In margine alle dimissioni di Benedetto XVI: alcuni spunti per una riflessione

L’atto di Benedetto XVI di lasciare il ministero papale è certamente del tutto inconsueto nella tradizione del papato moderno. Giunto perciò inaspettato, ha variamente creato sconcerto, stupore, disagio, rammarico, non solo nel contesto ecclesiale; e ciò quanto più percorsa da tensioni e scandali è attualmente la condizione della Chiesa cattolica e della curia in particolare.

Resta incerto quale sarà la portata di un tale atto nelle vicende future della Chiesa, se e quali cambiamenti potrà produrre; come restano incerte, per non dire oscure, le sue motivazioni di fondo: tutto si può supporre (come è largamente successo in queste settimane nei più diversi organi di stampa), poco o nulla dire con certezza. Anche alla luce dei suoi discorsi di questi giorni mi pare una forzatura riferirsi a tale atto come espressione di una sua ipotetica presa di distanze da quelle posizioni conservatrici e filo-tradizionaliste che per tanti aspetti hanno caratterizzato i suoi anni di pontificato. Meno che mai dunque penso si possa definirlo “un gesto rivoluzionario e profetico”; anche ogni altra aggettivazione, cui si è largamente ricorso nel darne conto, appare del resto, per quelle che sono oggi le nostre conoscenze, poco proponibile.

Allo stato attuale due elementi mi sembrano chiari, vorrei dire incontrovertibili. L’atto delle dimissioni in quanto tale “desacralizza”, riporta a una dimensione umana, la persona che svolge il ministero papale. Non è un fatto da poco. Sembra difficile infatti che un atto del genere potesse venir ritenuto possibile da chi parlava del papa come di un “quasi Deus in terris”, o lo definiva “vicario di Gesù Cristo in terra, anzi lo stesso Gesù Cristo vivente nella Chiesa”, o affermava che il papa “rappresenta Dio stesso”. Esempi di questo genere sono moltiplicabili fino ai nostri giorni. Rientrano in quella “mistica dell’ultramontanismo”, come l’ha definita il padre Tillard, tipica della cultura intransigente, che fa della figura del papa “più che un papa”. Peraltro, penso si debba aggiungere, l’umanizzazione della persona che ricopre quell’ufficio non comporta di per sé una revisione delle prerogative di cui via via l’ufficio stesso è stato caricato. E dunque non mi pare possibile dire se la decisione di Benedetto XVI potrà avere delle ricadute sul ruolo del papa nella Chiesa.

Il secondo elemento riguarda il contesto in cui la decisione è stata presa: è una decisione infatti che segna l’interruzione brusca di iniziative non irrilevanti pienamente in corso. In particolare Benedetto XVI aveva in preparazione un’enciclica sulla fede, da pubblicare appunto nel corso dell’“anno della fede”. Se un testo su questo tema vedrà in futuro la luce, non sarà più certamente un’enciclica. Non si tratta di un cambiamento di poco conto, chiaramente non previsto quando la stesura del testo era cominciata. Una tale interruzione suggerisce dunque il determinarsi di un “fatto” improvviso che ha indotto a quella decisione; ma ancora una volta sulla natura di tale “fatto” solo ipotesi più o meno fondate sono formulabili al riguardo.   

          Elementi più fondati, non per chiarire il perché delle dimissioni ma per cogliere l’ottica con cui Benedetto guarda ai problemi e agli orientamenti anche futuri della Chiesa, e dunque anche alla linea che il suo successore dovrebbe essere chiamato a seguire, offrono i suoi interventi di queste ultime settimane. Particolarmente importante per la concretezza delle sue determinazioni mi sembra il discorso tenuto giovedì 14 febbraio nel corso del suo incontro con i parroci e il clero di Roma, un discorso cui generalmente la stampa ha dato, se non vado errato, scarso rilievo. Tra le poche eccezioni ricorderei un rimarchevole intervento di Raniero La Valle sul “Manifesto” del 17 febbraio su cui ritornerò e un lungo articolo di Vittorio Messori sul “Corriere della sera” di domenica 24 febbraio che oltre a magnificare i caratteri del discorso aggiunge di suo qualche singolare “fraintendimento” e notizie prive di ogni riscontro.

    Il discorso ha riguardato il concilio Vaticano II: “una piccola chiacchierata”, come l’ha definita il papa, “sul concilio Vaticano II come io l’ho visto”. La definizione è del tutto minimalista. Nel suo intervento, lungo e articolato, Benedetto ripropone infatti le sue idee di fondo sul concilio e sulle ragioni della crisi scoppiata nella Chiesa all’indomani della sua chiusura; e nello stesso tempo profila anche, implicitamente, la strada che secondo lui andrebbe battuta per lasciarsela definitivamente alle spalle. Non mi è possibile in questa sede analizzarlo nel dettaglio. Mi limiterò perciò a rilevarne alcuni aspetti soltanto.

Un primo elemento salta immediatamente agli occhi. Nell’illustrazione dello svolgimento del concilio, pur colto nelle sue principali tappe, è del tutto assente il discorso introduttivo di Giovanni XXIII. Non è un’assenza da poco: perché con quel discorso Giovanni aveva indicato al concilio non il programma dei suoi lavori ma le linee maestre cui doveva ispirarsi: in particolare, rispetto al mondo e alla storia, esprimendo il suo netto dissenso verso “i profeti di sventura”, che nei tempi moderni vedono solo prevaricazione e rovina; richiamando la necessità di distinguere tra la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e le formulazioni del suo rivestimento (ne risultava implicita la riproposizione del cruciale problema, già discusso negli anni del modernismo, di un’inculturazione della fede non statica, non fissata e definita una volta per tutte); e infine proclamando la scelta della “medicina della misericordia” in luogo delle condanne e della severità, con esplicite aperture, allora inconsuete, verso le Chiese e le comunità cristiane separate. Erano linee, si sa, assai lontane dagli orientamenti dominanti nei documenti preparatori, predisposti sotto l’influenza prevalente dei teologi di curia. Non a caso quei documenti furono respinti pressoché in blocco nel corso dei lavori conciliari.

Di tutto questo Benedetto non fa parola. Giovanni figura soltanto, protagonista non particolarmente brillante, in un aneddoto con cui egli apre la sua “chiacchierata” e sul quale merita brevemente soffermarsi. Nel corso del 1961, secondo il racconto di Benedetto, il cardinale Frings aveva partecipato ad un ciclo di incontri sul futuro concilio, organizzato a Genova dal cardinale Siri, con una relazione sul rapporto tra il concilio e il pensiero moderno (gli era stata scritta dallo stesso Ratzinger, divenuto poi suo teologo di fiducia e perito conciliare). Invitato poco dopo dal papa, il cardinale sarebbe andato all’appuntamento tutto timoroso di essere rimproverato o addirittura deposto (!?) per aver detto cose che potevano essere spiaciute al pontefice. Nulla di tutto questo. Giovanni gli sarebbe andato incontro e abbracciandolo gli avrebbe detto: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”.

Lusinghiero per Frings/Ratzinger, un tale riconoscimento non lo era certo per Giovanni: un riconoscimento che peraltro suona assai poco ovvio nella bocca di chi su quel concilio stava dicendo e dirà parole non scontate. Poteva essere tuttavia espressione di un amabile complimento da parte del papa. Sia come sia, insinuava comunque l’idea che rispetto al concilio Giovanni aveva le stesse idee di Frings/Ratzinger. Senonché tutto l’insieme sembra contraddetto da quanto Giovanni scrive nella sua “agenda” sotto la data del 17 novembre 1961 (è il giorno in cui si era chiusa un sessione della commissione centrale del concilio): di aver ricevuto cioè tra gli altri il cardinale Frings, “che mi diede il suo discorso preparato per Genova” . Dal momento che il discorso verrà pubblicato solo l’anno successivo, e che Giovanni, a stare al testo dell’“agenda”, pare riceverlo solo in quel momento per mano dello stesso cardinale, sembra difficile pensare che egli possa aver accolto Frings con le parole che Ratzinger gli attribuisce. Non sembra l’unica falla nella memoria di Benedetto.

Nella sua ricostruzione dello svolgimento del concilio egli è ricco di dettagli e di riferimenti. Ricorda gli entusiasmi e la grandi aspettative dell’inizio. Si dimentica però di dire che tutti gli schemi preparatori, se si eccettua quello sulla liturgia, erano caduti nel corso dei lavori, ma non nasconde momenti di tensione, come quando, il giorno stesso dell’apertura del concilio, su iniziativa dei cardinali Liénart e Frings, i padri si rifiutarono di votare le liste già predisposte dei candidati che dovevano far parte delle diverse commissioni, per poterne predisporre altre per proprio conto. “Non era un atto rivoluzionario”, si affretta a precisare Benedetto, “ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari”. Più avanti comunque non esiterà a parlare di liti, di battaglie, di conflitti intorno all’una o all’altra questione, sempre o quasi tuttavia risolte per il meglio.

In genere egli sottolinea l’importanza dei temi discussi nel concilio, dei testi che ne furono il frutto. Non manca però di lasciar trasparire anche perplessità e critiche già espresse da tempo: così su alcuni esiti della riforma liturgica o sulla persistenza, tra gli esegeti, della pretesa di voler leggere la Scrittura “fuori dalla Chiesa”, rivendicando l’autonomia del metodo storico-critico. Né si nasconde la necessità di approfondimenti, come ad esempio per ciò che riguarda il dialogo con le  altre religioni da parte di una Chiesa depositaria, essa, dell’“unicità della rivelazione di Dio”, dell’“unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo”, non senza aver precedentemente ribadito che “non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema”. Quanto all’ecumenismo, appena accennato, ribadisce quanto aveva detto da tempo, che cioè “solo Dio può dare l’unità”, con un almeno apparente totale depotenziamento dell’iniziativa degli uomini.

Ma il nucleo forte della sua esposizione, che chiarisce insieme l’ottica con cui egli guarda alle modalità con cui l’eredità del concilio dovrà operare in futuro nella Chiesa, sta nella parte finale della sua “chiacchierata”, dove contrappone il concilio dei padri, tutto svolto sotto il segno della fede, al concilio dei giornalisti e dei media: “mentre tutto il Concilio […] si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva più confacente con il loro mondo”. E dunque decentralizzazione, con più potere ai vescovi; potere al popolo, ai laici (“sovranità popolare”) ricorrendo alla formula “Popolo di Dio”. E ancora la liturgia, non come atto di fede, “ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana”, dove ogni sacralità è abbandonata. Benedetto è durissimo: “Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della riforma liturgica”. Va ricordato che proprio negli aspetti considerati arbitrari assunti dall’applicazione della riforma liturgica Ratzinger aveva indicato le ragioni di fondo della ribellione di mons. Lefebvre, minimizzando così, per non dire rimuovendo, le motivazioni teologiche e dottrinali che l’avevano mosso.

Al “Concilio dei media” vanno attribuite secondo Benedetto tutte le crisi e le difficoltà che hanno colpito la Chiesa: “Sappiamo come questo Concilio fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari, chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata…e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale”. La conclusione tuttavia, per Benedetto, deve essere ottimistica e apre prospettive precise: la forza del vero Concilio è presente, il Concilio virtuale si sta rompendo e perdendo, e “appare il vero Concilio, con tutta la sua forza spirituale”. Il compito attuale dunque è lavorare perché il “vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo” si realizzi “e sia realmente rinnovata la Chiesa”.

Sta qui il succo del suo discorso e il lascito che Benedetto lascia in primo luogo al suo successore: il concilio, sfrondato di tutto ciò che i media gli hanno a torto attribuito, come bussola e punto di riferimento per il futuro.

Per cercare di cogliere la portata e la direzione di marcia di una tale prospettiva è inevitabile porsi alcune domande preliminari: quale fondamento storico ha la ricostruzione che Benedetto offre dello svolgimento del concilio, quale consistenza presenta quella drastica contrapposizione tra il lavoro dei padri, condotto alla luce della fede, e le forzature e le deformazioni dei giornalisti, mossi da altre premesse e finalità? E infine quale concilio risulta da tale contrapposizione?

Già Raniero La Valle, nell’intervento che ho ricordato, ha rilevato la totale inconsistenza del giudizio formulato da Benedetto sui “giornalisti” che hanno lavorato e scritto intorno al concilio, tra i quali “c’erano uomini di grandissima fede” (da Laurentin  a Congar a Grooters a Fesquet a Nobécourt a Svidercoschi, che diverrà vicedirettore dell’ “Osservatore Romano”, e l’elenco potrebbe continuare). È  quanto mai significativo del resto, a segnare la correttezza delle cronache che vi figuravano, che l’“Avvenire d’Italia”, diretto allora da Raniero La Valle, venisse inviato a spese della Santa Sede a tutti i padri per l’intero corso del  concilio.

Non meno  insussistente è la contrapposizione tra i due Concili proposta da Benedetto. Non a torto La Valle precisa che il rischio che si creassero due Concili, uno dei padri e uno dei media,  c’era effettivamente stato: «ma questo era il progetto della Chiesa preconciliare, che aveva creduto di nascondere il Concilio chiudendone le porte e decretandone il segreto, lasciando ai giornali la sola via dello “scoop”; ma questo finì subito, all’inizio della seconda sessione, quando il segreto fu rotto e il Concilio irruppe nella coscienza dei fedeli […]», ma non certo nei termini e con le deformazioni che Benedetto suggerisce.

Non si tratta però solo di questo. Perché è il quadro stesso del concilio, del suo clima, delle sue discussioni e contrapposizioni, quale viene offerto da Benedetto, che fa acqua da molte parti. Perché egli oblitera del tutto la radicalità del rifiuto con cui le prospettive per la Chiesa che nel concilio venivano affacciandosi erano state combattute da una agguerrita minoranza in nome della Tradizione e di quella “Chiesa di sempre” che i padri della maggioranza erano accusati di voler stravolgere se non addirittura distruggere. Non è un caso, né un’indebita forzatura, che il fantasma del modernismo si sia prepotentemente riaffacciato nelle discussioni e nei commenti di quegli anni, perché era ancora con i problemi che la sua condanna aveva lasciato irrisolti che il concilio era chiamato a misurarsi. La grande questione del rapporto della Chiesa con la storia, dei condizionamenti che la storia aveva via via espresso e rappresentato nel costruirsi stesso della Chiesa come nelle formulazioni della fede e nel modo stesso di proporla e di viverla resta del tutto assente nella ricostruzione di Benedetto.

 Non era solo in colloqui privati ma in scritti pubblicati a concilio in corso che mons. Lefebvre vedeva nelle discussioni conciliari una “fase della lotta del  Principe di questo mondo contro la Chiesa di Nostro Signore”, e scriveva della collegialità e dell’“inconcepibile schema” sulla libertà religiosa come dei due “cavalli di Troia” con cui si vuole distruggere la Chiesa, denunciando negli obiettivi perseguiti dai novatori la presenza delle “tesi sostenute dai protestanti e dai comunisti”. Non era  solo Lefebvre a pensare e parlare così. L’ombra del complotto modernista, la presenza di “mani tenebrose” che mirano alla sovversione della Chiesa costituiscono temi fondanti dell’opposizione conciliare. Era un cardinale del peso di Giuseppe Siri che consigliava Paolo VI di chiudere quanto prima il concilio, “perché l’aria del concilio fa male”; e giudizi più o meno simili circolavano largamente negli ambienti della curia e tra i padri della minoranza.

È dunque anche alla luce della violenza di tale opposizione che vanno misurate e colte quelle prospettive reali di “svolta” profonda che negli obiettivi della maggioranza venivano delineandosi per la Chiesa. La storia degli anni successivi è la storia della loro lenta rimozione e accantonamento, attraverso una lettura minimalistica di ciò che nel concilio era stato detto e fatto. Ma è anche la storia della sistematica repressione di tante iniziative che ispirandosi al concilio miravano a proporre e a battere strade e modalità nuove di presenza cristiana: dalla pesante “normalizzazione” operata nei confronti della Chiesa olandese, alle condanne portate contro la teologia della liberazione in America latina, al commissariamento della Compagnia di Gesù. E forse bisognerà anche cominciare a chiedersi se la crisi che ha colpito allora tanti settori e ambienti della Chiesa non sia dovuta anche alla mancata realizzazione di quel rinnovamento profondo in tutti gli ambiti del pensiero, della pratica e dell’organizzazione religiosa su cui il concilio aveva avviato una riflessione e aperto inaspettate prospettive.

Un’ultima osservazione. La distinzione del concilio dei padri dal concilio dei media proposta da Benedetto XVI fa il paio con quella proposta da mons. Guido Pozzo, segretario della commissione pontificia Ecclesia Dei e capo della delegazione vaticana che era stata incaricata di condurre i colloqui di conciliazione con la “Fraternità sacerdotale san Pio X” fondata da mons. Lefebvre. Pozzo aveva distinto il concilio dall’“ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare che si è impadronita del concilio fin dal principio, sovrapponendosi ad esso” e creando il quadro interpretativo in cui i documenti conciliari (che peraltro a quell’ideologia sarebbero rimasti estranei) dovevano essere letti. È da tale ideologia, operante fin dal concilio e largamente nel post-concilio, che i testi del concilio devono essere liberati.

        Anche in tale distinzione, come in quella di Benedetto, le forzature, per non dire le contorsioni interpretative, non mancano. Ma ciò che conta è che entrambe hanno nel definitivo depotenziamento delle virtualità del concilio il loro obiettivo primario. Ciò che per molti doveva essere allora un inizio, che degli inizi aveva tutta l’effervescenza e la vivacità creativa (non era il ricorso ad una mera formula di circostanza il parlare che si faceva allora di “nuova Pentecoste”) viene piegato e ridotto alla “lettera” di testi che in molti casi presentano ambiguità e contraddizioni interne, frutto dei compromessi raggiunti o imposti da Paolo VI che aspirava ad una sostanziale unanimità dei padri. Ma si mettono così da parte ciò che in ogni corretta esegesi di documenti assembleari non può mancare, ossia l’analisi delle discussioni che li hanno preceduti, per coglierne le ragioni e lo spirito che li hanno prodotti. La “creazione” del “concilio dei media” da una parte, e dell’“ideologia paraconciliare” dall’altra, risponde allo stesso scopo: consegnare al futuro un concilio che ha perduto molta parte del suo significato e della sua novità.

Giovanni Miccoli

Professore Emerito di Storia della Chiesa presso l’Università degli Studi di Trieste