Fede e ascolto

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Davvero mi chiedo cosa posso dire io a voi che avete consolidato tanta esperienza, che avete vissuto questa città con ruoli, responsabilità, servizi di carità: cercherò con semplicità di parteciparvi le domande, le ansie e le speranze della mia giornata.

Cercherò di fare compagnia con voi per essere insieme a cercare Colui che abita il nostro cuore, eppure si nasconde nella ferialità grigia dei nostri inverni, eppure ci sorprende bussando a casa chiedendo di entrare a cenare con noi.

Al cap. 8 di Matteo ci viene incontro un lebbroso che, in mezzo alla folla, si inginocchia davanti a Gesù e Gli dice (Bibbia della CEI ed. 1971): “Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi”. E Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: “Lo voglio, sii sanato”.

L’edizione 2007 dice così: “Signore, se vuoi, puoi purificarmi”. Tese la mano e lo toccò dicendo “Lo voglio, sii purificato”.

Va bene, la lebbra era ritenuta una vera e propria impurità religiosa, ma a me sembra, dico a me sembra, che la nuova versione faccia evaporare nelle forme la sostanza di una vicenda umanissima e sembra quasi lezioso il compiacimento della novità della forma a fronte di una espressione che ciascuno di noi, oggi, può vivere: essere sanati, guariti, essere purificati…

Al cap. 5 di Giovanni succede, invece, qualcosa di inverso: nella versione 1971 si dice della guarigione di un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù lo vede disteso, si ferma, gli dice “Vuoi guarire?” Il malato gli risponde: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me”. Gesù gli dice: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare.

La versione CEI del 2007 mette “barella” al posto di “lettuccio”: ora non so se a voi fa lo stesso effetto che a me, ma mi sembra di essere espulso da una cornice affettuosa, di un giaciglio confezionato alla meglio, alla buona, ad un’espressione ospedaliera di cui non sentivo proprio il bisogno.

Potremmo continuare, ma ho voluto, per così dire, inciampare in questi due capitoli perché a me sembra che in qualche modo venga fuori la questione di sempre: che cosa è decisivo? L’uomo, la lettera, la norma, la fiducia, il sacro, la vita di ogni giorno? Cos’è che preme? Che l’uomo rispetti le regole, o dica di rispettare le regole o che l’uomo si preoccupi che il suo vicino di casa guarisca o sia purificato?

Dice Raimon Pannikar (Raffaele Luise, Raimon Pannikar, Profeta del dopodomani, ed. San Paolo 2011, p. 244): «Per me lo scandalo più grande è vedere tanta gente sprecare le sue energie migliori nel “pensare” la vita invece che viverla».

Vivere, cioè mettere te stesso dentro la giornata della tua strada, della tua città, del mondo intero, vivere con i dubbi, gli imprevisti, i problemi, la famiglia, il lavoro, i saluti, i sorrisi, la malattia.

Vivere senza sforzarti di sapere tutto, di essere aggiornato sull’ultimo documento, vivere con l’Assoluto nel cuore e il relativo, precario del tuo passo quotidiano: il Signore è con te, non preoccuparti. Dice Antonio Machado: «caminante no hay camino, se hace camino al andar».

Non è il relativismo di chi non ha riferimenti di verità, di Assoluto, è l’invito a non scoraggiarti se non riesci a programmare i tuoi sforzi di bene per una giornata nuova, perché mentre la vivi troverai la tua strada.

Così, uscendo di casa, più che a verificare il tuo bagaglio normativo o guardare bene se ci sono strisce morali ben segnate per attraversare la giornata, ti rivolgi al Signore, ti metti nelle Sue braccia, su di Lui fai affidamento per essere strumento quotidiano di pace, magari risorsa di limitata valenza agli occhi dei potenti, ma capace di tutto in Colui che ci dà la forza.

Per me, badate che dico per me e potete interrompermi quando credete, la fede è affidamento, fiducia in Gesù che mi dà Se stesso e mi chiede amore, la fede non può essere prima di tutto verità normativa cui aderire con la testa e le parole.

E sto andando con la memoria a quando ero ragazzo, a Roiano e negli incontri, juniores/seniores, era un gran parlare di catechismo, di purezza, di Dio offeso e da soddisfare in maniera adeguata, di ragazze sedute in banchi distinti, di falange di Cristo redentore, di puntigliosa definizione del concetto di proprietà privata, e soprattutto una gran paura del peccato più che una voglia matta di amare.

Ama e fa quello che vuoi, il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato: ma ci crediamo, ne traiamo conseguenze giornaliere oppure citiamo a caso per dare cornice a un quadro di certezze rassicuranti?

Io sto con S. Paolo che nella lettera ai Galati (cap.2, versetti 20-21) dice: “Questa vita nella carne – cioè questa vita, la vita mia di ogni giorno - io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano”.

Fede come fiducia, affidamento, abbandono, decisione di gettare le reti un’altra volta dopo una notte intera di fatica inutile.

Ma voi ve l’immaginate un allenatore che per vincere si raccomanda ai suoi giocatori di non far uscire la palla dal terreno di gioco, che fa di un possibile fallo laterale il naufragio del piano di gioco?

E se pensiamo, per esempio, all’acqua, cosa ci viene in mente?

L’immobilità dell’acqua di una vecchia cisterna, acqua perfettamente composta, silenziosa e tranquilla, magari con qualche zanzara di troppo, o l’acqua di un ruscello che canta indisciplinato e festoso attraversando campi e villaggi?

Dice Elisa Kidanè, eritrea, missionaria comboniana (Adista 3, 26/1/13): «La fede non è un pacchetto promozionale che ci offre la Chiesa e che possiamo acquistare a punti andando in pellegrinaggio in qualche santuario» e mi permetto la citazione perché intravvedo qui a Trieste qualche deriva in tal senso.

        Fides qua, fides quae, sacro e santo, verità e carità fanno scattare da sempre un corto circuito, un sano trasalire che alimenta riflessione e voglia di amore, ansia di chiarezza, scandalo per deviazioni, e alla fine la domanda è sempre quella: i miei dubbi, la mia poca scienza mi impediscono di amare, mi rallentano il passo o invece amando, vivendo in amore aggiungo consapevolezza, metto saggezza nella scienza ?

E mi accorgo che inevitabilmente faccio confusione o forse relazione: una cosa è la fede, una cosa la carità, una cosa la speranza, una cosa la verità e potrei essere severamente invitato a rispettare contenitori, mi si passi il termine sgangherato, e contenuti.

Ma è proprio così? E se oso dire “Dio” non è che faccio relazione, misteriosa, meravigliosa mai esaustiva fra Padre, Figlio e Spirito Santo? E cosa me ne faccio di una fede di tori, di olocausti, di riti se mi manca la carità? E che problema c’è se, mentre dico “fede”, intendo “carità”, se la verità è dentro l’ascolto del mio prossimo?

Se credo, se mi affido a Gesù, se penso di amarLo, poi mi pongo in ascolto del Suo amore che mi fa incamminare ad ascoltare e mi avvicino e ascolto, così come posso e desidero anch’io essere ascoltato, accolto e fare una cosa sola e so che è facile amare il mondo, più difficile amare il vicino di casa.

E però, avere fede, essere uomo di fede, dice solo genericamente che tu credi, che non sei di quelli che non hanno Dio come riferimento della loro vita e siamo però a fare steccato, un po’ come quando diciamo “fratelli separati” e intendiamo sempre gli altri, non noi separati da loro.

In concreto, allora?

Luca, al cap.10, versetti 29-37, ci riferisce della domanda , quasi di sfida del dottore della legge: “E chi è il mio prossimo?”

Aveva appena risposto bene, da esperto della legge appunto, riferendo puntualmente quello che stava scritto nella Legge.

Ma Gesù, alla sua domanda, non risponde identificando la categoria teorica, con una saldatura logica di corrispondenze note:

“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, un uomo di cui non ti dico nemmeno il nome, uno come te e come me, e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero lasciandolo mezzo morto sul ciglio della strada”: si lamentava, gridava, piangeva , invocava aiuto…

Passarono un sacerdote e un levita, uno dopo l’altro e lo videro e lo sentirono, forse il levita lo sentì gridare ancora più forte perché era passato prima un sacerdote e non si era fermato, il sacerdote passò dall’altra parte, il levita passò oltre.

Invece un samaritano, uno straniero, un eretico passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione: “gli si fece vicino”, stupenda questa annotazione, il samaritano vuole ascoltare, ha visto, ha sentito e si avvicina, si approssima, annulla la distanza,  prende su di sé la situazione, fascia, versa olio e vino sulle ferite, carica quell’uomo sul suo giumento, lo porta in una locanda, si prende cura di lui.

E Gesù ribalta la domanda al dottore della legge, tanto che anche noi in un primo momento restiamo un po’ sbilanciati: non chi è stato più buono, chi ha creduto veramente, non è che adesso ti spiego chi è il tuo prossimo, ma “chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”.

Sono io che devo farmi prossimo, che devo avvicinarmi per ascoltare, il prossimo diventa tale se io mi avvicino, se io faccio in modo di farmi prossimo a lui.

Come faccio ad ascoltare se non mi avvicino? E se non mi avvicino è segno che non mi va di ascoltare ed allora cos’è la mia fede ? Un esercizio autoreferenziale di formule e riti che mi fa prediligere momenti devozionali sui quali verificare la mia salute di cristiano che ama Dio e nessun altro.

Umberto Eco nel suo libro Scritti sul pensiero medioevale (Bompiani 2°12) a pag 36 cita queste righe di S. Bernardo: «Currunt homines ad osculandum, invitantur ad donandum, et magis mirantur pulchra quam venerantur sacra», la gente corre a baciare, viene invitata a fare doni e ammira il bello più che non veneri il sacro.

E qui si aprirebbe il capitolo “sacro, santo,” “cos’è che fa la diocesi”: la Chiesa va all’ascolto del mondo per essere santa al suo servizio, o chiama dentro il rito, chiede un’offerta e ti dice “la messa è finita”?

Federico Garcia Lorca (Poesie inedite, Garzanti 1988, pag. 90) comincia così la sua poesia: “Amarìamos a Dios”: «Amarìamos a Dios si el cristal de nuestros ojos fuera convexo y no còncavo», “ameremmo Dio se il cristallo dei nostri occhi fosse convesso, non concavo”, se insomma aprissimo invece che ritenere, spalancassimo invece che riporre.

E viene immediato, spontaneo, consolatorio rifugiarci in quel proemio della “Gaudium et spes”: le gioie, le speranze, le tristezze, le angosce…, nulla vi è di genuinamente umano che non possa trovare eco nel nostro cuore.

Ma per ascoltare bisogna ascoltare, per ascoltare l’uomo devo fare silenzio e percepire quel sussurro di vento leggero mentre, nella mia caverna, forse mi aspettavo fragore di tuoni, terremoti sociali, devo fare mio quell’ “ascolta, Israele”, devo, un po’ alla volta, con pazienza, non fare anestesia di tutti i miei problemi di salute, di nonno, di antipatie persistenti, di vescovi impossibili, ma un po’ alla volta almeno per un momento metterli nella cassetta di sicurezza del nostro angelo custode o del santo di cui portiamo il nome, e stare in silenzio, nel niente, in confusione di parole dinanzi alla Parola, il Logos, la espressione dell’amore più grande, l’esperienza del vuoto e del tutto.

 Come mi permettevo di dire qualche giorno fa, S. Giovanni della Croce ci spiega così: «Despues que me he puesto en nada hallo que nada me falta», “dal momento che mi sono istallato nel nulla non mi manca più niente”.

E così Alda Merini, rivolgendosi a David Maria Turoldo (Padre mio, Frassinelli 2009 pag. 34): «Che cos’è il nulla, mi dicevi, se non la presenza di Dio che si rivela nel vuoto di noi stessi, in quello spazio cavo – notate la ripresa del “concavo” di Garcia Lorca – dove Dio crea in noi, dove espande la sua voce senza confini? E ascoltando quella voce oscura tu ti innamoravi. Eri caduto nel tuo amore per Dio come in una trappola. Siamo prigionieri di Dio, poeti del Nulla che si alzano per testimoniare la sua presenza».

Eppure il mio niente è la dichiarazione, la certificazione che quando ascolto con le orecchie, con gli occhi, col cuore (come dice Adriana Zarri in Quasi una preghiera, Einaudi pag. 17), raccolgo tutti i messaggi della vita e proprio quando vorrei reclamare che non è rimasto niente per me, il sorriso di un nipotino mi riconsegna un tutto imprevedibile, inestimabile.

Posso sentirmi deluso, ferito, sistematicamente inadeguato, ma devo trovare la forza di premettere un niente per ritrovarmi nella fede e nell’ascolto in una nuova giornata.

A me sembra che non ci sia fede senza ascolto e ascolto senza fede e non finiremo mai di stupirci che il Signore voglia i nostri cinque pani e due pesci per sfamare il mondo.

Perdonatemi le tante citazioni ma i libri che amo leggere in contemporanea e di cui dimentico spesso il capitolo precedente mi portano spesso frasi, brani, dove in qualche modo si insinua questo anelito esistenziale, la voglia di cercare a cosa fare ricorso per credere nell’uomo. Perché, se credo nell’uomo, se comincio ad interessarmi di lui e magari a volergli bene, di cos’altro ho bisogno per credere e dunque essere creduto?  Un po’ con queste motivazioni quindici giorni fa mi ero permesso di richiamare Matteo cap. 25 dove benedetti o maledetti si diventa dinanzi all’uomo affamato, malato, incarcerato.

Claudio Magris nel libro Microcosmi (Garzanti 2009, pag. 23) ha queste espressioni: «La paura bussa alla porta, la fede va ad aprire; fuori non c’è nessuno: Ma chi insegna ad aprire? Da tempo non si fa altro che chiudere le porte, è un vero tic; per un po’ si tira il fiato, poi l’ansia riafferra il cuore e si vorrebbe sprangare tutto, anche le finestre, senza accorgersi che così manca l’aria e che l’emicrania, in quel soffoco, martella sempre più le tempie, a poco a poco si finisce per sentire solo il rumore del proprio mal di testa».

E poi ho trovato alcune righe del premio Nobel 2000, il cinese Gao Xingjian, nel libro La montagna dell’anima (Rizzoli 2002 pag.511), un’autobiografia che è il racconto di un lungo viaggio fra le montagne: «Sebbene il mondo sia pieno di gente da amare e di luoghi in cui vivere, non esiste per me un posto in cui mettere radici, creare un nido, condurre una vita normale, incontrare ogni giorno gli stessi vicini, dire sempre le stesse cose, buongiorno, buonasera, e farmi coinvolgere dalle interminabili piccole beghe della vita quotidiana. Ne sarei disgustato ancora prima che diventasse quotidianità. Lo so, sono senza speranza».

Due descrizioni, due rappresentazioni che sembrano voler dire che, fede o non fede, non troverai niente, ti accomoderai deluso a fare le cose tue, a richiudere la porta un’altra volta.

Eppure credo che vadano raccolti tutti i frammenti e che proprio nella sensazione di questa sconfitta o delusione o constatazione dichiaratamente apatica ci sia comunque una piccola luce, almeno l’esigenza, o la non elusione della domanda.

E anche il no, il disimpegno, il mal di testa, il disgusto così bene proposti nei due brani contengono, a mio avviso una sorta di nostalgia, di speranza inespressa, una piccola luce accesa che si è spenta subito ma tornerà ad accendersi, a spegnersi ed accendersi ancora e chissà, senza presunzione,che non possa contribuire ad accendere la speranza anche la piccola luce di casa nostra.

Che cos’è l’ascolto, cosa significa ascoltare? Ascolto Dio, Lui mi ascolta, ascolto la moglie, i figli, il marito, le figlie, desidero esser anch’io ascoltato e cosa devo fare per ascoltare, per trasformare il tanto sentire di ogni giorno in un ascolto di prossimità ?

Appunto, “ascolto” come sentire e basta, parole percepite come fatto sonoro e basta, oppure ascolto come attenzione, partecipazione..

Cominciamo col dire, o chiediamoci con serenità, se la mia fede è  fiducia appunto, abbandono al Papà (David Maria Turoldo, Amare, San Paolo 2002, pag.40): «Non è il credere in Dio che ci salva, ma il credere nel Padre, per mezzo del Figlio, Gesù Cristo, nell’unità del loro medesimo ed unico Spirito, che è l’Amore senza fine, che mi fa dire col piccolo Samuele “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta”».

Parla, Signore, dimmela, dammela la tua parola che è poi il Figlio Tuo, e questo lo so nel pensiero, nella Scrittura, lo so ma io vorrei che la tua parola mi arrivasse, arrivasse per me e che io fossi in grado di ascoltarla, di farla mia e di essere capace di convertire questo ascolto nella invocazione e nella disponibilità “Signore, cosa vuoi che io faccia?”.

Ascoltare Dio, dove, come?

Andare in chiesa, mettersi in silenzio in un posto qualsiasi, di giorno feriale e socchiudere gli occhi, respirare a fondo le premesse di un raccoglimento sincero e intanto sentire e poi ascoltare il via vai di chi deve sistemare banchi, mettere a posto fiori, magari una prova d’organo…

Oppure stare in casa col tuo nipotino, mentre papà e mamma sono al lavoro, e per la ventesima volta alzare da terra il pupazzetto che gli piace tantissimo e che si diverte un mondo, col sorriso meraviglioso dei suo dieci mesi, a lanciare di qua e di là per riaverlo e sorridere felice e ributtartelo da un’altra parte.

Oppure di nuovo in autobus, mentre si accende la solita manfrina  fra chi vuole scendere e chi non si sposta e si sprecano le chiamate coi telefonini per dire si, sono in autobus, no, sono in autobus, si adesso vengo, no vengo dopo…

E allora mi vado convincendo che ascoltarTi possa significare prima di tutto saperTi dentro. Percepire che Ti accompagni a me qualunque cosa io faccia, ascoltarTi è credere che ci sei. Credere che non hai bisogno di culto separato dalla vita, come diceva Turoldo.

AscoltarTi è dare alla mia fede un altro sì, attestarTi amore e ancora amore per l’uomo qui, adesso, questo, scenda le scale o mi spinga per passare avanti, mi saluti per nome o finga di non conoscermi, anche dopo la chiusura dei negozi, anche quando il portone della chiesa è chiuso.

La storia di ogni giorno è come un roveto ardente (David Maria Turoldo, Cammino verso la fede, San Paolo 2006, pagg. 67-68): «…Il Dio che, per mezzo e con l’uomo, continuerà la storia del mondo, il Dio che sta nella storia e che parla da un roveto ardente… Sempre lo stesso Dio, questo roveto ardente che brucia nel cuore della storia, perché la storia è il luogo teologico di Dio, il luogo delle sue meraviglie: Io sono, sono il presente nella storia del mondo, e sono sempre da quella parte, sempre, perché è dalla parte dell’uomo, dell’ultimo di tutti gli uomini».

AscoltarTi dunque significa ascoltare chi ha più bisogno di essere ascoltato, e fra questi mi accorgo ogni giorno che ci sono anch’io, anch’io desidero, cerco, ho fame di ascolto e quando sento in chiesa “preghiamo dicendo ascoltaci, Signore”, e prego così, non posso fare a meno di andare ai salmi, alle infinite invocazioni, ai profeti “oh, se Tu squarciassi i cieli e scendessi”, “Al mattino ascolta la mia voce: fin dal mattino ti invoco e sto in attesa (salmo 5,4)”, “Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia Ti nascondi ? (salmo 9-10, 22)”, “Accogli, Signore, la causa del giusto, sii attento al mio grido. Porgi l’orecchio alla mia preghiera (salmo 17,1)”, e potremmo continuare e continuare.

Ma non abbiamo qualche volta la sensazione che sia in qualche modo incoerente, quasi assurdo dire al Signore di ascoltarci, di prestarci attenzione e poi di esaudirci, quasi fosse distratto e girato da un’altra parte e avesse bisogno di una sollecitazione per riaversi da un momento di assenza? Sembra quasi che Lo sollecitiamo a guardare dalla nostra parte, come se ci fosse un prima di incomunicabilità, un’assenza di tensione e un incontro perché Gli diamo un appuntamento e fortunatamente Lui viene, un Dio a cui abbiamo bisogno di dire “ricordati”.

Ma forse la parola “ascoltaci” significa tanto spesso “ti ascolto”, “sono venuto per ascoltarTi”, perché non è possibile che il nostro Dio stia guardando da un’altra parte e non possieda invece i pensieri e i segreti e le angosce del nostro cuore.

“Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere ? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco ti ho disegnato sulle palme delle mie mani (Isaia, 49, 14-16)”.

Noi sappiamo che la parola del Signore si fa, che la parola del Signore mentre si ascolta crea, diventa amore, amore di una settimana di creazione, amore di una vita finita in croce, amore risorto che ci chiede se abbiamo qualcosa da mangiare. Noi crediamo che il Padre è il Figlio che viene a noi, noi crediamo che è l’amore che ci sposta dall’io al tu, crediamo che lo Spirito Santo incendia la nostra esistenza perché il Figlio è venuto in mezzo a noi a far sì che il nostro amore sia un tu e insieme un noi, che è la Trinità dell’amore nella storia.

No, non siamo mai abbandonati nella fiducia che abbiamo in Lui, Uno e Trino, e dunque siamo sempre ascoltati e dunque la nostra invocazione di ascolto, è, diventa, ci sforziamo che sia la strada ritrovata dell’impegno, della nostra disponibilità ad ascoltare.

“Ascoltami” può voler dire “aiutami ad ascoltarTi”, “non ce la faccio a stare in silenzio e non dire qualcosa, a non percepirTi”, “ho bisogno che Tu mi senta, ho bisogno di sentire a me stesso che Tu mi chiami e che sono venuto, e adesso Ti dico: Eccomi, Signore”.

Fede come fiducia, fiducia come abbandono, ascolto come risposta che va nel mondo, ascolto di Te come inizio di una giornata senza fine, nel mondo, questo mondo qui, questo mondo, dice don Tonino Bello (Il Vangelo di don Tonino Bello, San Paolo 2011, pag. 74): «Il mondo che troviamo alla stazione Termini, il mondo che vediamo quando andiamo in autobus (!), afferrati ai sostegni per non cadere. Non tanto il mondo che troviamo a Lourdes, perché sappiamo che questo mondo è un mondo orientato, che ha un riferimento a Dio; ma il mondo che cambia intorno a noi, di coloro che ci toccano e ci stanno vicini un momento e poi non li vediamo più….

Quindici giorni fa Lamberto nelle sue riflessioni ad un certo punto ci rilanciò Luca, 18,8: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” Non è una domanda per i dottori della legge o una provocazione per i discepoli.

Gesù lo sta chiedendo a me, a te; sta aspettando che, dopo aver fatto tanta strada con Lui, Gli diciamo “resta con noi, Signore”, sta aspettando che Gli diciamo “si, Signore, la troverai la fede sulla terra, perché non occorrerà che bussi, lasceremo la porta aperta e Tu entrerai a cenare con noi e noi con Te.”

E così sia.

 

Antonio Sodaro

 

*l’intervento è stato pronunciato lunedì 25.02.2013 in un incontro organizzato dal Settore Adulti dell’Azione Cattolica di Trieste