Sara Alzetta - La pace di Fannie e Anita II

La pace di Fannie e Anita II

di Sara Alzetta

 

LUCKA: Ma io lo amo, Anita, lo amo! Devi credermi!

ANITA: Si, Lucka, ti credo. Ma pensaci. Sei giovane. Hai solo vent’anni! Sai, no, come si dice: hai tutta la vita davanti! Adesso magari non ci crederai, ma è così: un giorno incontrerai un altro e dopo un poco di questo qua non ti ricorderai neanche che viso aveva!

LUCKA: No Anita, io no. Io l’ho sempre in mente. Anche quando penso a altro ce l’ho sempre in testa. Non posso nemmeno immaginarmi di non pensare a lui! Lui... lui è la mia vita! Mi capisci, Anita? Capiscimi, ti prego, almeno tu! Sono innamorata. Sai cosa vuol dire essere innamorati, no!?

ANITA (sospira): Innamorati, Lucka, de ‘sti tempi! E po’ l’amor…Una volta la gente si sposava che quasi non si conosceva e poi l’amore veniva. Pensaci!

LUCKA: Ma se poi non veniva?

ANITA: Sono rischi. Tutta la vita è un rischio, figurarsi l’amore

(“Caro nome” da Rigoletto, parte orchestrata, su cui Anita accenna: Caro nome del mio cuor…)

Come piaceva a mia mamma questa musica! Rigoletto.

La cantava qualche volta.

L’aveva vista, anzi sentita, c’era troppa gente per  vedere, la volta che era andata in Loggione, al Verdi, come viaggio di nozze.

(canta, sempre da “Caro nome: Innamorata”)

Innamorata, mi aveva chiesto Lucka!? Amore. io?!

Sofferenze d’amore, forse.

Perché Gustele, che facevamo l’amore da un anno, io calcolo, appena scoppiata la guerra, via lui, mai più visto!

Ma mi era passata presto, con  la pancia vuota e la lotta per sopravvivere che ancora non se ne vedeva una fine, anche se la guerra era finita.

Perché adesso crisi c’era più di prima e ogni famiglia aveva avuto il suo morto e storpi e invalidi, che le strade erano piene.

Come lavoro mi era andata non proprio di lusso, ma me la cavavo.

Lavoravo a giornata, ma quattro giorni minimo li prendevo, come cameriera per pranzi speciali, quelli da 20-30 coperti e più.

E alla fine potevamo spartirci il mangiare che era avanzato dalla cucina, non dai piatti, e ce lo portavamo a casa.

Ancor più abbondanza c’era quando si dava una mano ai cuochi, che  era poi il lavoro che mi piaceva.

Ma a volte, anche servendo a tavola, mi veniva un velo sugli occhi e dovevo concentrarmi per non cedere a quella fatica che non mi abbandonava mai: la fatica del passato.

Perché vedevo, come averle di fronte, mia nonna e mia sorella Ida che mi salutavano da dietro il filo spinato del Campo di baracche di Wagna e io mi voltavo e non riuscivo a andare avanti.

Andare avanti era difficile perché, poi, in pochi mesi, mia sorella l’avevano ammazzata e la nonna era morta di spagnola, là a Wagna, in campo.

Morte sole tutte due.

Lasciandomi  sola al mondo.

Il lavoro mi teneva occupata la testa.

E Stefan, il fratello di Lucka.

Che una sera di giugno che aveva assai rinfrescato, mi aveva presa sottobraccio perché eravamo in ritardo a una riunione politica, e mi aveva stretto, avvicinando la sua testa alla mia.

Avevo sentito il cuore  battermi forte e proprio in quel momento un volo di passeri, venuti da chissà dove, forse per un refolo di bora, mi aveva tagliato la strada.

Stefan si era messo a correre e mi tirava contro vento, ridendo.

E allora, qualche giorno dopo, che mi ero trovata un capello bianco in testa, mi era venuta voglia di cucinare qualcosa di buono, un strucolo, come per far festa, per far vedere che bene che sapevo  farlo io, che rubavo con gli occhi ai cuochi.

Ma la pasta non si stendeva, il burro non si scioglieva, le zibibbe non si gonfiavano nell’acqua.

Voce Maschile: No’ sta filarghe su, Anita!

ANITA: Ma no capisso, Stefan! No me xe mai capità una roba compagna! E desso cosa femo?

Voce Maschile: Te digo mi coss’ che femo! ‘Ndemo su in Carso in Sagra!

ANITA: Mi ero messa, e  quel giorno era tornato caldo, l’unico abito elegante che avevo, di panno pesante blu, “bluette Anita, che dona alla carnagione”, come aveva detto la vecchia padrona che me lo aveva passato, e una borsetta a tracolla rossa.

E così addobbata eravamo anche andati a Prosecco, a trovare la sua famiglia, e era la prima volta.

La sorella Lucka, bionda, un bel figurino, alta, era proprio un tipo a parte: riservata, somigliava alla mamma, di cui era rimasta orfana a tre anni.  

Stefan invece somigliava al papà Ivo.

Né alti né bassi, asciutti, piglio  energico, diritti sulla schiena.

Non riuscivo a smettere di fissarli tanto ero contenta della somiglianza, fin nella barbetta alla Lenin che anche il vecchio Ivo portava.

E Lenin, su un grande manifesto, lo aveva sopra il letto in camera sua, il papà Ivo.

Che era rimasto taciturno per tutta la mia visita, e quasi risentito.

Era un patriota sloveno e forse che il figlio gli portasse a casa un’italiana non lo entusiasmava.

Perché, e Stefan ne parlava spesso, l’Italia, appena arrivata, aveva promesso agli sloveni gli stessi diritti degli altri cittadini e più scuole in lingua slovena di quante ce n’erano sotto l’Austria.

Era scritto su volantini e manifesti  che erano stati letti anche in chiesa.

Ma subito dopo avevano mandato in internamento in Sardegna maestri e sacerdoti sloveni e croati dal Carso e dalle periferie e  era cominciata la discriminazione e repressione verso  gli sloveni, che  era nazionale e politica. Slavo-bolscevichi li chiamavano i fascisti.

E intanto quel maledetto 13 luglio 1920 si avvicinava.

NARRATORE: Faceva caldo.

L’estate al suo culmine splendeva sugli scontri e le devastazioni della città sospesa.

E arrivò il 13 luglio 1920, il vero battesimo del fuoco di tutto il fascismo organizzato italiano. A Trieste squadre in camicia nera assaltarono il Balkan, sede del Narodni Dom e gli dettero fuoco.

Furono distrutti la sala teatrale, la grande biblioteca, la sala della musica, l’archivio del giornale sloveno Edinost.

Il danno alla cultura slovena, il guasto fra le due comunità, molto grandi, vennero salutati trionfalmente dalla stampa cittadina: “le fiamme, che ben si potevano scorgere  da diversi punti della città, mostrarono la forza del fascismo in attesa.”

E ancora: “Le fiamme del Balkan purificarono finalmente Trieste, purificarono l’animo di tutti.”

ANITA: Lucka si era molto attaccata a me e all’inizio mi aveva commosso questa ragazza di venti anni –  io ne avevo quasi dieci di più – che mi si era tanto affezionata. Anche perché era chiusa e cambiava umore abbastanza improvvisamente.

Però le  piaceva cantare, a Lucka, e una sera, mi ricordo, che eravamo in orto a tagliare radicio, si era messa anche a ballare, e girava come un turbine, tutta rossa e con gli occhi brillanti che sembrava che ballava con qualcuno.

Naturalmente avevamo i nostri segreti e le nostre  confidenze che ci facevano ridere come matte.

Ma non c’era stato niente da ridere quando mi aveva detto che si era innamorata di un tocco grosso della Prefettura, che si chiamava Peppe, e si parlavano anche.

Di nascosto, naturalmente, dalla famiglia e dalla comunità.

E di nascosto dalla polizia, dai carabinieri, dai fascisti, dalla prefettura, Lucka, che era maestra slovena, da quando le scuole in lingua  slovena erano state via via chiuse e poi abolite, insegnava a casa.

I bambini arrivavano  uno alla volta e uno alla volta andavano via, con i libri sotto i vestiti. Ma attorno alla casa c’era sempre un carabiniere di ronda, e se qualcuno si avvicinava alla porta e batteva i piccoli nascondevano penne, quaderni, libri sotto le maglie e qualcuno si nascondeva nel sottoscala e aspettava col fiato sospeso.

Non era la sola scuola clandestina, e ogni tanto qualcuna la scoprivano.

Ma far ragionare Lucka era difficile.

LUCKA: Anche fra te e mio fratello c’è differenza di lingua e nazionalità, Anita.

Tu sei italiana e lui sloveno. Però vi volete bene e nessuno ha da criticare!

ANITA: Non far finta di non capire, Lucka. Tanto per cominciare io e tuo fratello siamo proletari socialisti e internazionalisti.

Per noi la nazionalità non conta. E poi noi sappiamo quello che siamo!

LUCKA: Ma Peppe sa chi sono!

ANITA: Questo dubito visto che tu per prima non lo sai.

Parli come se fossi Giulietta e Romeo e ti comporti come Mata Hari!

LUCKA: Ma cosa posso farci se lo amo!

ANITA: Tirarti indietro, devi, prima che sia troppo tardi!

LUCKA: È già troppo tardi!

ANITA: Ma, non dirmi Lucka che …

LUCKA: No, non sono incinta. Forse sarebbe meglio.

ANITA: Oh insomma Lucka! Non fare la stupida.

E poi dovevi pensarci prima!

LUCKA: Prima quando? Prima non pensavo ...”prima” non sapevo …

ANITA (interrompendola): Non sapevi? E adesso sai? Sai che pericolo che corri!? No, perché tu quando eri piccola tu (cerca le parole) studiavi!

Forse che sai cosa vuol dire fare la serva e cucinare in casa d’altri e essere così (c. s.) così piccola che la testa ti arriva appena sopra lo spargher e hai paura di scottarti?

LUCKA: Ma Anita, cos’hai?

ANITA: Ho che tu che sei maestra perché tuo papà e tuo fratello si sono sacrificati per farti studiare! E’ così che li ripaghi?

LUCKA: Non essere cattiva con me, ti prego, ci pensa già la vita!

ANITA: La vita! Hai dovuto essere internata in un  campo di baracche tu? e patir la fame e…

LUCKA: Ma, cosa mi rimproveri, Anita?!

ANITA: Che ti metti a rischio perché non sai cosa fai! Che sei cresciuta come una… principessa viziata!

LUCKA: No, viziata non sono. E neanche libera.

E non dirmi che nessuno è libero sotto questo regime, perché io sono schiava anche nei sentimenti.

E ho paura.

Sempre.

Paura di essere scoperta, di essere punita e maledetta.

Di essere colpevole.

Per mio papà, per mio fratello, per la comunità, se sapessero che mi parlo con un italiano della Prefettura, sarei una rinnegata.

Un italiano, un cifariello, un chitarrista, un mandolinista come diciamo a Trieste dei regnicoli.

Il mio Peppe che è studiato, elegante, e mi basta vederlo per star bene.

Prima di lui non c’è stato niente, nella mia vita, che meriti di essere ricordato. Solo la mamma.

Un ricordo di lei ce l’ho chiaro in mente.

Una mattina presto aveva un gallo e una gallina per mano, legati per le zampe, a testa in giù, che sbattevano le ali.

Mia mamma, e di lei in casa non parliamo mai, all’alba era già in strada.

Con un cesto di uova in testa, un fagotto gonfio di erbe selvatiche che raccoglieva pei campi. Andava a Trieste, a vendere e barattare e poi restava nelle case a fare la lavandaia e tornava che era notte.

La mamma, nel riquadro della porta e io sul materasso per terra. Si volta e mi sorride: Dormi, torno presto.

Lei e il mio Peppe, che se sapesse che insegno sloveno mi giudicherebbe una traditrice. Questa sono io.

Un essere mostruoso, sbagliato, spezzato in due.

Mi faccio pena e mi faccio schifo da sola.

ANITA: Il cielo era diventato blu scuro, era fresco, qualche stella brillava limpida.

Quel discorso che ero venuta a farle, e me lo ero ripetuto tante volte: “Lucka, fai quello che vuoi, ma non dirmi niente, non voglio sentire più niente”.

Un discorso così, semplice, non me lo ricordavo più. Non affezionarsi a nessuno mi era sembrato facile ma affezionarsi era stato ancora più facile.

Passai una mano sulle spalle, sulla schiena di Lucka e cominciai a strofinarla che tremava. Era buio e noi eravamo uscite per prender la legna dalla catasta sotto la tettoia: Stefan e il papà  a casa ci aspettavano e chissà cosa pensavano che non ci vedevano.

Avevo furia di rientrare.

Anche perché l’accenno di Lucka alla mamma morta mi aveva turbato.

Il passato, i ricordi carichi di dolore e di perdita mi facevano ancora male.

Anche quelli degli altri.

LUCKA: Per un momento mi era sembrato di averla vicina Anita, ma subito mi era sfuggita.

Del resto che  senso aveva cercare appoggio negli altri?

C’era posto per la fiducia in un mondo in cui perfino i bambini dovevano nascondersi se andavano nella scuole dove si insegnava la loro lingua, l’unica che conoscevano?

Dello strucolo che Anita aveva portato era rimasta una buona metà.

Mi sono seduta al tavolo, da sola, e l’ho finito tutto, fettina dopo fettina, adagio, ostinatamente.

NARRATORE: Profumo di mare. Vento. Porto affollato.

La città percorsa da un flusso inesauribile fatto di ritmo, rumore, ambizione infinita.

È l’immagine che Trieste ha della  se stessa dell’Ottocento e del primo Novecento. 1925: altro mondo, altra epoca.

Il traffico marittimo mondiale è dimezzato rispetto al periodo prebellico.

È una crisi globale di cui risente  tutta l’economia.

A Trieste l’impatto è particolarmente devastante  sulla cantieristica e l’edilizia.

A nulla valgono le orgogliose rivendicazioni  riguardo al ruolo svolto dalla città-emporio sotto il vecchio impero.

Le piazze commerciale mitteleuropee di riferimento sono collassate, seguendo le sorti catastrofiche delle armi austriache.

A Trieste 20.000 posti di lavoro vengono persi mentre l’Italia tarda ad estendere alle Nuove Province le leggi sociali sulla disoccupazione vigenti nel Regno.

In questa desolazione la popolazione slovena e croata, misera, affamata e cenciosa come  il resto del proletariato, è, in più, disprezzata, con le spalle al muro.

Tutta la stampa in lingua slovena viene soppressa. In ogni provincia della Regione nascono le Commissioni per la “restituzione” dei cognomi alla forma italiana.

Tra le cose tristi e grottesche di questo periodo crudele capita  che tre fratelli di nome Sirk che abitano uno a Trieste, l’altro a Gorizia e il terzo in Istria, si chiamino, dopo la “restituzione”,  rispettivamente Sirca, Sirtori e Serchi.  

Tra i segnali della desolazione della città c’è il numero dei suicidi: in percentuale il più alto al mondo assieme a San Francisco.                                                                    

ANITA: Per andare a Prosecco si prende prima il tram di Opcina e poi si fa la Napoleonica a piedi.

Non ci vado più tanto spesso  a trovare Ivo e Lucka perché adesso sono cameriera fissa in Caffè e lavoro 6 giorni la settimana.

Assunta  senza dover prender la tessera del Partito Fascista che  la chiamiamo  la tessera del pane, perché senza è difficile lavorare.

A queste pressioni del regime i miei padroni resistono, finché possono.

E gnanche strucoli non porto  perché, quando ero andata su dopo quella sera fredda con le stelle, Lucka prendendo il mio dolce aveva subito detto: «Non portar più strucoli, Anita, l’ultima volta mi ha fatto male».

E mi aveva tenuto il muso tutto il tempo.

La volta dopo io, con la mutria, non l’avevo neanche guardata.

Dispetti, risentimenti che erano andati avanti anni.

E mi dispiaceva perché capivo quanto male si doveva sentire Lucka, mentre intanto la politica di  persecuzione  del fascismo contro gli slavi montava.

Se andava a Trieste è probabile che dove si girava la chiamavano “s’ciava”.

A casa, a Prosecco, sotto gli occhi e il controllo di tutto il paese, era più sola che mai.

Era cambiata: non più la ragazza snella e luminosa di quando l’avevo conosciuta.

Non che fosse grossa, ma come  pesante e goffa, con il viso tirato  e una ruga in mezzo agli occhi.

E gli occhi, lo sguardo avevano patito il cambiamento più grande: incerti, opachi.

A volte mi fissava come per dirmi:  “Aiuto, oggi ho paura” ma prima che riuscissi a trattenere la sua espressione, a ricambiarla, aveva  voltato la testa.

Non esser riuscita a dirle: “Coraggio, Lucka, stai calma. Sono qua, sono con te.” mi pesava. Quanto tempo ci  vuole per calmare i ricordi!

Io quando avevo conosciuto Lucka pensavo di aver sopportato tutto quello che si poteva sopportare: fame, miseria, mia sorella prostituta per necessità, ammazzata, tutta la famiglia perduta.

Sola con il lavoro che non c’era o, se c’era, non si sapeva se dopo un mese ci sarebbe stato ancora.

La politica al principio mi aveva infervorata, ma quando ti senti dire e ripetere “Ogni peggioramento  delle condizioni lavorative se toglie alle  menti proletarie - che poi eravamo noi – le illusioni su questa società, rappresenta un passo avanti verso la rivoluzione comunista”, e il risultato è che siamo sfruttati più di prima, affamati come  prima, e i passi avanti  non li fa la  rivoluzione ma il regime

...Ripensavo a quella  sera di 6 anni avanti, con il cielo freddo e le stelle luminose, come a una consolazione.

Una sera di parole vere.

Per riavere una sera così ci voleva un strucolo, che dovevamo dimenticare lo strucolo della discordia. Ma quel giorno, era inizio febbraio del ’29, la pasta non si stendeva, il burro non si scioglieva, le zibibbe non si gonfiavano nell’acqua. E intanto Stefan, che doveva passarmi a prendere, non arrivava.

Dalla finestra, nell’aria buia, si vedevano fiocchi di neve come farfalle pesanti.

Mi affaccio e  Stefan è di sotto, e ha la stessa ruga testarda in mezzo agli occhi di sua sorella. Non mi ero mai resa conto di quanto si somigliano.

Entra e mi tende le braccia: «Lucka è sparita. Ieri mattina è andata a Trieste e non è tornata né la sera né la notte. L’abbiamo cercata dappertutto.»

Non sa cosa pensare, è impaurito.

Lo abbraccio mentre in cuor mio ho deciso: non dirò niente di quello che so.

Lucka: i suoi sentimenti complicati, i sogni contraddittori, un desiderio d’amore infinito.

Sento ancora la loro forza, la loro bellezza e mi commuovono.

Non ho paura.

E non c’è niente da aggiungere.