La domanda

di

Andrea Dessardo

(Cultore della materia in Storia della Pedagogia al’Università di Udine, dottore di ricerca in Teorie, Storia e Metodi dell’Educazione presso la LUMSA di Roma e giornalista pubblicista)

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Hanno marciato – si dice – circa due milioni di persone l’11 gennaio a Parigi in reazione all’attentato che quattro giorni prima aveva lasciato sgomento il mondo. La più grande manifestazione di sempre, si sono sbilanciati a dire alcuni commentatori. Diverse, e molto, le motivazioni che hanno spinto la gente a scendere in piazza: il desiderio sincero di difendere la libertà d’espressione e di satira, la condanna di un gesto tanto efferato e sconvolgente, il bisogno d’identificarsi con una comunità così duramente colpita; forse anche un’emozione incosciente sollecitata dal martellamento dei media e dal tam-tam sui social network, dove gli stessi slogan sono circolati a ripetizione in un vortice di rimandi ed echi, un gioco di specchi che non implica necessariamente la riflessione, ma forza ad agire d’istinto. Tutte quelle persone, ognuna con le sue convinzioni più o meno radicate, giuste o sbagliate o irrilevanti, non manifestavano contro il governo, come di solito si usa, ma contro un nemico invisibile, che abita loro accanto, che vive quotidianamente nelle loro città, che lavora, ama, e insieme odia: invisibile perché non sono capaci di vederlo. Hanno manifestato i borghesi, gli intellettuali, gli studenti. Forse mi sbaglio, ma nelle foto non ho visto facce da banlieue, di quelle banlieue popolate da maghrebini e africani emarginati, quelle che avevano preso fuoco nel 2005, già allora lasciando sgomenta una Francia troppo convinta della propria civiltà, troppo laica per leggere a fondo nel cuore degli uomini. Era, si diceva, una manifestazione di borghesi, ed è sempre sospetto quando a manifestare sono i borghesi e gli intellettuali.

Nei giorni successivi siamo rimasti nuovamente sbigottiti a vedere le manifestazioni che, dal Pakistan al Niger, rabbiosamente si dissociavano dalla folla di Parigi: decine di chiese date alle fiamme nell’Africa subsahariana.

Per loro sì, siamo davvero tutti «Charlie».

Potevano avere tutti i diritti a manifestare – pacificamente -, in altre occasioni, contro le blasfemie del settimanale, non hanno disdegnato di farlo neppure davanti a tutto quel sangue versato.

Ed hanno preso di mira proprio le chiese, che nulla avevano a che fare con la linea editoriale, anzi, esse ne erano a loro volta vittime. Meno sbigottiti, purtroppo, siamo rimasti alla notizia dei duemila e più morti in Nigeria.

Questa scissione nel comune sentire dell’umanità mi ha dato molto a pensare. Non credo affatto nello scontro di civiltà preconizzato da Huntington, ma la presa di distanza delle masse popolari dei paesi musulmani dal dolore dell’Occidente dovrebbe farci soffrire, così come dovremmo dolerci della nostra incapacità di inchinarci sulle guerre lontane, i cui echi ci giungono piuttosto attutiti: quelle no che non erano manifestazioni borghesi. Il solco scavato tra i due mondi mi è parso abissale, la gerarchia nei valori da difendere, la libertà d’espressione senza limiti da una parte, una sacralità assolutamente inattaccabile e sorda dall’altra.

È tra questi due estremi che dovremmo ragionare, cercando di ricucirli, di ricomporli nella quotidianità banale delle nostre azioni celebrando, come Rodafà appassionatamente ci invita a fare, la liturgia del quotidiano.

       Dando per scontato che non difendo un solo istante i terroristi né le masse fanatiche che hanno dato alle fiamme le chiese, ammetto che io non mi sono sentito nemmeno «Charlie». Ho provato una strana tristezza e quasi commiserazione per le persone scese in piazza con i loro slogan: come al crepuscolo, un senso struggente di malinconia. Che cosa dobbiamo difendere? Da chi ci dobbiamo difendere?