Berachot

di

Anna Petri

(Lettrice de “Il giornale di Rodafà”)

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In occasione di un mio recente viaggio in Terra Santa ho fatto conoscenza con le Berachot: le benedizioni. Sono le preghiere che gli ebrei recitano in vari momenti o occasioni della giornata: le Berachot di lode e ringraziamento, quelle che si intonano prima di eseguire un precetto e quelle che vengono formulate prima di godere di ogni cosa. Perché, per la fede ebraica, ogni momento della vita umana è importante e degno di essere sottolineato con una preghiera.

Esiste una Berachot che benedice Dio, Re dell’Universo, che ha dato al gallo il discernimento per distinguere il giorno dalla notte. Mi commuovo e sorrido: una preghiera di ringraziamento da recitare se al mattino ho la fortuna di ascoltare un gallo canterino!

Sento molto vicina alla mia sensibilità questa sottolineatura religiosa della vita, la presenza costante del Divino nelle mie ore, nelle nostre giornate, nella storia dell’umanità.

E se Dio mi è così vicino che ogni cosa che vivo mi sa parlare di Lui, la mia vita diventa celebrazione perpetua e preghiera perenne.

E’ il medesimo concetto contenuto nel sottotitolo de Il Giornale di Rodafà che oggi festeggia il suo trecentesimo numero: Liturgia del Quotidiano. E’ un modo altro di concepire la liturgia che esce dai luoghi sacri e tradizionalmente stabiliti e si insinua nella nostra vita, nella nostra quotidianità appunto, la percorre, la accarezza, la abbraccia.

La liturgia del quotidiano è espressione della nostra umanità: né più né meno di ciò che siamo. Tutto parte da Dio e tutto a Lui ritorna. In mezzo ci siamo noi  con la nostra intelligenza, i nostri limiti, i nostri sogni.

Allora tutto diventa degno di essere celebrato, come nelle Berachot, tutto è degno di lode e ringraziamento.

Da lettrice fedele ed affezionata degli articoli di Rodafà, salgo anche io su questa “piccola zattera”, come lui stesso l’ha chiamata, e seguo ogni settimana con piacere i suoi racconti che traggono spunto da storie personali e familiari, da eventi che riguardato la sua amatissima città, sino a spaziare a tematiche di più largo respiro che parlano di cultura, politica, fede.

Gli articoli del nostro direttore sono come delle scatole cinesi: gli argomenti sono contenuti l’uno nell’altro, i rimandi a links, suggerimenti di lettura, citazioni sono molteplici e spunto di approfondimento continuo.

Io lo ringrazio per questa sua scrittura così intensa ed appassionata. “E’ faticoso”, mi ha detto. Sì, lo credo. Costa fatica, come tutte le cose belle. Mi viene in mente il commiato che Giuseppe Ungaretti scrisse all’amico Ettore Serra: parlando della poesia egli concludeva dicendo “Quando trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è nella mia vita come un abisso”.

La parola è ricerca, scavo interiore. Certo che costa fatica!

E la ricerca porta sempre a percorrere nuove strade, ad abbattere i muri del già visto, del già detto, del già fatto.

Talvolta proponendo anche di incamminarsi lungo sentieri del tutto accidentati, forse anche pericolosi, che però ci sono necessari quando non vogliamo arrenderci all’idea che la vita sia monotematica e monocromatica ma crediamo fermamente nell’arcobaleno delle idee e nella libertà di esprimerle.

Così gli editoriali domenicali, lungi dall’essere dei monologhi, si offrono a noi con generosità. Ci pongono domande, ci stimolano, ci invitano alla riflessione.

Penso che il filo conduttore, la mezzeria di queste strade da percorrere sia il tema dell’amore.

Negli articoli di Rodafà l’amore viene scandagliato in ogni sua parte e tuttavia per lui, credo, come per noi, rimane un mistero.

Ma alla fine che significato diamo alla parola amore? Cosa diciamo quando dichiariamo: ti voglio bene, ti amo?

Dimentichiamoci i concetti religiosi, scordiamoci la morale e mettiamoci nudi ed indifesi davanti all’amore. Lo abbiamo provato tutti, ne dovremmo saper parlare con spontaneità e semplicità. Eppure a me riesce difficile. E poi di quale amore vorrei parlare? Esiste un solo tipo di amore? Si ama e basta? Oppure ve n’è più di uno?

Spesso si usa distinguere Eros e Agape, l’amore fisico e l’amore conviviale e spirituale. Ma io mi permetto di contraddire questa distinzione che separa due sfere dello stesso concetto: Eros e Agape possono benissimo convivere in armonia.

Eros non è solo amore fisico, è riduttivo attribuirgli unicamente questa accezione. Eros è una forza piena di vitalità che ci mette in comunicazione con l’Altro e con gli altri. Che ci rende capaci di cercare e di amare perché capaci di desiderare. Eros è quindi desiderio. Senza desiderio la nostra vita non ha senso.

E potrei cominciare ad elencare i desideri più semplici, quelli connaturati alle esigenze biologiche di ciascuno di noi: il desiderio di nutrirsi, di bere, di riposare, di ripararsi dal caldo e dal freddo. Ma questi desideri sono gli stessi che condividiamo con il mondo animale: anche le bestioline, nella loro purezza istintiva e innocente, cercano riparo si nutrono e si riposano.

Certo: il comportamento degli animali è innato, completamente inconsapevole. Essi obbediscono ad una legge che garantisce la loro stessa sopravvivenza.

Ma come negare che esista anche nel mondo della natura una propensione verso il desiderio del buono, come non pensare che Eros ispiri e guidi anche le azioni degli animali?

Per esempio: quanta tensione e seducente bellezza c’è nel canto degli uccelli che a primavera si cercano e si uniscono in giochi amorosi?

Mi viene in mente una deliziosa poesia di Umberto Saba, La gatta, dedicata ad una donna e alla sua gatta:

La tua gattina è diventata magra.

Altro male non è il suo che d’amore:

male che alle tue cure la consacra.

Non provi un’accorata tenerezza?

Non la senti vibrare come un cuore

sotto alla tua carezza?

Ai miei occhi è perfetta

come te questa tua selvaggia gatta,

ma come te ragazza

e innamorata, che sempre cercavi,

che senza pace qua e là t’aggiravi,

che tutti dicevano: «È pazza».

È come te ragazza.

È stupendo questo accostamento del mal d’amore della piccola felina con la smania amorosa della donna-ragazza. La pazzia d’amore è la medesima. Il desiderio struggente, pure.

Io sento delle affinità strettissime che ci legano al mondo animale. Gli animali, come noi, provano desiderio e dolore, conoscono felicità e paura. Dovrebbe unirci, noi e gli animali, un senso di profondo rispetto solidale, una gratitudine per il loro comportamento docile alle leggi della natura, obbediente ed umile.

Ci accomuna anche lo stesso destino di debolezza e vulnerabilità. Così San Paolo nella Lettera ai romani 8,19-22:

 

«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per il volere di colui che l’ha sottomessa  e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella liberà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto (…)».

Esiste quindi la promessa di un riscatto, di una liberazione che sarà per tutti e tutto indistintamente.

Tuttavia San Paolo ci ricorda che noi “abbiamo la primizia dello Spirito”.  A noi è stato donato molto di più.

Il famosissimo brano della Genesi racconta che quando Dio plasmò l’uomo soffiò nelle sue narici un alito di vita. Respiriamo con il respiro di Dio. Il nostro desiderio si apre alla dimensione del divino perché abbiamo nei polmoni il Suo stesso fiato. E’ desiderio della felicità. Dell’appagamento, della pienezza d’amore. E’ bisogno irresistibile di respirare e sentire l’ossigeno della vita che invade il nostro corpo e il nostro spirito. Sì perché noi siamo fatti di terra e di cielo, di carne e di anima. E non c’è contrapposizione, non c’è iato, non c’è scissione. Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio e la nostra carne è dimensione così santa che Dio stesso ne ha voluto condividere la sostanza mediante l’incarnazione.

Il nostro corpo è cosa buona, è il contenitore bello della nostra anima. Tutto ciò che ricevo a beneficio del corpo mi induce a ringraziare e a benedire. Un cibo buono, il caldo della casa, la doccia bollente, il letto accogliente per il mio riposo.

Ma il corpo ha bisogno di molto di più. L’anima in esso contenuta si fa sentire con insistenza. E desidera baci e abbracci. Erri De luca ha affermato: “l’amore non è amore senza baci”. L’amore non è mai sazio di baci. Quando vedo la mia nipotina non posso resistere: la stringo a me forte e la bacio sulle guance e sul collo tiepido e profumato. Eros, sono sicura, è felice!

Mi piace ascoltare il battito del suo cuore. Dovremmo sempre ascoltare questa musica dolce e regolare che scandisce i secondi del nostro esistere. Poggiare l’orecchio sul cuore dei nostri bambini, dei nostri amici, dei nostri amori.

E con gli abbracci che portano conforto, che raccontano l’amicizia, che sussurrano l’amore, che condividono il  dolore, Eros e Agape si uniscono e si confondono.

L’anima parla attraverso il corpo. E di baci e di abbracci ne sanno molto la persone che si vogliono bene. Eros può sfiorare dolcemente il cuscino di due amanti, ed il loro amore, la loro estasi, diventare lode alla vita e preghiera di ringraziamento.

Questa è liturgia del quotidiano, dunque. Lasciarsi andare alla chiamata dell’amore che umanizza la nostra vita e la rende degna di essere vissuta.

E tuttavia Amore è fantasioso ed è capace di esprimersi nei modi più diversi. Il gioco soave di Eros punta in alto: Eros è intriso di spiritualità.

Mi vengono in mente raffigurazioni pittoriche di sante e martiri dai volti rigati di lacrime, lo sguardo rivolto al cielo. Spalle nude e carnose, seni  bianchi. Donne bellissime tutte concentrate a meditare e a fare penitenza, inconsapevoli della loro fisicità così esplicita e sensuale.

Mi appare come una visione una bellissima statua del Bernini: L’estasi di Santa Teresa d’Avila.

Un angelo con un sorriso malizioso e birichino solleva adagio la veste della Santa per trafiggerla, proprio nel cuore, con la freccia trattenuta nella mano del braccio destro alzato.

La Santa ha perso i sensi: la bocca semiaperta, gli occhi chiusi. L’angelo potrebbe benissimo essere un cupido  che lancia, impertinente, strali d’amore verso innocenti e inconsapevoli fanciulle.

Ma qui siamo nella sfera del sacro, si potrebbe obiettare, non in quella del profano.

Dobbiamo distinguere dunque? L’amore, l’affetto, il trasporto che provo per un mio simile è diverso dalla tensione del mio cuore verso la dimensione del divino? Non è vero invece che nella mia vita, nella nostra vita, sacro e profano costituiscono insieme un’unità inseparabile, l’uno non può vivere senza l’altro?

Davanti al sacro il mio atteggiamento è prima di tutto quello di meraviglia e di ascolto. Solo ascoltando comprendo e solo comprendendo conosco. Solo la conoscenza  mi porta ad un rapporto di intimità con Dio. L’intimità è, lo sappiamo tutti, fiducia ed abbandono.

Perdere il contatto con la dimensione del divino porta al disorientamento. Eros diventa allora capace anche di suggerirmi i desideri dello spirito. E il mio spirito cerca Dio e non può vivere senza di Lui. Faccio mie le parole di Geremia: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”. La seduzione parla ancora di amore. Parla di fascino e di conquista. La seduzione è passione.

Ti amo mio Signore, con tutta me stessa, perché sei il mio creatore, perché conosci i miei pensieri più profondi, perché ti commuovi per le mie debolezze, perché non ti stanchi di me e non mi rimproveri per i  miei tradimenti.

E tuttavia una domanda sollecita urgente il mio cuore: che me ne faccio di tutto questo amore?  Non mi basta questo rapporto con Dio così esclusivo ed intimo!

Concordo pienamente con quanto ha affermato qualche tempo fa Enzo Bianchi: «Sì Dio non basta. Provo fastidio per la frase di Teresa d’Avila (la Santa della statua del Bernini più sopra citata) “Dio solo basta”. No. Il nostro non è un Dio totalitario, ci lascia tante altre realtà: negli affetti e negli amori. Inoltre non è mai un nostro possesso. La sua presenza è elusiva. (…) La mia convinzione profonda è che Dio non sia un’entità esterna alla quale mi rivolgo. E’ dentro di me e negli altri. L’unica possibilità che ho di trovarlo è nelle relazioni con gli altri».

Relazioni con gli altri. Sacro e profano, carne e spirito, terra e cielo, umano e divino. La nostra vita, solo questo. Ecco che cosa me ne faccio di tanto amore.

E l’amore non basta mai. L’amore è incontentabile invoca: ancora e ancora!

E anche io invoco e oso una preghiera: Oh Signore non farmi vivere l’abisso della solitudine che imbruttisce e incattivisce. Donami tanti amici, tanti volti cari, tanti amori. Fammi essere figlia e madre, sorella e sposa, amica e compagna per tutti i giorni della mia vita!

E mi trovo a pensare, in perfetto accordo  con Stefano Sodaro che più volte lo ha ribadito nei suoi articoli, che questo Amore, questo Eros così benigno  e delicato abbia connotazioni strettamente femminili. E non perché sia prerogativa della donna, ma perché possiede caratteristiche squisitamente muliebri. Amore sa dare la vita, e non intendo unicamente quella biologica che pure, almeno per ora, è ancora facoltà della donna. Amore ha parole di vita e conosce il senso della maternità che è donazione gratuita ed illimitata, cura delle persone che si appellano a noi, dolcezza, pacificazione.

La maternità di Eros si espande su tutte le creature, è la tenerezza di Dio che ci ha donato una natura generosa e ricca. Che ci nutre e ci conserva. “Sora nostra madre terra” direbbe San Francesco. Sì, la nostra madre terra amatissima sulla quale trascorriamo i nostri giorni, sulla quale viviamo, gioiamo, godiamo e anche soffriamo e moriamo, celebrando infinite volte le nostre liturgie del quotidiano.