Il Messia di casa

di

Serena Noceti

(Vicepresidente dell’ATI - Associazione Teologica Italiana)

 

Marcel Proust nella sua Recherche afferma che l’unico vero viaggio non consiste tanto nell’andare verso nuovi paesaggi, quanto nell’avere nuovi occhi[1].

La Scrittura è stata in massima parte scritta in un contesto patriarcale e riflette una prospettiva androcentrica nei suoi racconti, nelle immagini, nel linguaggio.

L’esegesi e la teologia femministe già dall’inizio del secolo scorso hanno chiesto e reso possibile una rivisitazione complessiva del pensare/parlare di Dio, condotta secondo prospettive, sensibilità, ambiti di ricerca “altri”, quelli delle donne, per secoli marginali alla parola pubblica della fede, ininfluenti per molti dei processi costitutivi della vita ecclesiale, private di spazi adeguati per pensare teologicamente e dire autorevolmente la fede comune.

Le teologhe e le bibliste, insieme a tante donne impegnate a vario titolo nella vita delle chiese, hanno acquisito strumenti per una lettura scientifica e sapienziale della Bibbia e della Tradizione ecclesiale riservati per secoli ai soli maschi, sollecitando così la teologia e la coscienza ecclesiale verso una necessaria rivisitazione della stessa immagine di Dio tramandata da secoli. “Dio non è mio” hanno affermato tante donne, denunciando i processi di allontanamento dalla parola teo-logica e dalla possibilità di offrire la propria parziale (come quella dei maschi d’altronde) comprensione e interpretazione del divino, perché come affermava I. Raming «il sesso femminile è stato eliminato fin nell’intimo della trascendenza: il concetto di Dio viene coniato a immagine del maschio».

“Questo Dio non è mio” hanno esclamato le donne, decostruendo le implicazioni di tante immagini di Dio lontane dall’esperienza femminile o addirittura addotte per giustificare esclusione e subordinazione delle donne, nella consapevolezza che simboli e parole hanno un profondo effetto “esistenziale” e “politico”: creano e modellano legami, contribuiscono a processi di autodefinizione e di interpretazione dell’altro, determinano forme sociale e culture, abitano le memorie collettive, qualificano lo stesso senso religioso.

“Questo Dio è anche il mio” hanno dichiarato molte donne, riconoscendo nelle parole e nella prassi di Gesù di Nazareth il Dio liberatore, il Dio alleato dei sogni e delle potenzialità delle donne.

Gesù, maestro di umanità e sapienza, ha aperto anche per le donne lo spazio della vita e di una relazione che travalica l’ “ovvio del già codificato” sul piano sociale religioso; si è relazionato con loro come interlocutrici, come persone con le quali aprirsi alla pienezza della vita; ha affidato loro la responsabilità dell’annuncio pasquale necessario per la fede di tutti.

Si sono così moltiplicati nell’ultimo secolo gli studi dedicati alle matriarche, alle regine, alle donne sapienti dell’AT, agli incontri tra Gesù e le donne, che hanno riportato in primo piano figure di donne dimenticate (Giovanna) o hanno mostrato la parzialità e tendenziosità di alcune interpretazioni, tese a svilire o limitare l’importanza di alcune donne intorno a Gesù (Maria Maddalena, la donna che unge Gesù in Mc 14), alle figure femminili attive nella chiesa primitiva, come anche è cresciuta l’attenzione per le metafore tratte dal mondo femminile usate per dire Dio nel Primo e nel Nuovo Testamento.

Tra le immagini che gli evangelisti ci hanno consegnato per illustrare la missione messianica di Gesù e tratteggiare il mistero della sua esistenza, due in particolare attingono direttamente all’esperienza delle donne: la donna che cerca la dracma perduta (Lc 15,8-10) e il parto (Gv 16,20-21).

Nella prima i gesti di un quotidiano agire femminile (alzarsi, accendere la lucerna, spazzare, cercare finché non si è trovato la dracma perduta, chiamare le amiche, fare festa) veicolano il volto del messia che è venuto per cercare e salvare umanità perduta; nella seconda l’esperienza lacerante e gioiosa, esclusivamente femminile, del dare alla luce un figlio diventa via per comprendere la dinamica dell’evento pasquale di morte e risurrezione, dolore e gioia immense.

Se i commentatori lungo i secoli si sono dilungati sul sentire e sulle azioni del buon pastore che cerca la pecora perduta o sulla trepidante attesa e la commossa accoglienza del padre misericordioso nei confronti del figlio perduto, poco si è scritto sul testo parallelo della donna della dracma perduta e si è sottovalutato l’impatto che viene dall’immagine di un Dio che non teme di sentirsi interpretato attraverso i gesti e l’appassionata ricerca di una donna.

Immagini, metafore, parabole sono essenziali per esprimere il mistero di un Dio che sempre oltrepassa la nostra concettualità e per aprirci a una storia di salvezza che ci coinvolge in tutte le dimensioni del nostro essere umani; allo stesso tempo ogni è essenziale ricordare che ognuna di esse è debitrice dell’universo culturale e sociale in cui nasce, porta le tracce di una storia, evoca esperienze diverse che il lettore e la lettrice di oggi portano con sé nell’approccio al testo. Elementi che non possono essere dimenticati, pena cadere in interpretazioni fuorvianti, che rischiano di proiettare indebitamente sensibilità o attese diverse da quello in cui la metafora si sviluppa.

Nel caso delle metafore attinte al mondo femminile il rischio è ancora più grande, dati i cambiamenti avvenuti nella condizione delle donne nell’ultimo secolo in Occidente.

Allo stesso tempo queste due immagini cristologiche irrompono nel discorso teologico con una capacità d’urto e uno stimolo creativo al pensiero “altro” che non possono essere troppo facilmente elusi.

Emergono nel testo evangelico, come interruzioni inattese, che rimandano all’irruzione di un’altra prospettiva e alla più profonda re-interpretazione che la parola autorevole e pubblica delle donne, delle loro esperienze e domande, sta contribuendo a generare nella chiesa e nella teologia cristiane. Emergono dall’oblio in cui le hanno confinate le interpretazioni teologiche (maschili), come cicatrici in una memoria ferita.

Il silenzio delle donne e sulle donne ha segnato il corpo ecclesiale (e la parte maschile, in modo particolare) e tutti noi ne portiamo il segno profondo, perché – per dirlo con le drammatiche parole di poesia di Paul Celan - 

                        Più profonde ferite che a me

                        inflisse a te il [mio, nostro] tacere,

                        più grandi stelle

                        ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,

                        più bianca cenere

                        giace sulla parola cui hai creduto[2].

 

NOTE

[1] M. Proust, La prigioniera, Mondadori, Milano 280.

[2] P. Celan, L’altro, in Conseguito silenzio, Einaudi, Torino 1998, 15.