovi ordini di cose, di idee, di valori), il passaggio all'ordine staliniano segnò una sorta di impasse del senso normotipico. L'orizzonte normativo dell'URSS tese vieppiù a occludersi e a - diciamo noi - integralizzarsi, cioè a escludere qualsiasi evenienza esterna, e ad "autoreferenzializzarsi" attraverso un burocratismo parossistico. La "norma", rispetto qualunque campo disciplinare ci riferiamo: fisica, filosofia, filosofia, linguistica, arte, etc., era allora impellente e cogente, cioè forniva l'orizzonte "rispetto a cui" qualsiasi esperienza di vita si articolava. Detta più semplicemente, la macchina staliniana (diciamo "macchina" riferendoci al lessico oltremodo significativo di Deleuze-Guattari) si era trasformata nella "realtà" del popolo sovietico, era la reificazione dell'utopia marxiana, cioè un'Astrazione che prendeva corpo, che iniziava ad agire nell'esistenza delle persone e che, soprattutto, diveniva, in questo, "efficace".

Un decorso analogo lo stiamo riscontrando nel cosiddetto "tardocapitalismo", cioè nell'epoca che stiamo vivendo e che sussume in sé il postmoderno con il suo processo di de-soggettivazione e di indebolimendo dei presupposti culturali dell'Occidente, il consumismo quale esito del capitalismo avanzato nella sua versione sempre più "globalizzata" e l'"immaterialismo", quale processo che sta portando alla "smaterializzazione" delle merci e, di conseguenza, alla mercificazione dei sentimenti, delle emozioni, delle esperienze.

Dal nostro punto di vista questi decorsi sono stati e sono "patologici" nella misura in cui configurano un andamento tendenzialmente psicotico. Intendiamo qui per "psicosi" - e ci scusino i clinici cosiccome gli psichiatri - ciò che intendeva Lacan con tale classificazione nosologica nel suo terzo seminario, cioè la prossimità eccessiva (che si spinge sin quasi all'identificazione) di simbolico e reale: nell'epoca contemporanea non ci sono più confini netti tra questi due livelli e l'Altro a due facce si trasforma paradossalmente in un mostro reale, cio nell'Altro kafkiano, tanto deumanizzato, quanto opprimente e ossessivo.

Il campo filosofico è dunque il campo della "patologia del senso normotipico", cioè la filosofia, nell'epoca del tardocapitalismo, assolve il compito d'occuparsi dei grandi decorsi di senso, i  quali spesso svelano degli aspetti sinistri, difficilmente valutabili dai soggetti che vivono direttamente coinvolti in una determinata "situazione" storica (scriviamo "compito" perché questo destino dipende da ulteriori costruzioni di senso, e da altre ancora: ma è un'altra storia). Non si tratta della funzione della filosofia in assoluto, ma della funzione che la filosofia è tenuta ad assumersi in quest'epoca o epoché (per dirla à la Heidegger): nella pólis greca essa fu terapeutica, nella patristica "teologica", nel Rinascimento "esoterica", nell'epoca classica "razionalistica" e "vicaria della scienza", nel Sessantotto è stata "rivoluzionaria" e "desiderante". Oggi essa assolve tutt'altra funzione, cosiccome l'arte contemporanea, che non è certo ancora sovrapponibile all'arte ellenistica, all'arte medioevale o all'arte controriformistica.  

Ma con quali strumenti allora la filosofia può svolgere tale compito? Possono essere forse gli strumenti della "consulenza filosofica" che attualmente si sta proponendo come uno strano allotropo psicoterapeutico? E tale compito può essere davvero "professionalizzabile", ossia può  trasmutarsi in una vera e propria professione (e tralasciamo qui ogni aggancio alla "genealogia della professione" di M. Weber che ci mostrerebbe come la "professione" in se stessa sia figlia dell'etica protestante e di un certo decorso del capitalismo)?

Deleuze-Guattari nell'ultimo loro lavoro à deux (Che cos'è la filosofia, 1991) affermavano che la filosofia è creazione di concetti. Senza addentrarci nei complessi meandri del pensiero dei due filosofi francesi, anche noi crediamo che la filosofia debba occuparsi delle patologie del senso normotipico non come la "critica dell'ideologia" francofortese (Adorno, Horkheimer, Habermas) e nemmeno come il decostruzionismo derridiano - sebbene tali atteggiamenti filosofici possano costituire effettivamente delle metodiche utili per un'azione concettuale invero più ampia - bensì nel senso di un'introduzione o "intrusione" continua nell'orizzonte normotipico di nova di senso. Il télos filosofico contemporaneo è quello di scardinare le concettualità vigenti attraverso l'infiltrazione di concettualità "eretiche" e disseminanti, quali "ipotesi" in vista di sempre nuove (e sempre inficiabili) Weltanschuaungen e orizzonti esistenziali collettivi, in un contesto "liquido" (e quindi continuamente cangiante, rischioso e instabile, come osservano  U. Beck e Z. Baumann).

La professionalizzazione significa invece abdicare completamente alla normotipia tardocapitalistica, cioè iniziare un servaggio nei confronti di quella macchina che - riducendo ogni cosa a valore di mercato - finirebbe per spegnere anche l'ultimo anelito "rivoluzionario" del senso. La filosofia ha  questa strana caratteristica d'esser stata, per molti secoli della sua storia, assolutamente inutile, ossia out of joint, slegata da qualsiasi struttura funzionale: pura auto-riflessione assolutamente "teorica" e sempre destinata allo scacco, in quanto vano tentativo di rendere ragione (reddere rationem) a se stessa e anelito di un'auto-fondazione impossibile.

Si sta quindi svelando a poco a poco quello che potrebbe essere il criterio di demarcazione ricercato: lo abbiamo sondato non confrontando vis à vis psicologia e filosofia, per stabilirne semplicisticamente i confini disciplinari, ma sforzando al suo interno la filosofia stessa, valutando di conseguenza la compatibilità di una sua "funzionalizzazione" o "professionalizzazione" di tipo terapeutico e clinico rispetto alla sua vocazione costitutiva e originaria. In effetti, proprio in un decorso similare - che iniziamo forse ad intravvedere nell'attuale "consulenza filosofica", nell'utilizzo della filosofia quale skill aggiuntivo all'interno delle dinamiche manageriali, nella sua "spettacolarizzazione" dei vari "festival della filosofia" o dei talk show - il rischio della sempre evitata "morte della filosofia" sembra profilarsi mai con tale serietà. Forse, in questa tendenza, il tardocapitalismo in quanto normotipia sembra prendere il sopravvento "funzionalizzando" anche quel minimum di afunzionale che era rimasto. Ma questo è il gioco e noi, in fondo, lo sappiamo...