Quindici anni di “Keshi”

Due recenti interventi normativi di diritto canonico orientale a confronto con il pensiero di Carlò Fantappiè su ecclesiologia e diritto canonico

 

di

Stefano Sodaro

(Direttore responsabile de “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”)

 

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Era il dicembre 2000 quando fu pubblicato il volume “Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale”, contenente l’elaborazione di una tesi di laurea dedicata all’ammissione al presbiterato degli uomini sposati nel diritto delle Chiese Orientali Cattoliche.

Da allora, una questione che sembrava confinata negli interessi specialistici di un ristrettissimo gruppo di eruditi ha continuato a scavare, come un fiume carsico, percorsi di scorrimento che hanno finito, in forza anche dei fenomeni migratori, per venire alla luce e lambire zone occidentali che si ritenevano immuni da pericolose contaminazioni provenienti da Est e problematiche a livello culturale prima ancora che pratico-organizzativo.

Che direzioni hanno preso questi nuovi corsi d’acqua, per restar nella metafora?

Ci troviamo di fronte a due interventi normativi di grande rilievo.

Il primo riguarda la possibile presenza, ma anche ordinazione, di preti cattolici legittimamente sposati a norma del diritto canonico che regge le Chiese d’Oriente in territori ove tale presenza e tale ordinazione erano inibite, in quanto confliggenti con gli apparati normativi completamente diversi dell’Occidente latino.

Il secondo, temporalmente di poco successivo al primo, concerne l’istituzione della Sede Metropolitana di Asmara come atto di erezione della Chiesa Cattolica Eritrea sui iuris. Un atto peraltro che, al momento in cui scriviamo, sembra ancora privo del suo documento scritto.

Vorremmo poi mettere a confronto tali novità strettamente giuridiche con il profilo investigato da Carlo Fantappiè nel suo recente contributo su “Ecclesiologia e Canonistica”, apparso nel volume 103, Fascicolo 2, anno 2014, di “Periodica de re canonica” [di seguito EC, con il numero della pagina di citazione], studio su cui è già intervenuto, per altre focalizzazioni,  il liturgista Andrea Grillo (cfr. http://www.cittadellaeditrice.com/munera/per-un-confronto-aperto-ed-efficace-tra-teologi-e-canonisti-sul-matrimonio/) e  che, al di là delle presenti annotazioni, merita d’essere letto nella sua interezza perché si rivela di importanza capitale, persino decisiva, a chi voglia interrogarsi sull’attualità, più che mai cocente, di un nodo permanentemente avviluppato intorno ai due poli, del diritto, conosciuto e praticato nella Comunità Ecclesiale, e dell’ecclesiologia, come ambito della teologia che investiga la natura della Chiesa.

“Keshi” – possiamo ormai riconoscerlo – trovò le sue ragioni d’esser scritto proprio nella tensione tra il sapere giuridico, con i suoi linguaggi, le sue logiche, le sue pretese di coerenza e la riflessione teologica che interroga lo statuto del primo e ne è a sua volta interrogata.

Iniziamo dalla prima questione.

Precisava il can. 71 del Motu Proprio “Cleri Sanctitati” dell’11 giugno 1957:

Quod attinet ad coniugatos, ad sudiaconatum vel ad maiores ordines admittendos aut absolute aut cum dispensatione sive Patriarchae sive loci Hierachae, non autem Syncelli, vel etiam ab iisdem ordinibus arcendos, hae Litterae Apostolicae nihil innovant circa vigentem in unoquoque orientali ritu disciplinam.

Eppure, questo solenne impegno a “nihil innovare” è stato di recente travolto. È il vento del Concilio? Si tratta di questa “novitas”, del Vaticano II, che ancora non ha sprigionato tutta la sua forza di cambiamento nella fedeltà alla tradizione?

Che cosa è accaduto?

Esisteva un aspetto, con riferimento alla questione, abbastanza spinosa già di per sé, della presenza di preti cattolici legittimamente sposati nelle Chiese d’Oriente che ancora di recente la dottrina ha messo ben a fuoco. Scrive Jacob Mandiyil in http://www.iuraorientalia.net/IO/IO_09_2013/III_05_Mandiyil.pdf:

«Può il Vescovo latino permettere la presenza di un sacerdote orientale sposato nella sua diocesi per cura pastorale? Il can. 373 del CCEO non è molto chiaro a questo riguardo. Nei XIX e XX secolo sono stati emanati alcuni documenti da parte della Sede Apostolica, intesi a vietare ai sacerdoti cattolici sposati di lavorare nelle diocesi latine. Il Decreto della Congregazione de Propaganda Fide del 1° ottobre 1890 proibiva ai sacerdoti sposati ruteni di stabilirsi negli Stati Uniti. La, allora, Congregazione per la Chiesa Orientale proibiva nell’anno 1929 con il Decreto «Cum data fuerit» che il clero sposato ruteno si stabilisse nell’America del Nord; nello stesso anno con Decreto «Qua sollerti» ci fu la stessa proibizione per il clero sposato orientale in America del Nord e del Sud, in Canada e in Australia e nell’anno 1930, con il Decreto «Greci-Rutheni Ritus», per il clero ruteno in Canada. Questa proibizione venne estesa anche ad altri paesi: «Per ulteriori disposizioni dei Romani Pontefici la citata normativa è stata estesa su altri territori non considerati “regioni orientali” e non può essere cambiata senza aver sentito la Conferenza Episcopale in loco ed aver ricevuto l’autorizzazione della Santa Sede». Per quanto concerne il fatto se siano ancora in vigore questi documenti restrittivi che sono usciti prima del concilio Vaticano II e della promulgazione del CIC e del CCEO, facendo riferimento ai cann. 6 § 1 e 393 del CIC e specialmente analizzando il termine cuiuscumque sunt condicionis dei sacerdoti, il CHOLIJ, ritiene quanto segue: «Il canone 393 ha riordinato tutte le precedenti regole sulla distribuzione del clero. In forza di esso ogni precedente stipulazione che limitava gli spostamenti dei sacerdoti sposati fu reso giuridicamente ineffettivo. Ogni norma contraria all’immigrazione dei preti sposati emanata dalla Sede Apostolica dal 1890 in avanti, è stata ora abrogata dal Codice. Cum data fuerit e Qua sollerti sono stati aboliti». Ma alcuni autori ritengono, come del resto è la posizione della Sede Apostolica, che queste norme proibitive siano ancora in vigore. Secondo GEFAELL: «anche se […] malgrado pure che alcune autorità ecclesiastiche orientali negli Stati Uniti ne abbiano sollecitato la revoca, e nonostante che le Conferenze episcopali di Australia e Canada abbiano dato ufficialmente il loro nihil obstat per la presenza di clero orientale sposato nel loro territorio, in realtà quei decreti restrittivi continuano in vigore». Questo divieto che è stato stabilito dalla prassi in Occidente è considerato dalla Sede Apostolica come norma valida e da osservare anche oggi, tranne che ci sia il permesso dalla Sede Apostolica per i singoli casi. Come conseguenza resta che per la norma – che ha carattere generale – i preti sposati provenienti dalle Chiese cattoliche Orientali normalmente non devono svolgere il lavoro pastorale nelle diocesi latine senza il permesso della Sede Apostolica per ogni singolo caso.»

Qual era, dunque, la preoccupazione della Curia Romana?

Secondo una ricostruzione dottrinale ma plausibile, come appena infra vedremo, si trattava di evitare la “admiratio fidelium”.

E che cosa era possibile notare in simile preoccupazione, espressa dalle due parole?

Da un lato, il sospetto – fino all’allontanamento, all’espulsione concettuale – verso quanto susciti “mirum”, che vorremmo tradurre con “sorpresa” (diversamente dovremmo optare per una “meraviglia” che ci pare eccessiva), dall’altro il contenere al massimo grado possibile la capacità reattiva dei “fideles”, dovendosi tuttavia restringere tale nozione a coloro che – come espone ancora il vigente Codex Iuris Canonici al can. 207, § 1  – sono i “ceteri” rispetto ai chierici (“Ex divina institutione, inter christifideles sunt in Ecclesia ministri sacri, qui in iure et clerici vocantur; ceteri autem et laici nuncupantur”).

Infatti non è verosimile ipotizzare che l’“admiratio” potesse coinvolgere anche i “fideles” chierici, in ragione della loro perfetta – per quanto presunta - conoscenza della diversità canonica orientale.

Le norme emanate di recente recidono la preoccupazione curiale ad entrambe le radici meta-giuridiche: non c’è più necessità di evitare il “mirum” e non c’è ridimensionamento in chiave residuale dell’assoluta maggioranza del Popolo di Dio, costituita, per appunto, da laici.

I nuovi  “Pontificia Praecepta de clero uxorato orientali” della Congregazione per le Chiese Orientali intervengono a disciplinare in modo completamente nuovo l’antica questione.

Merita riportare il passaggio descrittivo contenuto in tali “Praecepta”, pubblicati in “Acta Apostolicae Sedis”, N. 6 del 6 giugno 2014, pp. 496-499:

«La problematica del ministero dei sacerdoti uxorati fuori dei tradizionali territori orientali risale agli ultimi decenni del XIX secolo, specialmente a partire dal 1880, quando migliaia di cattolici ruteni emigrarono dalle regioni sub-carpatiche, nonché dall’Ucraina dell’ovest, negli Stati Uniti d’America. La presenza dei rispettivi ministri uxorati suscitò la protesta dei Vescovi latini secondo i quali tale presenza avrebbe provocato un gravissimum scandalum presso i fedeli latini. Perciò la Congregazione di Propaganda Fide con decreto del 1 ottobre 1890 proibì al clero ruteno uxorato di risiedere negli USA. Nel 1913 la Santa Sede decretò che in Canada solo dei celibi avrebbero potuto essere ordinati sacerdoti. Negli anni 1929-1930 l’allora Congregazione per la Chiesa orientale emanò tre decreti con cui proibiva l'esercizio del ministero ai sacerdoti orientali uxorati in certe regioni:

1) il Decreto Cum data fuerit del 1° marzo 1929, con cui si proibì l’esercizio del ministero al clero ruteno uxorato in emigrazione nell’America del Nord;

2) il Decreto Qua sollerti del 23 dicembre 1929, col quale si estese la proibizione del ministero a tutto il clero orientale uxorato emigrato in America del Nord e del Sud, in Canada e in Australia;

3) il Decreto Graeci-Rutheni del 24 maggio 1930, col quale si stabilì che solo degli uomini celibi avrebbero potuto essere ammessi in seminario e promossi all’ordine sacro.

Privato dei ministri del loro proprio rito, un numero stimato a circa 200.000 fedeli ruteni passò all’ortodossia.

La citata normativa è stata estesa su altri territori non considerati ‘regioni orientali’: le eccezioni venivano concesse solo dopo aver sentito la Conferenza Episcopale in loco ed aver ricevuto l’autorizzazione della Santa Sede.

Poiché la problematica persisteva, la Congregazione per le Chiese Orientali interessò la Congregazione per la Dottrina della Fede. Essa, in data 20 febbraio 2008, nella Sessione Ordinaria ha riesaminato l’intera questione, addivenendo alla seguente decisione: «si mantenga la norma vigente – che vincola i Sacerdoti Orientali in servizio pastorale presso i fedeli in diaspora all’obbligo del Celibato, similmente ai Sacerdoti latini – prevedendo, in casi concreti ed eccezionali, la possibilità di una dispensa da essa, riservata alla Santa Sede.»

Va rilevato che anche in Occidente, nei tempi recenti, con il motu proprio Anglicanorum coetibus, benché non riguardante il clero orientale, si è adottata una disciplina attenta alla concreta situazione dei presbiteri e della rispettive famiglie passate alla comunione cattolica.»

Il nuovo contenuto precettivo invece è il seguente, contenuto nella parte B dei “Pracepta”:

«La Sessione Plenaria della Congregazione per le Chiese Orientali, tenutasi dal 19 al 22 novembre 2013 al Palazzo Apostolico, ha trattato la questione ampiamente ed ha in seguito presentato al Santo Padre la richiesta di concedere alle rispettive Autorità Ecclesiastiche la facoltà di consentire il servizio pastorale del clero uxorato orientale anche fuori dei territori orientali tradizionali. Il Santo Padre, nell’udienza concessa al Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, card. Leonardo Sandri, il 23 dicembre 2013, ha approvato la richiesta contrariis quibuslibet minime obstantibus, con la seguente modalità:

— nelle Circoscrizioni Amministrative orientali (Metropolie, Eparchie, Esarcati) costituite fuori dai territori tradizionali tale facoltà viene conferita ai Gerarchi orientali, che la eserciteranno secondo le tradizioni delle rispettive Chiese. Essi hanno, altresì, la facoltà di ordinare i candidati orientali uxorati provenienti dalla rispettiva circoscrizione con l’obbligo di informare previamente per iscritto il Vescovo latino di residenza del candidato onde averne il parere ed ogni informazione utile;

— negli Ordinariati per i fedeli orientali privi di Gerarca proprio, tale facoltà viene conferita agli Ordinari, che la eserciteranno informando nei casi concreti la rispettiva Conferenza Episcopale e questo Dicastero;

— nei territori dove i fedeli orientali sono privi di una struttura amministrativa specifica e sono affidati alle cure dei Vescovi latini del luogo, tale facoltà continuerà ad essere riservata alla Congregazione per le Chiese Orientali, che la eserciterà in casi concreti ed eccezionali dopo aver sentito il parere delle rispettive Conferenze Episcopali.»

Da un punto di vista formale, non sembra possibile assimilare tali “praecepta” alla disciplina del “praeceptum singulare” di cui ai canoni 48 e segg. del Codice di Diritto Canonico, né l’altro Codex, il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali – fonte normativa propria e primaria rispetto alla materia trattata – prevede un atto amministrativo tipico identificato come “praeceptum”.

Pare importante osservare che, dentro un itinerario ormai più che decennale di confronto con questo specifico dato normativo – merita riproporlo nei suoi termini essenziali: la legittimità o l’illegittimità di una presenza diffusa, e non più territorialmente ben circoscritta, di preti cattolici sposati orientali –, ad un certo momento, ed è proprio questo attuale il momento, viene ad emersione in tutte le sue apparenti contraddizioni e, contemporaneamente, trova soluzione innovativa secondo le logiche giuridico-istituzionali e non al di fuori di esse la stessa complessità della vita vissuta, di un “quotidiano canonico” che coinvolge la norma ma anche la interpella.

Perché c’è la seconda questione che vorremmo affrontare nel modo seguente.

Con l’emanazione dei “Praecepta” le implicazioni altamente problematiche di una piena valorizzazione degli aspetti peculiari del diritto canonico orientale – come quello dei preti sposati – non vengono taciute, evitate, sotterrate, ma poste sul tavolo del confronto inter ed intra-ecclesiale.

La risposta ad una nuova disciplina, non più limitativa, di presenze presbiterali orientali coniugate viene emessa, pronunciata – non ancora, come si annotava, formalizzata per iscritto -, dalla Somma Autorità tramite l’erezione, solo pochi giorni dopo la pubblicazione degli stessi “Pontificia Praecepta”, di una nuova Chiesa sui iuris, costituita dalle quattro diocesi cattoliche eritree. Di seguito il link

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/01/19/0048/00098.html#Erezione%20della%20Chiesa%20Metropolitana%20sui%20iuris%20eritrea%20e%20nomina%20del%20primo%20Metropolita

La peculiare attenzione ai dati canonici di antichissime Comunità – scegliemmo infatti di intitolare con la parola “Keshi” il volume che raccolse la pubblicazione della tesi di laurea proprio ricorrendo al termine della lingua tigrina, parlata in Eritrea, con cui si designano i presbiteri sposati (diversamente dagli “Abba”, che sono i preti celibi e per ciò stesso monaci) – è come se venisse sigillata, in qualche modo – si licet – “confermata” dall’istituzione di una nuova Chiesa Orientale sui iuris nella quale si pongono, più vivi che mai, esattamente tutti quegli aspetti giuridici, meglio propriamente canonistici, di confronto con l’antico istituto dell’Ordine Sacro vissuto nel matrimonio su cui iniziammo a porci qualche interrogativo più di 15 anni fa.

Annotiamo per inciso che l’osservazione avanzata da Pablo Gefaell, e riportata da Basilio Petrà in “Preti sposati per volontà di Dio? Saggio su una Chiesa a due polmoni”, EDB 2004, p. 134, per cui la nominazione di “Abba” per il prete celibe testimonierebbe di una paternità ecclesiale riconosciuta solo al monaco, meglio allo ieromonaco, e non al prete sposato, è destituita di fondamento, dal momento che, sempre in lingua tigrina, anche il “keshi” viene comunemente appellato come “abuy keshi”, quasi ad arricchire, al contrario di quanto si vorrebbe sostenere, l’identità ministeriale e non a sottrarne un aspetto.

Ma è ora il caso di porre in interlocuzione queste novità d’ordine canonico con il contenuto del saggio di Carlo Fantappiè.

Quando Fantappiè scrive:

«Pochi mesi prima della chiusura del Concilio, Gérard Fransen paragonava le relazioni tra diritto canonico e teologia alla situazione di due conviventi che, pur appartenendo alla medesima famiglia ed avendo una medesima mansione, vivono «in regime di separazione di corpi e di beni» e «si accusano reciprocamente di deviazionismo». Se si ascolta solo il diritto canonico — egli aggiungeva — si corre il rischio di cadere nel formalismo giuridico; se, invece, la teologia o la pastorale disprezzano il diritto canonico, si andrà incontro ad una anarchia e ad una sorta di esoterismo. La conclusione cui perveniva Fransen era di evitare le conseguenze disastrose della separazione, anche se la convivenza appariva insostenibile.

A distanza di mezzo secolo, la situazione non è cambiata: nonostante qualche timido tentativo in senso contrario, i teologi continuano a mantenere le distanze dai canonisti e a considerarsi autosufficienti; i canonisti, a loro volta, considerano gli scritti dei teologi troppo astratti ed evanescenti.» (EC, pp. 165-166),

viene posto puntualmente in risalto un rapporto che non è stato in grado di raccogliere e vivificare – ci verrebbe da dire, far fermentare – le istanze che la concretezza della vita quotidiana, declinabile al riguardo anche come “vita pastorale”, pone di continuo. La “convivenza insostenibile” si appalesa in sommo grado, quasi stridente, nell’accostare il rigore (presunto?) della norma celibataria richiesta a presbiteri latini con la possibilità di ordinare presbiteri, invece, e non solo diaconi, uomini sposati in Oriente.

Ricorda Fantappiè:

«Sebbene in modi diversi, i più accreditati studiosi del primo Novecento avevano affermato il forte legame tra diritto canonico e teologia. L’ultimo esponente della tradizione decretalista, F.X. Wernz, riecheggiava la concezione del diritto canonico come parte principale, insieme con la morale, della teologia pratica e, al tempo stesso, sosteneva la necessità che il suo metodo mantenesse una posizione mediana tra la teologia e il diritto civile. «Sebbene il diritto canonico sia da distinguere dalla teologia teoretica o dogmatica e dalle altre particolari discipline teologiche, tuttavia — scriveva Wernz — in nessun modo è da separare dall’universo della teologia sistematica come disciplina in certo senso meramente giuridica».

La posizione tradizionale è ribadita nel 1936 in modo originale da Renard, che concepisce il carattere distintivo del diritto canonico nell’essere «per natura, una zona di scambio, dove la scienza giuridica si incontra con la scienza sacra». Pochi anni dopo, Pio Fedele insisterà nel richiamare i presupposti extra- e mèta-giuridici dell’ordinamento canonico.» (EC, p. 166).

La descrizione del docente pratese si fa dunque particolarmente accurata:

«Nella seconda metà del Novecento si assiste alla rottura di questo equilibrio dottrinale. Abbandonata la posizione mediana e dinamica, si scivola lentamente verso due estremi. Una concezione minimalista e strumentale, secondo cui il diritto canonico «si limita a sviluppare le conclusioni pratiche relative al fòro esterno che discendono dai princìpi dogmatici» . Oppure una concezione massimalista che sconfina nell’indistinzione, secondo cui occorre sostituire all’ordo rationis del diritto canonico moderno l’ordo fidei per recuperare il «nesso intrinseco» tra diritto divino positivo (realtà soprannaturale conoscibile solo per fede) ed il diritto canonico umano. Come notava nel 1977 Giuseppe Dalla Torre, la dialettica tra teologia e diritto «si sviluppa in un campo irto di difficoltà, fra l’incombere di pericoli di diversa natura e di vario segno».» (EC, p. 167)

E si domanda:

«Quali fattori hanno prodotto questa situazione squilibrata e rischiosa?» (EC, ivi)

La risposta è precisa e di estremo interesse:

«Innanzi tutto la frattura della codificazione del 1917 rispetto al diritto precedente. La nuova forma Codice, assunta dal diritto canonico ad imitazione del diritto degli Stati, ha modificato l’impostazione e il metodo della tradizione classica. Come processo conclusivo della spinta  verso l’allineamento del diritto canonico al diritto secolare in età moderna, la codificazione ha avuto l’effetto di: 1) ridurre il diritto canonico al Codice, 2) trasformare la norma canonica in legge universale, generale ed astratta, 3) sostituire per la maggior parte la giurisprudenza col metodo deduttivo-sillogistico, 4) ridurre tendenzialmente la scienza canonistica a mèra esegesi. Ad aggravare queste ripercussioni, non valutate dai codificatori, intervennero due direttive della Congregazione dei seminari e delle università per l’insegnamento del diritto canonico (7 agosto 1917 e 31 ottobre 1918).

In secondo luogo e tempo, la reazione culturale alla mentalità codicistica nella forma dell’antigiuridicismo pre- e post-conciliare. Già nel 1952 il domenicano francese Arbus aveva descritto la degenerazione del diritto della Chiesa nel «giuridicismo» come un fenomeno causato dalla pretesa di regolamentare tutto, dalla molteplicità incoerente delle leggi e dall’indurimento disumano delle norme. Negli anni 1960 questo significato tecnico del termine si carica di una connotazione ideologica: la relazione del diritto canonico con il potere e con l’autoritarismo ecclesiastico. È rimasta celebre la critica rivolta, nella XXXI congregazione generale del Concilio, da mons. De Smedt, vescovo di Bruges, allo schema De Ecclesia di peccare di trionfalismo, di clericalismo e di giuridismo.» (EC, pp. 167-168)

Le considerazioni riportate appaiono degne di massima attenzione proprio alla luce della nuova produzione normativa, che va ad incidere in profondità nella vita delle Chiese Orientali Cattoliche abbandonando completamente prospettive riduzionistiche di tipo positivistico. Ed anche l’inquadramento di esse all’interno della normazione codicistica tiene solo nella misura in cui quest’ultima consente di essere trascesa, superata, tradotta pure, in quelle norme altre, diverse, “extravagantes” per dirla con la scuola medievale, che l’autonomia ordinamentale delle Chiese Cattoliche d’Oriente non solo consente ma postula, esige.

Rispetto alla conclusione, invece, di Fantappiè ci permettiamo alcune diverse accentuazioni. Scrive l’autore:

«Questi riferimenti sono sufficienti per capire che il rinnovamento ecclesiologico del Vaticano II avvenne in polemica più o meno esplicita con il diritto canonico. Il diritto canonico era visto come un ostacolo politico (strumento di resistenza al cambiamento nella Chiesa) e come un ostacolo culturale (la principale causa della perdita di autonomia della teologia nei campi della morale, della liturgia e della pastorale).

A questi motivi generali, va aggiunta una ragione specifica. I fautori del rinnovamento teologico avevano serie difficoltà a conciliare l’ecclesiologia che andavano riscoprendo ed attualizzando nella sacra scrittura e nella patristica con la visione centrata sull’istituzione e sulle forme di governo così come si era cristallizzata nel Codice del 1917.

Nelle assise conciliari questo conflitto di mentalità si tradusse, com’è noto, in contrasto di posizioni , alimentando pregiudizi reciproci e favorendo la formazione di schieramenti. E poiché il tipo di relazioni esistente tra due classi di persone si proietta inevitabilmente sulle discipline rappresentate, le incomprensioni tra teologi e canonisti hanno influito negativamente sui rapporti tra teologia e diritto canonico.

Oltre i reciproci pregiudizi, il rinnovamento e la frammentazione della scienza teologica hanno accresciuto la presa di distanza dei canonisti verso di essa. Nel post-concilio l’asse centrale della teologia è passato dal rapporto tra natura e ragione al rapporto tra fede e storia, con la conseguenza di modificare a fondo anche l’impianto della teologia. Ai tradizionali concetti e schemi della filosofia scolastica, che costituivano la base teorica e il principio di connessione della teologia e della scienza canonistica, nell’insegnamento delle università pontificie e cattoliche si sostituiscono le metodologie e le categorie delle scienze umane.

Spezzata la solidarietà ontologica tra la dogmatica, la morale e il diritto canonico secondo lo schema consolidato nella Seconda Scolastica, la teologia perde il suo disegno unitario e sistematico. Non solamente l’unità di pensiero, di prospettive e di linguaggio viene a cadere, dando luogo al pluralismo teologico e all’interdisciplinarità, ma l’oggetto complessivo della teologia si divide in tanti campi, tra loro più o meno autonomi, e in una lunga serie di oggetti particolari, tra loro poco comunicanti (le cosiddette teologie del genitivo).

La dottrina della Chiesa vede crescere smisuratamente la propria importanza rispetto al passato. Al tempo stesso la frantumazione della teologia sistematica in tante teologie separa i contenuti dell’ecclesiologia dalle altre discipline. Il risultato finale è l’immunizzazione dell’ecclesiologia dalle altre scienze sacre e l’illusione della sua autonomia ed autosufficienza.

Le conseguenze negative di questa tendenza furono lucidamente diagnosticate da Louis Bouyer che, pur riconoscendo l’esigenza d’una riforma del diritto canonico, mise in guardia i teologi dai pericoli derivanti dal suo rifiuto.» (EC, pp. 168-170)

Ed in nota Fantappiè riporta l’icastica affermazione di René Latourelle:

«la novità […] è che le scienze umane si sono svincolate dalla filosofia conquistando la loro indipendenza, cosicché la teologia si trova spesso a dialogare direttamente con le scienze umane senza avvalersi della mediazione della filosofia.» (EC, p. 169, nota 14)

È un bene od un male, ci chiediamo, ai fini strettamente canonistici, che ci si trovi di fronte a questo indubbio dialogo diretto?

Quale filosofia potrebbe interloquire con il diritto canonico, ricorrendo ad un linguaggio, persino ad una grammatica, che non blocchi ancora quest’ambito così particolare del sapere e del vivere ecclesiale in categorie autoescludentisi dal dibattito culturale ma le metta in osmosi con le più acute, ed urgenti, provocazioni del nostro tempo?

Se vi è un pericolo di autocomprensione autosufficiente, per così dire, dell’ecclesiologia – e su questo ci pare possibile una certa diversa sensibilità -, l’ipertrofia della dottrina, come rileva l’autore medesimo, non salva dal rischio della dispersione e non facilita il dialogo culturale tra istanze scientifiche di portato diverso.

Ritenendo opportuno investigare le preferenze di orientamento epistemologico che sorreggono un’attività normativa come quella della Santa Sede che non conosce alcuna fase di elaborazione assembleare, “parlamentare” lato sensu, potrebbe ad una prima analisi sembrare vicino (non solo alla nostra sensibilità, il che non ha alcun peso ma pure) all’orientamento canonistico che traspare dai due interventi che qui si commentano l’approccio descritto da Fantappiè come scuola della “Chiesa-comunione secondo Concilium”.

L’autore la tratteggia così, dopo avere magistralmente esposto le peculiarità delle diverse scuole canonistiche:

«Altri canonisti (P. Huizing, T.I. Jiménez Urresti, J. Neumann, Knut Walf, ecc., in genere il gruppo dei canonisti della rivista Concilium) si servono della categoria di Chiesa-«comunione» per trarre conseguenze opposte sia alla impostazione giuridica della Scuola di Navarra, sia a quella teologica della Scuola di Monaco. Entrambe quelle concezioni sono giudicate estranee alla funzione storicamente svolta dal diritto canonico. La sua origine e il suo sviluppo sono da collegare con le esigenze mutevoli e i differenti livelli e articolazioni della comunione nella Chiesa. Proprio per questo il diritto canonico testimonia un notevole dinanismo di espressioni giuridiche e culturali legate alle differenti epoche e ambienti. La missione universale della Chiesa nel mondo contemporaneo impone un’ulteriore trasformazione della sua forma giuridica: secondo questi studiosi in un senso più spiccatamente pastorale. È la posizione più radicale che vorrebbe abbandonare la categoria di «ordinamento» (Kirchenrecht) e sostituirla con quella di «ordine ecclesiale» (Kirchenordnung). Il limite più evidente di questo indirizzo sembra la negazione della tradizione canonica e l’esplicita riduzione del carattere vincolante del diritto della Chiesa a non ben precisati criteri pastorali.» (EC, p. 190)

Bisogna riconoscerlo. È questa “posizione radicale” quella che intercetta meglio le istanze della nostra “liturgia del quotidiano”, la quale ben può dirsi presentare un “ordine” ma non già, addirittura, un “ordinamento”.

Tuttavia non sta qui la chiave interpretativa delle fonti oggetto del presente commento.

In verità proprio il “sintagma «hierarchica communio» tra i vescovi e il papa inserita in LG 21.” [LG sta per “Lumen Gentium”, la costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II], di cui parla Fantappiè a pag. 191 del suo saggio, si mostra come effettivo sostrato ecclesiologico dei recenti interventi normativi nell’ambito del diritto canonico orientale.

Fantappiè presenta le linee della scuola che ruota attorno al concetto di «hierarchica communio»:

«Questa formula, di largo successo negli studi degli ultimi decenni, ha finito per assumere un significato estensivo che comprende, ai diversi livelli, tutte le relazioni tra i fedeli e tra le Chiese. Verso questa categoria concettuale sono confluiti canonisti di orientamenti metodologici differenti. Alcuni vi si richiamano per evitare il duplice scoglio della riduzione del diritto canonico alla teologia o alla pratica pastorale (Pierantonio Bonnet, Hubert Müller, Gianfranco Ghirlanda, ecc.), altri la impiegano per mettere in risalto il punto di vista strettamente teologico nel diritto canonico e le conseguenze canoniche nella costituzione della Chiesa (W. Aymans, E. Corecco, Hervé Legrand).

Mentre Ghirlanda si è impegnato a definire della communio la struttura semantica e i diversi livelli  e Müller le implicazioni giuridiche (l’estensione del campo della soggettività a tutti i membri della Chiesa, l’enucleazione del principio di corresponsabilità, la necessità di organi di consultazione, aiuto e partecipazione nell’esercizio della potestà gerarchica), Bonnet, muovendo dal medesimo punto di partenza, è pervenuto ad una rilettura unitaria del diritto canonico post-conciliare con la categoria di pluralismo. Egli vede l’intera comunione ecclesiale pervasa, ad ogni livello delle sue espressioni, dal principio della «diversità nell’unità»: dalla uguaglianza e vocazione del singolo fedele all’articolazione dei ministeri, dalla partecipazione individuale al comune patrimonio religioso secondo il proprio carisma alle relazioni tra le chiese particolari e la chiesa universale.

Su quest’ultimo punto, com’è noto oggetto di ampie discussioni, è intervenuto Aymans per evidenziare la «mutua relazione» tra le due realtà e l’impossibilità di risolvere l’una nell’altra senza cadere nell’autocefalia o nella centralizzazione burocratica. Il problema può essere risolto nella prassi, operando in modo che ogni singola Chiesa particolare miri «ad essere sempre capace di integrazione per la Chiesa universale» (…).

Diversamente da questo «dilemma teologico», quello della priorità tra la Chiesa universale e la Chiesa particolare e tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, potrebbe trovare, secondo Arturo Cattaneo, una via di uscita solo sul piano formale, mediante la distinzione di una pluralità di livelli di discorso che possa servire a ricomporre i differenti angoli visuali in forma armonica.

Sui «limiti di un’ecclesiologia della Chiesa particolare» si è soffermato Corecco. In primo luogo per ribadire che la comunione tra le varie comunità ecclesiali si fonda sulla struttura episcopale. Ne deriva che la «garanzia» dell’autenticità della Chiesa particolare è possibile solo grazie alla communio ecclesiarum. In secondo luogo per trarre dalla dimensione della comunione, come essenza della vita ecclesiale, la rilevante implicazione che la dimensione sinodale-collegiale riveste un carattere «ontologico». Va considerata «espressione tipica del regime costituzionale della Chiesa sia universale che particolare» e va compresa nel senso più ampio di una forma «di corresponsabilità e di partecipazione di tutto il Popolo di Dio» che si attua in modi del tutto differenti dalla concezione democraticistica presente nella società secolare.» (EC, pp. 191-193)

L’evoluzione metodologica però non termina intorno al rapporto di “hierarchica communio”, né risulta questa l’unica prospettiva che, a fronte della “posizione radicale” sopra delineata, permetta di salvare la natura tipicamente giuridica dell’essere ecclesiale.

Prosegue infatti Fantappiè:

«Tanto l’approfondimento del tema del rapporto della Chiesa con il mondo, quanto la maggiore consapevolezza della comunione come realtà originaria dell’umanità che ha il suo fondamento ultimo nel mistero trinitario, hanno prodotto la fuoriuscita dall’ecclesiocentrismo e il recupero della concezione della Chiesa-sacramento di salvezza, ossia segno e strumento dell’unità e della pace nel mondo. L’effetto complessivo è stato di unificare e armonizzare diverse concezioni di Chiesa attorno alla dimensione della missione.

Nel frattempo si è attuata in campo ecumenico  una convergenza attorno alla categoria di Chiesa-popolo di Dio, che si è rivelata utile sia per rafforzare il rapporto tra cristianesimo e ebraismo, sia per cogliere lo scarto tra il popolo di Dio e le forme storiche della Chiesa .

Anche il concetto di Chiesa-istituzione, cui nei primi decenni del post-concilio si era contrapposta la visione della Chiesa-mistero della grazia, ha ricevuto una formulazione differente dal passato. La Chiesa non è un’entità fisica, una realtà oggettivante, una struttura giuridica definita in senso astratto che nel tempo avrebbe dispiegato la sua essenza fino ad assumere le forme attuali. La Chiesa è, prima di tutto, il prodotto di atti comuni di fede istituiti da Gesù che hanno innescato una serie di processi sociali e organizzativi che si ripetono nel tempo, dopo che è accaduto l’«evento originario». Da questo punto di vista l’istituzione Chiesa è stata reinterpretata come «l’espressione giuridica di forme tipiche di relazioni o di comunità»  che investono tutti i membri in maniera attiva e diversificata, non uno dei soggetti che la costituisce indipendentemente dagli altri.

Questa trasformazione del concetto di Chiesa, da realtà predeterminata a realtà che si autocostituisce sempre di nuovo, ha ricevuto l’impulso dalle moderne teorie del linguaggio e della comunicazione (Austin, Searle, Habermas, Apel, Luhmann).

Teologi come B. Kappenberg, W. Beinert, H.J. Höhn, M. Kehl e S. Dianich hanno applicato all’idea della Chiesa la teoria dell’agire comunicativo in vista di una reinterpretazione complessiva. Il mistero della comunione divina — nel quale si riassume la visione cristiana del destino dell’intera umanità — passa attraverso la comunicazione storica e le sue mediazioni in mezzo alla comunità. La fede presuppone e implica, al pari di qualsiasi altro linguaggio, un sistema di regole comuni che danno vita alla formazione di un identico messaggio fedelmente trasmesso negli strati della tradizione. La nuova relazionalità che sorge poi tra i credenti tra loro (nella Chiesa) e con gli altri (nel mondo) determina nuove situazioni globali di vita, le quali danno luogo a una struttura comunitaria e a processi graduali di istituzionalizzazione.

Infatti il carattere istituzionale della Chiesa si manifesta — come scrive Kehl — mediante la formalizzazione delle sue «azioni tipiche» che sono l’annuncio e l’insegnamento (martyría), la vita liturgico-sacramentale (leitourgía), il servizio ai poveri nella comunità e nella società (diakonía). Nella loro ripetizione esse in qualche modo si codificano e «assumono una forma “oggettiva”, relativamente autonoma rispetto ai singoli credenti, universalmente vincolante e rappresentativa».

Il passaggio dalla ecclesiologia all’ecclesiogenesi – mediato dalle intuizioni epistemologiche di Lonergan – mette in crisi la pretesa di predeterminare la realtà della Chiesa sulla base di una qualunque categoria o immagine.» (EC, pp. 195-198)

Il passaggio è importante perché registra il momento di “fuoriuscita dall’ecclesiocentrismo” attraverso una formalizzazione di tipizzazioni ecclesiali che provoca la presenza del diritto. Ma tale presenza diventa diaconale, a servizio cioè di una realtà che sfugge ad un inquadramento soltanto o soprattutto giuridico e non pretende di dominarla o costringerla in maglie logiche improprie per lo stesso contenuto che si vorrebbe imprigionato.

Vi è dunque la possibilità di pensare a categorie nuove, tra cui quella di “ecclesiogenesi”, di cui peraltro fu Leonardo Boff a parlare, forse per primo, nel 1986 con il suo volume, comparso per Borla, dal titolo precisamente di “Ecclesiogenesi” (ma con un sottotitolo alquanto problematico: “Le comunità di base reinventano la Chiesa”).

Osserva con esemplare profondità Fantappiè:

«Se l’ecclesiologia non può assolutamente attenuare la qualificazione divina dell’evento originario e fondativo della Chiesa, ma solo precisarlo alla luce della dimensione cristologico-pneumatica, tuttavia essa non può nemmeno continuare a trincerarsi dietro una rappresentazione semplificata della «manifestazione divina» della Chiesa senza cogliere il singolare processo della sua «costituzione» originaria e della sua «riproduzione» nel tempo.

Uno dei grossi vantaggi ermeneutici di questa prospettiva, che potremmo definire «processuale», consiste nel superamento reale delle tradizionali dicotomie tra l’«invisibile» e il «visibile», tra il lato «spirituale» e il lato «temporale», tra il «carisma» e l’«istituzione» della Chiesa. Anziché svolgere una funzione antinomistica, e quindi antigiuridica, la dimensione comunionale può venire rafforzata e legittimata dalla dimensione giuridica.

Inoltre la teoria dell’ecclesiogenesi — se assunta in maniera corretta  — può servire per collegare in maniera nuova la fondazione antropologica e teologica del diritto canonico con la struttura interna della chiesa (diritto divino positivo) e con la struttura globale della comunicazione umana (diritto divino naturale). Da un lato si recuperano e si evidenziano alcuni elementi genetici dell’ordinamento giuridico della Chiesa come i sacramenti, le responsabilità del popolo di Dio, la missione della Chiesa. Dall’altro lato si afferma che la nuova relazionalità cristiana ha una dimensione universale e comporta lo sviluppo di una pluralità di forme a seconda delle culture.» (EC, pp. 198-199)

La nascita della Chiesa Eritrea Cattolica sui iuris – secondo aspetto di novità istituzionale su cui ci soffermiamo qui ma per il quale non si dispone al momento di fonte scritta - è inveramento di tale ecclesiogenesi.

Per quanto l’interpretazione cristologica posta a base di una concezione della Chiesa come opera del “Divin Fondatore” possa oggi essere messa in discussione, un aspetto fondativo nell’essere e nell’agire comunitario è indiscutibilmente presente. La realtà comunitaria ha una sua origine istituzionale che il dato giuridico dovrebbe aiutare a cogliere ed enucleare.

È poca cosa il diritto, è “cosa umile” – come amava ricordare il grande Ivan Žužek -, ma presenta una sua grandezza nel momento in cui determina l’importanza di considerare un dato storico, contingente, interpretabile, complessivamente mutevole, quale è l’esperienza giuridica, dentro un contesto teologico.

È lo stesso Fantappiè a scrivere:

«Comincerei con l’osservare che nessun modello di Chiesa è di per sé neutrale. (…) Si è visto come ogni nozione di Chiesa, per quanto abbia il suo fondamento nella rivelazione e si sia accresciuta nella tradizione, non sia esente dall’influenza di modelli esogeni, particolarmente dalle forme del pensiero filosofico e dagli archetipi sociali e politici che strutturano la società in una certa epoca. Si pensi al ruolo rivestito da lemmi come «monarchia» nelle varie tipologie oppure «società», «congregazione» e «popolo». Non solo, però, i sistemi culturali condizionano i modelli ecclesiologici al loro nascere, ma continuano a farlo tutte le volte che determinati concetti originari vengono recuperati in un’altra epoca. Le nozioni di populus, communitas, societas non si possono impiegare nell’ecclesiologia senza la consapevolezza di essere soggette all’impregnazione culturale della modernità e al cambio di significato nelle varie società politiche.

I teologi e il magistero ecclesiastico selezionano i modelli nelle diverse epoche tenendo conto dell’autocomprensione della Chiesa, ma anche di altri fattori strettamente relazionati, come le esigenze della propria epoca , la necessità di prevenire o combattere eccessi o errori dottrinali e disciplinari, la volontà di riequilibrare le diverse dimensioni costitutive. Si capisce, dunque, che è pressoché impossibile evitare il conflitto delle interpretazioni e un certo grado di ambiguità.» (EC, p. 200-201)

Si tratta, per appunto, di capire se “il conflitto delle interpretazioni” assuma sempre una valenza contraria alle esigenze di chiarezza o se invece, per quanto paradossale possa sembrare, permetta di confrontare diverse interpretazioni con diverse esigenze della vita concreta delle Comunità, senza assolutamente in nulla abdicare ad ogni vincolante esigenza dottrinale ma recependo anche la storicità e la poliedricità di tale esigenza che è pur sempre “un’esperienza quotidiana”, un tavolo di discussione con le esistenze. Dottrina e vita.

I recenti interventi normativi che qui commentiamo vanno, a parer nostro, proprio in questo senso.

Sarebbe stato di per sé possibile, in forza dell’autorità promulgante, ribadire la vigenza delle antiche norme che non consentivano presenze presbiterali uxorate fuori dei territori soggetti alla giurisdizione che permettesse tali presenze (i territori patriarcali, ad esempio).

I “Pracepta” attestano di una scelta diversa.

La configurazione sui iuris della Chiesa Cattolica Eritrea avrebbe potuto, con perfetta fondatezza giuridica, ritenersi non necessaria, continuando le quattro diocesi di quel Paese ad essere suffraganee del Metropolita di Addis Abeba, in Etiopia. Invece è stata istituita la nuova sede arcivescovile metropolitana di Asmara. Ci pare che l’elevazione al cardinalato dell’attuale Arcivescovo di Addis Abeba possa interpretarsi, in qualche modo, come riconoscimento di tale “primato storico” nella configurazione canonica, ormai tuttavia plurale, delle sedi metropolitane cattoliche del Corno d’Africa.

Il carattere territorialmente, geograficamente circoscritto di quello che pare, tutto sommato, mero provvedimento di provvisione ecclesiastica richiede di assumere una ben altra visione: nell’Oriente Cattolico nasce infatti un’intera nuova Chiesa sui iuris.

Da dove deriva, in epoca contemporanea, questa apertura istituzionale della Chiesa a possibili diverse opzioni (purché non venga intaccato il “depositum Fidei”)?

La risposta non pare poter essere altra: dal Concilio Vaticano II.

E Fantappiè afferma:

«Con riferimento al Vaticano II, s’impone una duplice constatazione: la prima è che esso non presenta un «trattato» di ecclesiologia; la seconda è che le diverse interpretazioni del Concilio sono una costruzione «a posteriori» guidata da interessi e schieramenti teologici. Per ovviare a questi problemi alcuni ritengono sia sufficiente fissare criteri ermeneutici generali e coerenti nell’interpretazione dei testi .

Gli equivoci più gravi sembrano comunque provenire dall’isolamento di una definizione di Chiesa dal rapporto di complementarità con le altre. La vicenda del modello comunionale è emblematica per il fatto che si è prestata sia alla critica di essere funzionale alla democratizzazione della Chiesa in un senso associazionistico e assembleare estraneo alla teologia e al diritto canonico, sia di venire applicata nell’interesse del centralismo e della normalizzazione romana.

Come ha scritto Pottmeyer «la situazione […] per la quale la preponderanza di un concetto ecclesiologico si misura prevalentemente secondo l’influsso di un determinato gruppo od orientamento, oppure risulta dal compromeso tra interessi contrapposti non risolti, dovrebbe finire».

Una sola angolazione visuale della Chiesa non solo resta insufficiente ma produce limitate applicazioni; la scelta, poi, dei modelli di Chiesa dipende da determinati criteri, i quali presuppongono o implicano determinati valori; questi a loro volta presuppongono una determinata comprensione della realtà della fede.

Tuttavia il passaggio da una concezione formale a una concezione storico-salvifica, da una visione ontologica a una visione genetica sembra essere il cambio di maggior implicazione anche per i canonisti. L’«ecclesiogenesi» opera uno spostamento dal «che cosa» al «chi è» della Chiesa, dall’«essenza» alla pluralità dei «soggetti» (in primis i fedeli) pone l’accento non tanto e non solo su ciò che la Chiesa è ma piuttosto sul processo che «fa» la Chiesa sempre di nuovo sul fondamento originario. Questa teoria ecclesiologica potrebbe fornire un modello utile tanto per neutralizzare le obiezioni antigiuridiciste e antistituzionali sempre ricorrenti quanto per rafforzare gli indispensabili intrecci tra comunione e diritto.

In termini generali la conseguenza che dobbiamo trarre è l’impossibilità di fissare una tantum l’essenza della Chiesa o di operare una reductio ad unum del suo mistero. Da qui la necessità di vedere i problemi da più punti di vista contemporaneamente e di assumere questo schema «a più dimensioni» (teologico, giuridico, liturgico, pastorale, ecc.) come costitutivo dell’ecclesiologia.

Ciò esige l’acquisizione di un habitus teologico e canonistico diverso dal passato. Mentre l’ecclesiologia degli ultimi secoli pensava sulla base di uno schema unilineare e univoco, dal Vaticano II in avanti bisogna imparare a ragionare in termini multipolari e dialettici.

Occorre riscoprire un dato fondamentale e caratterizzante la forma cattolica: l’impossibilità di eliminare la complexio oppositorum nella struttura e nella vita della Chiesa mirabilmente espressa da Möhler. Come ha scritto Scheffczyk, nel pensiero cattolico «non si assiste ad alcun cambio repentino dal “sì” al “no”, non esiste alcun deciso “o così o così”, né si può notare alcun “capovolgimento” assoluto, mentre si trovano, invece, “continuità”, “dipendenza”, “connessioni armoniche”, elementi che “fanno perno uno sull’altro” e “opposizioni” solo relative».

Occorre riscoprire un dato fondamentale e caratterizzante la forma cattolica: l’impossibilità di eliminare la complexio oppositorum nella struttura e nella vita della Chiesa mirabilmente espressa da Möhler . Come ha scritto Scheffczyk, nel pensiero cattolico «non si assiste ad alcun cambio repentino dal “sì” al “no”, non esiste alcun deciso “o così o così”, né si può notare alcun “capovolgimento” assoluto, mentre si trovano, invece, “continuità”, “dipendenza”, “connessioni armoniche”, elementi che “fanno perno uno sull’altro” e “opposizioni” solo relative»» (EC, pp. 201-203)

Ci pare splendidamente ritratta qui la figura di un’articolazione istituzionale interna alla Chiesa che non eviti la provocazione del paradigma, a noi particolarmente caro, dell’et et, in sostituzione del classico, ma francamente vetusto ed ormai impraticabile, aut aut.

Prendendo coscienza di cosa stia accadendo nella compagine istituzionale cattolica in questo particolare momento, di francescana novità e di gesuitica complessità, le conclusioni cui giunge Carlo Fantappiè nel suo scritto disegnano ulteriori piste future di approfondimento.

Del resto, di uno dei due interventi canonici che abbiamo qui fatto intersecare con le considerazioni dell’illustre autore non esiste – come s’annotava - neppure ancora la forma scritta, l’atto formale ed effettivo traducentesi in fonte scritta di diritto. Insomma, la Costituzione Apostolica della Sede Metropolitana di Asmara non è stata ancora né emanata né pubblicata. Sarà questione di giorni, certamente, ma pare significativo che, dopo tanto codificare, la “iuris-dictio” sia più che mai un “ius-dicere” prima della sua precisa estrinsecazione normativa. C’è una norma prima della norma. Anche in diritto canonico.

Perché fu, 15 anni fa, pubblicato un volume sull’ordinazione presbiterale degli uomini sposati nelle Chiese Cattoliche d’Oriente che corrispondeva ad una tesi in diritto canonico non all’interno di un’omonima facoltà ecclesiastica ma per il conseguimento della laurea in giurisprudenza presso una laica Università degli Studi italiana?

Perché l’autore di quel testo avvertiva dentro di sé quanto ora Fantappiè riporta nitidamente nelle conclusioni del suo studio:

«1) le incomprensioni, le resistenze, gli equivoci sorti tra i teologi e i canonisti del Vaticano II sono l’effetto di processi culturali complessi: da un lato la separazione tra teologia e diritto canonico sancita dal Codex del 1917, dall’altro la mentalità antigiuridicista e antistituzionale di una parte dei teologi della seconda metà del Novecento;

2) occorre lavorare per una riconciliazione tra quelli che Fransen chiamava «i conviventi separati». Per questo è necessario superare gli isolamenti culturali reciproci entro cui teologi e canonisti si sono confinati;

3) il momento per lanciare una nuova collaborazione sembra propizio, dato che ci sono sempre più teologi convinti che è stato «certamente un tragico errore di molti padri conciliari del Vaticano II l’aver pensato troppo poco in termini sobriamente giuridici» perché, in questo modo, «alla fine, il diritto viene abbandonato all’ecclesiologia del Vaticano I»;

4) il rinnovamento recato dal Vaticano II esige l’apporto essenziale della scienza canonistica: essa non solo deve completare l’adeguamento della propria impostazione alla nuova ecclesiologia, ma contribuire in modo specifico alla sua coerente applicazione. La dottrina della communio rimane qualcosa di ideale e di poco significativo nella vita della Chiesa, se non si traduce e non si articola in strutture concrete e determinanti che realizzino e disciplinino i princìpi della corresponsabilità, della sinodalità e della collegialità;

5) tra queste tre dimensioni, un ruolo fondamentale potrà essere riservato alla sinodalità nelle chiese particolari, il cui grado di attuazione è notevolmente inferiore rispetto alla tradizione canonica e alle esigenze teologiche, in specie ecumeniche , nonché al sensus fidei come «volto nuovo del consenso e della partecipazione corresponsabile dei fedeli alla vita della comunione»;

6) il ruolo del diritto canonico in rapporto alla teologia non può essere semplicemente strumentale oppure complementare, né può restare confinato all'ambito organizzativo. Il diritto canonico è fattore costitutivo della Chiesa perché strettamente congiunto con la sua dimensione istituzionale e normativa. Al pari della ratio theologica, la ratio canonica possiede una sua indispensabilità e peculiarità. I suoi principi direttivi e regolativi (che Weber e Schmitt definiscono rispettivamente «razionalità sostanziale» e «razionalità specifica») non solo permettono di cogliere termini e limiti delle formulazioni ecclesiologiche, bensì anche le condizioni, il grado di coerenza e di rispondenza che sono loro necessarie al raggiungimento delle finalità salvifiche della Chiesa.» (EC, pp. 204-205)

Esiste un’identità diaconale del diritto canonico rispetto alla vita della Chiesa e pertanto né strumentale, né complementare ad essa, ma dotata di propria ministerialità, così come il ministero diaconale ha un “proprium” (benché ancora di non chiarissima focalizzazione teologica).

Siamo stimolati in particolare da quell’abbandono del diritto all’ecclesiologia del Vaticano I che precisamente Fantappiè riconduce ad un’affermazione di Klaus Schatz riportata e commentata nel volume di Medard Kehl su “La Chiesa”.

A noi insomma pare che buona parte di quanto acutamente e dettagliatamente evidenziato da Carlo Fantappiè trovi un’impensata possibilità di concretissimo inveramento nelle due innovazioni normative di diritto canonico orientale che abbiamo voluto prendere in considerazione.

Confidiamo che, nell’arco dei prossimi 15 anni – non sembra opportuno ricorrere a periodizzazioni più contenute, trattandosi di storia della Chiesa e del suo diritto -, vi sarà modo di verificare quanto simile possibilità si sia realizzata.