Le due Santità, moltiplicate per cento

Novembre 2001, Roma, Piazza del Sant’Uffizio, Ingresso del Perugino.

Il sottoscritto direttore attraversa l’inferriata, aperta, che separa l’Italia dallo Stato della Città del Vaticano. Si reca al Simposio “Ius Ecclesiarum Vehiculum Caritatis”, che si svolge nell’Aula Nuova del Sinodo, in occasione dei dieci anni di entrata in vigore del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.

La guardia svizzera di turno scatta sull’attenti ed esibisce un perfetto ed affascinante saluto militare. Eppure questo direttore non ha alcun colletto inamidato, né croce pettorale, né fasce paonazze o zucchetti di sorta. Ci mancherebbe altro.

All’uscita, tuttavia, uguale. Mano destra alla fronte, saluto impeccabile.

Pensa il direttore: “Che sia venuto il tempo di omaggiare i laici insieme con i chierici? Che ormai l’autorità del Popolo di Dio sia stata riconosciuta da qualche, a me sconosciuto, recentissimo documento pontificio?”

Febbraio 2002, Milano, Chiesa di San Carlo al Corso.

Sempre il sottoscritto partecipa all’Eucarestia in memoria di padre David Maria Turoldo a 10 anni dalla morte.

Presiede Mons. Gianfranco Ravasi, Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, ma ancora neppure vescovo.

Faccio la Comunione dalle sue mani. Erano grandi amici, lui e Turoldo.

Giugno 2002, sempre Milano, zona Bande Nere.

Un vescovo africano, in pantaloni, camicia e marsupio da viaggio, viene a trovare due sposi – tra cui ancora il qui presente direttore - che celebrano il primo anniversario di matrimonio.

Sua Eccellenza dorme su una brandina nella cucina del loro appartamento in affitto di 40 metri quadrati.

Si reca, il successore degli Apostoli, a visitare il Duomo, ma quando prendiamo il taxi e dico al tassista: «Beh, potrà raccontare di aver fatto una corsa con un vescovo a bordo», quello pensa che stia scherzando, comincia a voltare la testa più volte, a rischio di incidente stradale, e poi entusiasta si profonde in commenti. «Così dovrebbero essere tutti i vescovi. Qui c’ha la scorta, il vescovo, con non so quanti agenti davanti alla macchina e non si riesce quasi ad avvicinarlo.»

Trieste, 4 ottobre 2009, Festa di San Francesco d’Assisi, Cattedrale di San Giusto.

La città dove ha sede questo giornale da quel giorno ha due vescovi, di cui uno emerito – come accade ora con il Papa -, profondamente diversi, per stile pastorale e orientamento socioculturale.

Sgranando gli eventi degli anni che furono, compare una costante, che oggi mi sembra di particolare evidenza.

Solo la pluralità, la diversità, la multiformità dà un senso all’essere nostro, all’essere insieme, nella Città o nella Chiesa, negli spazi laici dove tutti hanno il diritto d’entrare ed in quelli della lode a Dio dove invece tutti, pure, hanno diritto d’entrare.

C’è un “et et” che va a sostituire, anche teologicamente, quell’ “aut aut” che ha combinato disastri, sociali, etici, psicologici, esistenziali, religiosi, persino politici.

Eppure l’ “et et” impaurisce, perché porta con sé la contraddizione.

Dio che muore è una contraddizione. Infatti, risorge nel Figlio.

Ma simile scappatoia ermeneutica non basta più, non dice più quale sia il motivo per cui ognuno di noi vive, ama e soffre.

Del “Dio nell’alto dei Cieli”, certamente unico nella sua maestà, ma altrettanto unicamente, solitariamente, lontano, le parole non dicono più nulla.

Del Dio incarnato nelle mani, negli occhi, nei pianti e nelle risate di ogni vita, quale che sia e come che sia, le parole non bastano mai. E non bastano perché appunto sono fascinosamente contraddittorie e per questo, solo per questo, salvifiche.

Avremo due Papi.

Pare non sia avvertita molto (nessuno ne sembra troppo impensierito – forse è solo perché tutti ne sono molto lieti, non so) la portata, all’orlo dell’eresia, di simile constatazione, manifesta come la luce del Sole.

Qualunque giustificazione si cerchi, qualunque tentativo apologetico si accampi, l’ “et et” è consacrato per i secoli dei secoli.

Quand’anche divenisse il cardinal Scola – come sembra altamente probabile, meglio dirlo subito, così da toglierci il pensiero – il prossimo Papa, onde marcare la continuità con il ratzingerismo, la realtà dei due Papi è ormai definitiva ed ineliminabile.

E questo “et et”, sancito per volontà pontificia, ha un’intrinseca bellezza, estetica, prima ancora che culturale o teologica.

Si moltiplica, questo “et et”, per il numero delle nostre ore, delle nostre sofferenze, delle nostre gioie, dei nostri sguardi, dei nostri amori, delle nostre domande, delle nostre parole. L’ “Unam Sanctam” di Bonifacio VIII può essere ora guardata come “multiplicem et variam”.

Due Santità. Si rivolgeranno, i due Papi, l’uno nei confronti dell’altro chiamandosi “Santità”.

Forse verrà il momento in cui anche nei confronti di qualunque donna, uomo, bambino, bambina, nonna, nonno, papà, mamma, innamorato, innamorata, malato, povero, disperato, avvilito, abbandonato, dimenticato, condannato, i Pastori supremi della Chiesa diranno, con devozione, come a Cristo stesso, “Santità.”

Santità moltiplicata all’infinito.

Un numero straordinario questo di oggi del nostro giornale.

Non solo perché è il 200, ma per la qualità dei contributi, il cui spessore e la cui ricchezza trasmettono il desiderio struggente di cercare, cercare sempre, cercare ancora, indicando una via ben precisa. Quella, per appunto, della bellezza della diversità, una bellezza ad un tempo (ancora l’ “et et”) laica e credente, che anche nei due straordinari interventi accademici, del Prof. Miccoli e del Prof. Minnucci – che non ringrazieremo mai abbastanza – traspare, benchè da essi investigata con maestria di analisi oggettiva, come senso, motivo profondo, di ciò che siamo, desideriamo, sogniamo. Almeno di ciò che portiamo dentro noi, pochi, poveri, piccoli, che ogni settimana, tramite questo giornale – nato in modo del tutto artigianale e che ancora in modo del tutto artigianale, benché convinto, prosegue – si interrogano.

Si leggevano venerdì scorso, sul “Corriere della Sera, a pag. 58, queste parole di Severino Dianich: «L’uomo contemporaneo non è più disponibile, in nessun ambito della vita comune, ad approvare a priori tutto ciò che si decide e si fa in alto: l’emancipazione da ogni forma di autocrazia fa parte ormai dell’animo dell’uomo contemporaneo (…). L’annuncio cristiano è che Gesù, e lui solo, è il Signore, per cui nemmeno alla Chiesa si conviene di esercitare una signoria sulle coscienze: il suo linguaggio, pur nel dovuto esercizio del suo magistero, che ha il carisma dell’annuncio autorevole della parola del Signore, dovrà essere sempre segnato da un forte senso di sottomissione a Dio e presentarsi al mondo come espressione di “un pensiero umile”.»

Pensiero umile, pensiero debole...

Buona domenica a tutti, di cuore, e buon compleanno a te, mio caro Rodafà.

 

Stefano Sodaro