Emiliano Bazzanella - Simbolo debole

Simbolo debole

di Emiliano Bazzanella

Nonostante possa apparire cosa strana, il fatto che anche nell'epoca contemporanea emerga una sorta di inflazione simbolica, appare ormai abbastanza evidente.

Abbiamo assistito a molteplici migrazioni di senso dei vecchi simboli, così come abbiamo registrato la creazione di sempre nuovi orizzonti simbolici (da quelli sportivi a quelli ecologici), in un contesto generale in cui peraltro proprio in seguito ai processi di secolarizzazione e di globalizzazione, sta vieppiù emergendo una sorta di bisogno simbolico.

Potremmo interrogarci su quest'ultima emergenza, magari riconducendola ad un rinato “bisogno” di sacro; ma dobbiamo anche prendere atto che una certa tensione simbolica fa parte dell'essere umano o, meglio, ne costituisce forse l'essenza (homo symbolicum).

Al di là tuttavia di queste assunzioni che potrebbero persino sembrare tautologiche, credo sia suggestivo ridurre ulteriormente il nostro raggio d'indagine, per interrogarci effettivamente sul significato stesso di “simbolo” distinguendolo - o contaminandolo - con quello di “segno”.

Il fine che ci riproponiamo in questa ricognizione è di evidenziare come l'epoca attuale sia caratterizzata paradossalmente da un'inflazione simbolica e da un sistematico misconoscimento dell'essenza del simbolo in vista di lidi più rassicuranti e meno problematici.

I punti di riferimento che fissiamo propedeuticamente in questa indagine - sebbene in modo contrappositivo - sono le posizioni di Freud e di Jung in merito al significato ed alla funzione del simbolico nell’ambito della pratica psicanalitica.

Questa assunzione non vuole certo ridurre la questione del “simbolo” sul piano meramente psicologico, così come non vuole relegarlo nell'ambito dell'etnologia e dell'antropologia.

La scelta di questi due poli argomentativi antagonistici, ci consente invece di chiarire meglio la natura ambigua ed oscillante del simbolo e la sua capacità di funzionare proprio in  virtù di questa ambiguità ed oscillazione primarie.

Partiamo dalle tesi di Freud, a dire il vero sin troppo semplicistiche: «il simbolo freudiano è solo un segno che indica una realtà e la sostituisce mediante un complesso linguaggio immaginativo» (M. Trevi, Metafore del simbolo, Cortina, Milano 1986, p. 7).

Il simbolo è un “qualcosa” che indica una certa realtà trasfigurandola e depistandola: per Freud, in altre parole, si tratta di mascherare e rendere accettabile un contenuto rimosso (per lo più di natura sessuale) per renderlo più facilmente accessibile alla coscienza.

Si tratta di un vissuto inconscio che  paradossalmente - in qualche maniera deviata e travisata - accede all’Io sotto forme inusitate e non immediatamente riconoscibili: «una volta conosciuta e giustificata tale deformazione, non esistono più dubbi: ‘minareto’ sta per ‘fallo. Aliquid stat pro aliquo. Minareto è un segno che si differenzia dagli altri solo perché presuppone un codice più inusitato, il codice del nascondimento e dell'espressione indiretta, noto e impiegato sin dall’origine del linguaggio» (ivi, p. 52).

Ho altrove evidenziato come in effetti l’espressione latina aliquid stat pro aliquo non sia così pacifica e sotto l’apparenza di una semplice sostituzione, celi invero un rapporto molto più complesso con l’alterità.

In questo quadro, la prospettiva freudiana costituisce l’apice di un processo di immunizzazione in cui c’è soltanto un passaggio da un significante a un significato ben codificato e circoscrivibile; con la differenza che il simbolo importa appena un momento di parziale, temporanea e calibrata opacità in vista dell’accettabilità sociale di contenuti più o meno proibiti.

Se d’altronde abbordiamo la questione dal punto di vista etimologico ci troviamo innnanzi  alla medesima ambivalenza: in “sim-bolo” risuona il greco συνβάλλειν, “gettare-insieme”. La cosa interessante in questo termine è che la nostra attenzione si condensa quasi totalmente sul syn, il “con” di una connessione e di uno “stare assieme” rispetto al quale i soggetti interessati si ritraggono quasi in una posizione di secondo piano.

«Si potrebbe proporre di mettere da parte, per questo operatore, l’ambigua polisemia del termine simbolo e riscattare la stessa radice in sym-bàllein, τό συμβλήμα (il simblema), nella sua accezione - utile in questo contesto - di 'congiungimento, congiunzione, saldatura, connessione» (ivi, p. 44).

La posizione di Jung è invece indubbiamente più problematica e se talvolta Freud è stato accusato di eccessivo semplicismo avendo ridotto il simbolo a segno, egli è stato criticato per le sue tangenze al pensiero orientale ed esoterico.

Al di là di questo deragliamento che forse s'è davvero compiuto, in Jung prevale la radicalità con la quale affronta il “simbolo” nella sua eccezionale problematicità: ben distante dal riduzionismo freudiano, egli accentua invece proprio i caratteri debordanti, inquietanti e oscuri della simbolicità, partendo dalla sottolineatura del carattere prettamente “ontologico” del simbolo.

Non si tratta quindi di un artefatto, di un espediente quasi-non-esistente per depistare la coscienza dalla sua realtà oscura ed inconscia, ma è esso stesso una parte di questa realtà oscura ed inconscia.

È un “con”, un “mettere assieme” che si connette con un’alterità inaccessibile e difficilmente sostenibile: «il pensiero simbolico si pone come mediatore tra il conscio e l’inconscio, tra il lato diurno e quello notturno dell’uomo, tra il raziocinio e tutto ciò che a questo si oppone: immagine, emozione, sentimento. (...) Come tale il simbolo si instaura quale transito tra l’ordine e il disordine, tra lo spirito e l’anima, tra la ‘categoria’ che, delimitando, trova lo spazio appropriato per ogni cosa e la fusione preconcettuale dell'immagine, dell'emozione, della pulsione e del sentimento che, trasgredendo ogni limite, percorre la materia non ancora ordinata della creazione» (ivi, p. 62).

Possiamo notare come la concezione del “simbolo” come qualcosa che assolve una funzione di puro rimando e, quindi, di gioco all'interno della catena dei significanti, ne fa perdere tutta la pregnanza e - la mettiamo tra virgolette – l’ “utilità gnoseologica”.

In altre parole, siamo di fronte ad una strategia immunologica per cui il simbolo trasmette solo un’ombra dell’alterità, ma di fatto non fa che confermare un mondo già concettualizzato e categorizzato di cui conosciamo tutto.

Freud, a causa della sua indole scientista, vede nel linguaggio simbolico soltanto un nuovo gergo da decifrare e decodificare rispetto ad un orizzonte semantico - la sessualità rimossa - che per quanto oggetto di spostamenti e travisamenti, è ben consaputo e potenzialmente accessibile alla coscienza.

Jung al contrario si apre al mare procelloso dell’Altro e, anzi, vede nel pensiero simbolico una delle modalità attraverso le quali far funzionare un “inconscio” che rispetto a quello freudiano non è affatto repressivo e negativo, bensì creativo e produttivo.

Ritorniamo alla questione che avevamo introdotto all’inizio: l’inflazione del linguaggio simbolico nella contemporaneità.

Se in prima istanza, ciò potrebbe apparire come un fenomeno incomprensibile in un mondo dominato dal linguaggio della scienza, sulla scorta della differenziazione tra accezione freudiana e accezione junghiana del simbolo, ci accorgiamo che stiamo vivendo una particolare polarizzazione della simbolicità.

«Due modi dominano il discorso dell'uomo: quello imperniato sul concetto, con il suo carattere disgiuntivo, in cui ogni significante rimanda puntualmente a un significato stabilito dal consensus culturale dei segmenti sociali che lo determinano, vale a dire dei vari codici prevalenti o imperanti, e quello imperniato sul simbolo, con il suo precipuo carattere con-giungente, in cui l'oscillazione dei significati spezza di continuo il dominio dei codici che vorrebbero legare puntualmente ogni significato a un significante entro le ‘convenzioni’ regionali dei codici stessi» (ivi, p. 60).

Riscontriamo qui un’ulteriore schisi tra una doppia accezione del “con”, del syn: il congiungimento è quello che istituisce un con-sensus, un sentire assieme che diviene un con-sentire e che proprio per tale ragione svolge una funzione di rassicurazione e di fraternizzazione.

Noi siamo fratelli poiché vediamo il mondo allo stesso mondo, ma un mondo che ci siamo preliminarmente costruiti autonomamente, come lo specchio ridondante delle nostre identità e dei nostri volti: lo scambio emotivo, conoscitivo, sentimentale non deve deviare da questo orizzonte inclusivo di familiarità e, perciò, scade talora nella tautologia, nel riecheggiare sempre i medesimi concetti in vista del loro rafforzamento e della loro reificazione.

Ma il syn, il “con” che è immanente nel simbolo, può anche fuor-viare; anzi, è per natura fuor-viante, ci fa debordare e, così facendo, decostruisce proprio quel mondo di apparente fratellanza e ridondante famigliarità che ci siamo consensualmente costruiti.

C’è insomma una sorta di vettore indebolente che sfarragina il nostro mondo identitario, lo fa entrare per un istante in con-tatto “con” l'Altro, con il rischio assoluto del fallimento e del deflagrare repentino di tutte le nostre certezze.

In questa prospettiva, il pensiero simbolico non può essere annoverato nell’ambito ristretto di certi rituali - siano essi sociali, politici o religiosi - ma diviene una sorta di funzione decostruttiva e creativa nello stesso tempo, per cui il “con” che sembra corroborare ogni forma di significazione, viene fatto risaltare nella sua doppia valenza e diviene vettore di un incontro impossibile e di apertura verso il mistero; cosicché il simbolo può assumere varie forme e consistere in un semplice gesto, un’azione, una parola, indipendentemente dal contesto più o meno istituzionale, più o meno sacrale in cui il gesto è stato espresso, l’azione è stata compiuta, la semplice e flebile parola pronunciata.