Performance e papato

La performance è una disciplina artistica che vede la sua origine nel primo futurismo, secondo il quale oltre alle tecniche tradizionali quali la scultura, la pittura e il teatro, era fondamentale anche la stessa azione dell’uomo, un’azione però decontestualizzata e inserita in situazioni desuete e pubbliche. Questo concetto di arte viene poi sviluppato dal dadaismo, ma, dopo un periodo per così dire di assopimento, trova nuovo vigore con il situazionismo di Guy Debord ove l’arte si mescola alla critica emancipatoria, all’azione sociale e anticonsumistica; oppure con l’azionismo del gruppo Gutai (che sarà a breve in mostra a New York al Museo Guggenheim) o di Hermann Nitsch, l’artista noto per inscenare dei sacrifici rituali con gli animali, spargendo il sangue sui corpi e su drappi bianchi, in una strana commistione tra violenza, morte e sacro.

Negli anni Settanta, con Marina Abramovic, la performance diviene un’espressione artistica caratterizzante dell’arte contemporanea, grazie alla sua forza espressiva e decostruttiva ad un tempo, capace di trasmettere in pochi istanti forti emozioni, suscitando dubbi e destabilizzando certezze. Ma che cos’è la performance? Per quali ragioni essa si distingue ad esempio dal teatro o dai concerti musicali, che pure, talvolta, vengono chiamati  con lo stesso nome?

A mio avviso, e un po’ sinteticamente, i momenti definienti della performance sono almeno due: da un lato essa costituisce un’azione significativa (anche in senso negativo, cioè come “non-senso” o “contro-senso”) in una determinata unità di tempo (che può consistere in un secondo, in un’ora ma anche in sei mesi, come è avvenuto in certe opere della Abramovic); dall’altro essa è effimera nella misura in cui “crea senso” non lasciando necessariamente un “resto” composto da artefatti, manufatti, cose, oggetti, tele dipinte (e nemmeno dai filmati o dalle registrazioni dell’evento, che i performers storici assolutamente aborrivano).

Potremmo forse dire allora, con un’espressione di Vladimir Jankélévitch; che la performance è un quasi-niente, una specie di charme che paradossalmente agisce e sortisce effetti in forza della sua apparente inesistenza. Per il filosofo francese di origine lituana, allievo di Bergson, il quasi-niente ha a che fare con l’istante, cioè con quel nescioquid (il non-so-che) che non può essere assimilato a un “non-più”, ma nemmeno a un “non-ancora”. Per certi aspetti, noi abbiamo paura dell’istante (tant’è che Jankélévitch lo assimila anche alla morte, oltre che all’azione morale, alla virtù o all’amore), e tutto il nostro dispositivo di saperi, concetti e poteri in fondo svolge un’azione di difesa e traccia continue vie di fuga. La storia in sé non consiste forse nell’offrire un senso a una sequenza di eventi che visti nella loro irrrelatezza originaria appaiono effettivamente insensati e illogici? E le scienze, le tecniche, ma anche le filosofie non sono forse finalizzate ad immunizzare un a-venire sempre aperto, abissale e terribilmente insicuro?

In questa prospettiva la performance è quell’evento che mette in crisi i concetti del “prima” e del “dopo”, è l’istante che irrompe e deflagra, mettendoci innanzi a un “senso” che è nella sua essenza un flusso diveniente e che non è privo di rapporti con il non-senso. Essa evidenzia insomma il nodo o meglio il chiasma inquietante che lega tra di loro il senso e il non-senso, come se fossero le facce della medesima medaglia; è – esprimendoci con Lacan – un sasso gettato nella gora del linguaggio, un cuneo insensato e disconnesso che crea una stratificazione di ulteriore senso e sovra-senso.

Probabilmente esagerando, potremmo associare le dimissioni del papa, quantomeno a livello di struttura, alla performance artistica. Questa tesi risponderebbe abbastanza congruentemente a un’epoca in cui stiamo assistendo a processi di sistematica “estetizzazione” della società: l’arte non è più una disciplina autonoma e avulsa, ma essa intrama anche i prodotti di consumo, dalle forme arrotondate dell’iPad al design delle forchette e delle sedie, dalle composizioni dei piatti di “alta cucina” ai vestiti che non sono più afferenti soltanto alla “moda”. Le stesse modalità relazionali tra i giovani, ad esempio, sono oggi estetizzati in forme molto simili alle performance come nel caso dei cosiddetti flash mobs. Tuttavia, al di là di queste consonanze, la cosa che potrebbe risultare di qualche interesse è che poco più d’un anno fa anche nel mondo dell’arte è accaduto qualcosa di paragonabile alle dimissioni di Benedetto XVI: uno dei più celebrati artisti contemporanei, Maurizio Cattelan, ha dato le “dimissioni” da artista, cioè ha deciso di “non creare” più, ma di saggiare nuove vie e nuovi percorsi di vita. Cosa estremamente rara, soprattutto se teniamo sott’occhio una concezione “olistica” dell’artista che ci viene dal decadentismo francese e dalla figura del bohemien: l’arte, così prossima al sacro, e l’artista costituiscono un tutt’uno inscindibile, come se una specie di aura circondasse un corpo in maniera così essenziale da esserne indisgiungibile. L’artista non può che morire, perché possiede un “dono divino”, una qualità che gli viene direttamente da Dio e che pertanto non è disgiungibile dalla sua esistenza.

Ora le dimissioni di Cattelan appaiono sempre più con i connotati dell’evento performativo: esse hanno d’un tratto svelato quei tratti fittizi che aleggiavano attorno artisti super-milionari, tutti incombenzati a mantenere quell’aura che Benjamin aveva stigmatizzato quale residuo di una cultura borghese, tesa a marcare il proprio censo e a comunicare socialmente la propria ricchezza; e poi hanno innescato tutta una serie di discorsi immunizzanti (si è detto: è uno dei suoi soliti scherzi artistici, era stanco e appagato, ritornerà…, etc. etc.) che parevano effettivamente scansare quel quasi-niente, quell’àlogon che a qualsiasi bambino non apparirebbe assolutamente come  tale: un artista, un uomo in fondo, che “de-cide” di non essere più artista.

Proviamo dunque a trasporre queste suggestioni sulla decisione – che non a caso si definisce “storica” (cioè già-passata, già priva del carattere dirompente della de-cisione stessa in quanto rottura, irruzione dell’istante) – di Benedetto XVI. Essa, oltreché etica, se l’analizziamo nelle sue sfaccettature, sembra presentarsi soprattutto come alcunché di “estetico”: o, ancora meglio, come quella giunzione tra etica ed estetica che i Greci chiamavano kalokagathìa. Un evento, cosi semplice nella sua essenza da ridursi a un nescioquid istantaneo, ha da una parte decostruito una serie di incrostazioni interpretative così radicate che ormai avevano assunto il ruolo enigmatico di “verità” (il papa eletto direttamente o ispirato da Dio? Il papa in carica fino alla morte? Il papa che non può dimettersi e che è sottomesso al diritto canonico? Il papa oggetto di idolatria in quanto più simile e vicino a Dio degli altri uomini? Il papa che “deve” soffrire e non può cedere alla biologia del suo corpo?); dall’altra ha inaugurato una miriade di orizzonti discorsivi, da quello giuridico a quello storico, da quello filosofico a quello geopolitico, da quello medico a quello cronachistico-giornalistico (c’è dietro Bertone? La faida tra due fazioni cardinalizie all’interno della Curia? Ricatti, sospetti? E lo IOR, il denaro, i capitali?).

Ma la follia maggiore, quella forse che accomuna più di altro gli eventi di Benedetto XVI e di Cattelan (che tra l’altro è quell’artista che ha ritratto papa Woityla trafitto da un meteorite) consiste nel paradossale e intrigante rapporto innescato con la morte. Se ambedue – l’artista e il papa – lo sono “a vita”, ecco che essi hanno potuto invece avere la folle esperienza di assistere alla propria morte, cioè potranno morire due volte: Cattelan si è visto celebrare in una straordinaria antologica al MOMA di New York dove tutte le sue opere sono state appese ironicamente al soffitto, come gingilli o merci al mercato; Benedetto XVI nell’ultimo Angelus e nei discorsi di congedo ha goduto di quella devozione che usualmente è riservata ai papi post mortem.

Ed è forse per baipassare questo problematico rapporto con la morte o, meglio, con la morte dell’istituzione in quanto distinta dalla vita, che si è ricorsi alla bizzarra quanto desueta e inedita istituzione del “papa emerito”; come se, appunto, il corpo umano fosse per sua natura caduco, qualcosa che può soltanto morire, mentre l’istituzione, il “papato” non potesse essere che qualcosa di eterno e di divino, qualcosa che marchia a vita e che non può esserne disgiunto.

Emiliano Bazzanella