Verso di Lei

di

Rita Torti

(Scrittrice, studiosa di tematiche di genere)

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A proposito di liturgia del quotidiano. Tommaso ha sette anni; un giorno, tornando da scuola, chiede a bruciapelo: «Mamma, perché Dio è maschio?». Quando la mamma in questione me l’ha raccontato ho pensato che, così formulata, la domanda squarciava il pesante drappo che solitamente soffoca il tema dell’immaginario sessuale su Dio, e metteva fuori gioco qualunque persona adulta che pensasse di rispondere con qualche frase di circostanza[1].

 

Egli è Dio

Tommaso non chiede se Dio è maschio o femmina: sa che è maschio. Qualcuno deve averglielo detto, anche se è probabile che non abbia ricevuto un insegnamento diretto in questo senso, che non sia ma stato nella Cappella Sistina e che in generale la sua esposizione alle raffigurazioni divine di vecchi barbuti sia stata prossima allo zero. E dunque?

Dunque, ha ascoltato. Ha ascoltato tante e tante volte «Dio è buono, Dio è padre, Lui ti ama, è il creatore…», e correttamente ha dedotto, e immaginato: quando disegnerà, molto probabilmente disegnerà un maschio. Si fa tanta fatica, a volte, a convincere persone anche di una certa cultura riguardo alla potenza performativa del linguaggio, a far passare il concetto che la sociolinguistica non è pura fantasia, e che dire, parlando di una donna, il notaio invece che la notaia, il presidente invece che la presidente, il ministro invece che la ministra, significa e riflette delle cose e altre ne induce… Ecco, forse basterebbe fare questo esempio: guarda cosa succede a un bambino a forza di parlargli sempre di Dio al maschile.

Tornando alla domanda. Immaginandoci accanto a Tommaso sulla strada verso casa, da bravi cristiani moderni e istruiti risponderemo: «ma no, Dio non è né maschio né femmina». La cosa forse non lo toccherà forse più di tanto, perché ormai l’immagine interiore è fatta e finita, ma se recepisce ci chiederà: «Allora perché dici sempre “lui”?». Già. Perché?

Potrebbe chiederlo anche al Catechismo della Chiesa Cattolica, in cui (n. 239) leggiamo, è vero, che «Dio trascende la distinzione umana dei sessi», ma per chiarire il concetto, proprio lì di seguito, a una virgola di distanza, spiega: «Egli non è né uomo né donna, egli è Dio». Nessun bambino a questo punto si rassegnerebbe: la nostra logica zoppica troppo, il bambino vuole vederci chiaro. Ma su questo noi chiari non lo siamo, forse perché la questione, se sollevata, rischia di mettere a soqquadro qualcosa di molto profondo e molto pratico insieme. Quindi, ad esplicita domanda rispondiamo diligentemente “né maschio né femmina”, ma poi se c’è da usare un pronome diciamo “egli”.

E non soltanto diciamo, passiamo ai fatti; lo sa bene Anna, un paio d’anni più grande di Tommaso, che un giorno in parrocchia ha chiesto al catechista: “Posso disegnare Dio con la gonna?”, e ha ricevuto un secco e perentorio no.

 

No, perché?

Cosa c’è dentro questo “no” del catechista, il quale – inutile negarlo – ha fatto quello che altri nella stessa situazione avrebbero fatto (o sarebbero stati tentati di fare)? Perché troviamo strano – pericoloso, si direbbe, o peccaminoso, poiché addirittura lo vietiamo – mettere a Dio una gonna, mentre la barba è ammessa? Come mai non ci fa problema che Dio sia maschio, ma femmina sì?

Sono le domande che potrebbe fare Anna una volta passata la rabbia furibonda con cui è tornata dalla parrocchia. E cosa rispondere?

Dire che è la Bibbia a insegnarci questo “non si può”, perché sappiamo che la Scrittura, in particolare nel Primo Testamento, parla dell’Ineffabile con immagini umane maschili e femminili articolate e plurali al loro interno; e poi anche con orse e aquile, rocce e fortezze[2].

A voler usare un po’ di onestà, quindi, dovremmo ammettere che c’è dell’altro. Se Dio trascende la distinzione sessuale, ciò che noi riteniamo opportuno o non opportuno nella sua rappresentazione ha a che fare con il significato che diamo all’essere maschi e femmine: un significato che evidentemente attribuisce ai primi una maggiore adeguatezza a rappresentare Dio.

Per il passato non c’è da sorprendersi: in una cultura che riteneva il maschio l’umano compiuto e la femmina un essere imperfetto, un mas occasionatus, nessuno che volesse onorare Dio avrebbe potuto immaginare, nemmeno con la cautela dell’analogia, un volto femminile. Nessuno, tranne chi avesse delle donne un’idea differente – e qualche testimonianza, di donne appunto, l’abbiamo, sopravvissuta alla desertificazione della memoria.

Ma oggi? Diciamo di avere finalmente capito ciò che la fede di Israele, pure in un contesto patriarcale, aveva intuito con il «creò l’adam a sua immagine…  maschio e femmina li creò»; eppure Dio resta “Egli”.

Eredità di secoli, certo, ma un’eredità mantenuta viva da relazioni sia intime che sociali abitate da molte mancanze rispetto a un reale riconoscimento della soggettività femminile. Una resistenza al “due”, in forza della quale il maschile si maschera da neutro; cosicché dire “Lei” appare come un’indebita sessuazione di Dio, mentre “Lui” sarebbe immune da questo rischio: un non-senso ancora così interiorizzato che la maggior parte delle persone non l’avverte, anche se ne sperimenta gli effetti.

Avremmo già molto da pensare e da fare, dunque, rispetto a questo: è inutile nascondersi che – essendo ogni nostra relazione fra umani sempre e comunque sessuata, tanto più la maschilità attribuita a Dio agisce sulla diversa collocazione, rispetto a “Lui”, di uomini e donne – ad esempio nella troppa differenza in cui si trovano le une e nella troppa somiglianza in cui si trovano gli altri, così come nella forma della relazione d’amore con Dio, e prima ancora nel senso profondo di sé che se ne ricava. Per non aprire tutto il capitolo dei risvolti sociali della simbolica religiosa.

Ma l’impressione è che, invece di lavorare su questo, ci sia chi si adopera piuttosto per rafforzare la legittimità del “Lui”, e che sul procedere di costoro non vengano sollevate particolari obiezioni – anzi si manifesti un certo sostegno – da parte di chi nella Chiesa ha più autorità e più possibilità di definire o suggerire cosa è bene e cosa non lo è, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non troviamo quasi più disquisizioni su Dio maschio-Dio femmina, forse perché il discorso “Dio è superiore alle creature, quindi è meglio dargli il volto della parte di umanità che nell’ordine della creazione è superiore all’altra” magari a qualcuno piacerà anche, ma risulta impresentabile. Troviamo invece, e con abbondanza, una declinazione dell’immaginario sessuale su Dio in termini di “costellazioni familiari”: vale a dire, il discorso sulla paternità-maternità di Dio.

Può sembrare che lo spostamento vada nella direzione di una minore fissità rispetto al periodo delle “essenze”, e così potrebbe in effetti essere; dipende però da come si maneggiano le parole e da cosa contengono. E’ da vedere, cioè, non solo se il lessico della genitorialità apra a una connotazione meno maschile di Dio, ma anche cosa esso dica della famiglia terrena, e come immagini di questo tipo influiscano, se recepite, sulla sua vita e sulla vita della società di cui la famiglia è “cellula fondamentale”.

 

Ancora Lui

Vediamo, dunque. «Chiamando Dio con il nome di Padre – è sempre il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 239 - il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli».

E la madre? Di seguito: «Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura».

L’idea è chiara, e così l’asimmetria: chiamiamo Dio “Padre” perché ha delle caratteristiche che sono proprie della paternità (la quale, dato il contesto, va considerata inscindibile dalla maschilità); poi, come padre, ha delle caratteristiche che si possono evidenziare usando “immagini materne”. E a scanso di equivoci, a sancire che la maternità è solo un’immagine, un accessorio, un’aggiunta al concetto di fondo, che può facilmente essere omessa, il Catechismo conclude: «Dio… trascende (…) la paternità e la maternità umane, pur essendone l’origine e il modello: nessuno è padre quanto Dio».

Prima che Tommaso e Anna tornino ad incalzarci - li abbiamo mandati un attimo a giocare – certe domande è bene che ce poniamo. Ad esempio: perché il primo gruppo di caratteristiche è tanto più importante del secondo da consentire la figurazione di Dio come Padre materno, mentre è esclusa quella di Madre paterna? In che modo le caratteristiche attribuite al padre sono in quanto tali propriamente maschili? Perché si ricorre alle immagini materne per specifici aspetti (la cura, la vicinanza) e non per altri? In altre parole: come arriviamo a dire che il padre, e non la madre, indica «origine primaria di tutto e autorità trascendente»? E che la madre meglio del padre indica «l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura»?.

Sono domande rilevanti, da una parte perché il Catechismo è sotto questo aspetto rappresentativo di un pensare che ritorna in innumerevoli discorsi, predicazioni, documenti ufficiali, testi divulgativi, dépliant di convegni ecclesiali; e dall’altra perché fissa – e ipostatizza nel divino – un preciso modello di famiglia, di relazioni, di senso di sé e dell’altra/altro che ha un chiaro corrispettivo nella retorica della famiglia ottocentesca borghese, ma non corrisponde a ciò che oggi vivono o desiderano, umanamente e cristianamente, molti padri e madri credenti. E siccome – sempre il Catechismo – «il linguaggio della fede si rifà (…) all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio», un’esperienza che cambia non potrà lasciare immutato il significato e l’esclusività dell’immagine paterna di Dio.

 

C’era una volta… e c’è adesso

Un primo passo potrebbe essere quello di guardare con un po’ di disincanto ciò che è evidentemente passato, riconoscendolo come tale.

A esempio. Una volta che si è accertato – e non è da ieri, e comunque già una parte degli antichi lo sospettava – che ogni nuova vita è concepita con l’uguale contributo genetico di uomo e donna (e semmai quest’ultima ci mette anche molto altro e di più), come è possibile che per noi il simbolo massimo ed esclusivo dell’«origine primaria di tutto» sia il padre, esattamente come ai tempi in cui il maschio con il suo sperma era l’unico fattore vitale, e la femmina invece ricettacolo passivo, incubatrice, forno per il pane?

Sempre come esempio. Da tempo, studiando i differenti processi di individuazione di bambini e bambine, si è compreso che i maschi tendono a sentirsi più sicuri nella distanza, perché temono il ritorno alla madre – da cui hanno dovuto separarsi opponendosi – come minaccia per la propria identità profonda; questo non accade alle femmine, che sperimentano invece una separazione nella somiglianza (ma non per questo diventano individui adulti meno autonomi o meno capaci di scelte e di responsabilità). Si dovrà pur riconsiderare, allora, quest’idea della trascendenza, che ha tutta l’aria di essere una proiezione sull’immagine divina della necessità del “padre” come terzo che separa, impedisce l’abbraccio fusionale (più precisamente, percepito come tale) della madre e apre il figlio al mondo, terreno e ultraterreno: potrà forse rispondere a un bisogno maschile (o di uomini allevati in un certo modo e in certe  condizioni), ma difficilmente intercetta l’esperienza delle donne, e anzi le priva di qualcosa di importante per la loro vita di fede.

 

Tale Dio, tale famiglia. O viceversa?

Leggendo un significativo numero di pubblicazioni che circolano negli ultimi anni sorge però un dubbio: che fluidificare quell’immagine maschile/paterna di Dio non sia fra le priorità di alcuni settori importanti della Chiesa. Al contrario, l’impressione è che serva mantenerla salda e granitica, senza problematizzarla: non tanto per la crescita nella fede – fosse anche la sola fede degli uomini –, ma come argine di fronte a processi sociali che per vari motivi mettono in allarme o incutono timore. E’ il caso ad esempio dell’opposizione attiva alla decostruzione degli stereotipi di genere, o della difficoltà ad accettare i nuovi modelli di paternità che stanno iniziando a diffondersi, così come a recepire le esigenze di riformulazione degli equilibri e dei ruoli familiari che da tempo molte donne pongono come questione indifferibile (anche se poi, educate all’oblatività e al sacrificio, differiscono; e soccombono).

In vari modi, cioè, quando emergono questi temi, il riferimento a Dio che è Padre è usato per mettere in guardia rispetto a cambiamenti che a molte donne e molti uomini credenti, nutriti anche dalla parola di Dio, sembrano invece andare nella linea di una maggiore dignità e realizzazione dell’umano e di più giuste, amorevoli, liberanti e pacificate relazioni tra i sessi.

Questo è un problema serio che si deve affrontare, anche se non sarà né facile né breve.

Al momento, però, abbiamo da affrontare Tommaso e Anna.

Sarebbe interessante vedere i loro visi mentre spieghiamo che Dio non è né maschio né femmina, ma è meglio chiamarlo al maschile e comunque mai disegnarlo che sembri una femmina. Che se Tommaso sarà papà sarà il simbolo di Dio per i figli perché ha dato loro la vita e li guida; anche la mamma, certo, quando la senti vicinissima e tenerissima – come sarà/dovrà essere Anna, perché le donne sono così – ma Tommaso di più, e se sarà tenero quasi quasi si può far senza la mamma. Che anzi, occorre fare attenzione e non stare troppo appiccicati a lei, altrimenti non si diventa grandi. E che è anche per questo che Dio è meglio chiamarlo “Egli”.

Sarebbe anche interessante vedere i nostri, di visi, mentre dicendo tutto questo pensiamo che in realtà ci piacerebbe anche anche educare giovani uomini per i quali la mascolinità non sia sinonimo di superiorità, di invulnerabilità, di sovrano equilibrio e distacco (tre cose impossibili messe a fondamento della costruzione del maschile occidentale…); e che vorremmo allevare giovani donne senza complessi di inferiorità, non imprigionate dallo stereotipo della passività e dell’accoglienza, che esplorano e governano il mondo insieme agli uomini, che non subiscono le ingiustizie e le limitazioni ai loro talenti  in nome di una malintesa pazienza, e non tollerano quelle inflitte alle loro sorelle in ogni parte del pianeta; che portano la loro parola e il loro pensiero al mondo. Ma per veder nascere questi uomini e queste donne forse certa teologia non ci aiuta molto.

 

Sfiniti, ci sediamo sui gradini con Anna e Tommaso. Che siano loro a raccontarci di Dio. Qualcosa di nuovo, attraverso il loro sguardo sghembo e luminoso, irriverente e incantato, la Santa Sapienza sicuramente riuscirà a insegnarcelo. E sarà una benedizione per tutte e per tutti.

NOTE

[1] Ho usato le parole di Tommaso come titolo di una ricerca sulla differenza di genere nelle relazioni educative, in cui metto a confronto pratiche educative, messaggi sociali e apprendimenti sul genere legati alla trasmissione della fede partendo da una cospicua raccolta di disegni e testi di bambine e bambini, questionari a insegnanti e genitori,  analisi di libri di religione, di una rivista per la formazione dei giovani e del dibattito sulla coeducazione in Agesci: Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenza di genere, Effatà, Cantalupa 2013.

[2] Su questo, e in generale per un discorso scientifico ma accessibile sulle questioni che accenno in questo articolo, sia dal punto di vista teologico che per alcuni aspetti di quello socio-antropologico, si veda Elizabeth Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999 e Vera nostra sorella. Una teologia di Maria nella comunione dei santi, Queriniana, Brescia 2005 (soprattutto la prima e seconda parte), che costituisce un punto di riferimento per la vasta letteratura che si è sviluppata sul tema.