Tertulliano e l’obbligo del velo

di

Cristina Simonelli

(Presidente del CTI – Coordinamento Teologhe Italiane)

Esporrò anche in latino la mia deliberazione: tutte le nostre ragazze devono essere velate quando entrano nell’età adulta (virg. 1,1)

 

Queste note si soffermano su uno scritto cristiano antico espressamente dedicato alla questione del velo delle donne nella comunità cartaginese di inizio III secolo dell’era volgare. L’occasione prossima dell’intervento di Tertulliano, l’autore, è molto precisa: alcune donne adulte ma per scelta non sposate (virgines) rifiutano di portare il velo durante il culto, come le loro coetanee coniugate. La questione in primo piano è dunque relativa alla prassi comunitaria ed al modo di vivere la sessualità femminile all’interno di essa; ma la sua trattazione, evidentemente, offre anche indicazioni sull’abbigliamento femminile e sulla relazione fra corpo femminile, velo e desiderio sessuale e, non ultimo, permette di avanzare alcune considerazioni sul metodo con cui “natura, Scrittura (sacra) e consuetudine” vengono evocate per prescrivere abbigliamento e comportamento delle donne.

1. Tertulliano di fronte alle donne

Lo scritto in questione non è certo l’unico contesto in cui Tertulliano si confronta con le donne: è ben noto l’interesse del polemista nordafricano per la questione, così come sono noti alcuni suoi passi decisamente misogini, come il seguente, che apre un pamphlet, precedente al nostro, Sull’abbigliamento delle donne:

«Non sai di essere Eva? In questo modo è ancora operante la sentenza divina contro codesto tuo sesso: è necessario che duri anche la condizione di accusata. Sei tu la porta del diavolo, sei tu che in maniera tanto facile hai spezzato il sigillo dell’albero, sei tu la prima che ha trasgredito la legge divina, sei stata tu a circuire colui che il diavolo non era riuscito a raggirare; tu in maniera tanto facile, hai annientato l’uomo, immagine di Dio…».[1]

Se vi accostiamo altri scritti, troviamo un autore tale da invitare ad una sorta di paradossale “elogio del misogino”: spesso – e di fatto con rare eccezioni[2] - è proprio chi è più turbato ed ossessionato dalle donne a fornire la maggior parte delle nostre conoscenze in merito. Così è lui, scagliandosi contro alcune “vipere sfacciate”, ad informare che in Cartagine vi era un gruppo di donne che rifacendosi ad una genealogia apostolica femminile – gli Atti di Tecla – insegnava e pretendeva di battezzare[3]; è ancora lui che descrive il ruolo liturgico di una soror nella sua comunità, probabilmente collegata alla Nuova profezia meglio nota come montanismo[4], le cui visioni sono peraltro sottoposte alla verifica e interpretazione autorizzata di un “noi” che sembra molto maschile[5]; è ancora lui a parlare alla (e della?) propria moglie con accenti affabili e rispettosi[6], così come è lui a definire stuprum qualsiasi rapporto sessuale, dentro e fuori delle nozze, e siano esse “prime” o “seconde”, per divorzio o vedovanza, così come sostiene che sulle cose che riguardano la gestazione e la nascita bisogna che dicano le donne[7]... mentre è lui che ne sta scrivendo!

Nella interpretazione di questo quadro non univoco e comunque riassunto qui in modo sommario, si dovrebbero perlomeno tener presenti due aspetti, di diverso significato ma di grande rilievo: l’impianto retorico del polemista, coerente nel metodo di confutazione anche a costo di essere contraddittorio nei contenuti, e la concezione ambivalente della corporeità.

Quanto al primo aspetto, vale almeno considerare il fatto che l’abilità di dimostrare il tema prefisso, a tutti i costi, è percepita come bagaglio indispensabile del bravo retore, e non come difetto di coerenza e di autenticità. E’ questo un orizzonte di indagine forse più promettente che la semplice ricerca di uno sviluppo diacronico dei temi: se T. deve dimostrare che il matrimonio, in quel caso tra due cristiani, è buona cosa, attinge a tutti i luoghi a sua disposizione per farlo; se vuol dimostrare che quel matrimonio di cui parla, non è opportuno, nello stesso modo, ricorre a tutto ciò che può escogitare per dimostrare che quello e, se necessario,  ogni rapporto sessuale è negativo. In questo, appunto, l’evoluzione ideologica ha forse meno peso di quanto i lettori moderni possono pensare. Quanto all’atteggiamento espresso nei confronti della corporeità, Giorgio Bonaccorso titola «Il corpo ambivalente nell’epoca patristica» un paragrafo del suo scritto Il corpo di Dio, dedicando a Tertulliano due pagine, sotto la rubrica de’ «il corpo come vergogna e come salvezza»[8]. L’assunto è che il discorso, sospeso tra esaltazione e disprezzo, muti non solo e non principalmente a seguito di un’evoluzione del pensiero, ma cambi relativamente all’argomento, proponendo una difesa della fisicità in campo dottrinale, contro il dualismo “gnostico”[9], ed assumendo invece i toni del disprezzo quando l’ambito è morale. Mi sembra, tuttavia, che si potrebbe avanzare anche un’altra interpretazione: i toni di interesse misto a disprezzo sono gli stessi, nell’uno e nell’altro ambito, cambiando solo il motivo per cui sono utilizzate le descrizioni della sessualità e della gestazione. Può mostrarlo uno dei passi più spesso citati “a difesa”, in cui il tema è sostenere la realtà dell’incarnazione:

«Poiché fin dall’inizio ci hai fatto conoscere il tuo odio per la nascita, adesso mettiti a sproloquiare su questa sozzura che gli elementi genitali hanno messo nel ventre, su questi laidi grumi di sangue e di acqua, su questa carne che deve, per nove mesi, trarre il suo nutrimento da questo letamaio. Descrivi dunque questo ventre, ogni giorno sempre più mostruoso, tormentato e mai in riposo, neanche nel sonno… tu odi la nascita dell’uomo, e come puoi amare qualcuno?  Il Cristo, almeno, amò quest’uomo, questo grumo formato nel seno tra le immondizie, quest’uomo che viene al mondo attraverso gli organi della menzogna, quest’uomo nutrito in mezzo a ridicole carezze. E’ per lui che è disceso dal cielo, per lui che ha predicato, per lui che in tutta umiltà si è abbassato fino alla morte e la morte di croce».[10]

La difficoltà dunque non è costituita da un’astratta corporeità, ma dalla sua sessuazione, ossia dalla concreta corporeità delle donne e degli uomini, nella cui descrizione fisica sono senza dubbio implicate figurazioni simboliche e schemi socioculturali: e si potrebbe mostrare la cosa anche, per converso, indicando i passi sulla resurrezione in cui i risorti avrebbero una corporeità asessuata. [11] L’orizzonte di queste affermazioni – ad un tempo retorico, culturale e individuale – configura, dunque, la posizione di genere[12] di Tertulliano, determinante anche nello scritto che stiamo qui percorrendo.

2. Uno scritto sul velo

La causa prossima dello scritto - che allude nell’incipit ad un altro intervento in greco, non conservato – è la rivendicazione di alcune donne non sposate (virgines) di tenere il capo scoperto durante il culto, nonostante l’età matura, come segno della loro particolare condizione. L’argomento, in termini però meno netti ed in uno stadio precedente della questione è già affrontato nel de oratione, abitualmente collocato negli anni 200/206: mentre la prima parte dello scritto commenta strettamente la preghiera del ‘Padre Nostro’, la seconda affronta il tema frequente nell’autore della prassi comunitaria (disciplina), introducendo in forma sintetica questioni cui in seguito dedicherà più ampia attenzione. Cosi, per quanto qui interessa, prima accenna a habitus, cultus e ornatus della donne[13] e poi, date le prassi diversificate che esistono, propone di considerare ‘nuovamente’ (retractare) l’opportunità che tutte le donne, coniugate o meno, portino il velo durante la preghiera. [14]

Adesso però sembrano venire a confronto due diversi usi delle donne della comunità: alcune virgines mettono il velo, e il gruppo di coloro che si svelano durante il culto si sentirebbe minacciato nella propria libertà e identità dall’altra prassi, tanto da volere costringere anche le altre a scoprire il capo. Non c’è modo di poter verificare questa seconda affermazione del cartaginese e dunque neanche di confutarla: sottolineiamo però il fatto che questa accusa tra gruppi di donne non viene più ripresa nel testo, mentre il resto degli argomenti portati istruisce la causa contro la libertà e l’orgoglio che si palesano nel capo femminile non velato. Anche questo sviluppo della questione, comunque, oltre all’orizzonte montanista conclamato, permette di datare il nostro scritto attorno al 213, vicino alla redazione de L’anima  e La resurrezione della carne.[15]

Le protagoniste/accusate sono dunque alcune donne, il cui caso è amplificato da un episodio recente: un vescovo[16] ha accettato nel gruppo delle vedove, un ordo riconosciuto ufficialmente nella chiesa nordafricana, una ragazza di 20 anni che aveva evidentemente fatto voto di verginità e mostrava durante la preghiera il giovane capo scoperto. Forse la ragazza fa capo al più ampio gruppo, che resta infatti l’oggetto diretto della requisitoria: per strada camminano velate, come tutte le donne sposate[17], ma quando entrano nel luogo in cui è adunata la comunità cristiana per la preghiera, si svelano, ostentando così la libertà e la condizione ecclesiastica che vivono. Se questo è il fatto di cui si discute, non altrettanto evidente ne appare il significato: Tertulliano infatti interpreta questo contegno non solo come immorale, ma come pretesa di un riconoscimento particolare dovuto alla verginità e rivendicazione di un rango ecclesiastico. Bisogna dire, in proposito, che ben presto la gerarchizzazione degli stati di vita nelle comunità cristiane condurrà proprio all’esito qui paventato, per cui la condizione monastica rappresenterà in effetti un primato ed un motivo di vanto, relegando in secondo piano la condizione delle persone coniugate.

Tuttavia la presenza insistita di un vocabolario relativo ad audacia e libertà (liberae e nuda plane fronte temerarie excitatae/3,3; impudentia, petulantia/3,6; libertatas capitis/9,4, audere/13,1 e 14,5; libertas/13,2) lascia trapelare un’istanza di indipendenza ed anche una richiesta di riconoscimento di ruolo che va ben al di là non solo dello schieramento di argomenti morali, per cui il comportamento è sanzionato in quanto subdolamente seduttivo, ma anche dell’accusa di orgoglio e, in fondo, del tentativo di rimandare la questione ad una querelle des femmes.

3. Le donne di Grecia e d’Arabia

Se questa è la questione principale – e dunque riguarda più i ruoli all’interno della comunità cristiana che l’abbigliamento delle donne in generale - non è irrilevante neanche quanto viene affermato sugli usi in merito al velo in altri contesti, sia cristiani che pagani.

L’uso cristiano di velare anche le vergines è ricondotto a chiese di Grecia e della barbaria ad essa legata – stesso termine in de praescriptione è riferito ad esempio ad Efeso – ed anche ad alcune comunità in Africa, senza che esse vengano geograficamente precisate (alicubi). Il richiamo alle Chiese di Grecia potrebbe tuttavia anche essere legato alla prova costituita dall’excursus paolino sul velo, presente nell’epistola indirizzata dall’Apostolo alla comunità di Corinto, che, come vedremo, rappresenta un punto di riferimento importante dell’opusculum. Si tratterebbe comunque di comunità note negli scritti neotestamentari, dato che sono definite di fondazione apostolica. Non vengono invece ricordate qui le donne Giudee, a differenza di quanto accade nel de oratione, in cui si fa riferimento all’uso giudaico: «Anche Israele osserva questa usanza, ma anche nel caso non la osservasse, la nostra Legge ampliata e reintegrata potrebbe bastare per difendere la nuova prescrizione di introdurre il velo per le appartenenti al genere femminile».[18]

L’uso pagano è invece riferito all’Arabia, nome con cui veniva indicata la provincia romana che si era succeduta al regno nabateo, ma spesso, per estensione, indicava anche altre popolazioni semitiche:

«Ci giudicheranno le donne pagane dell’Arabia, che non si coprono solo il capo, ma tutto il viso, più contente di poter godere di metà della luce e della visione attraverso l’unico occhio che lasciano scoperto, piuttosto che di prostituire l’intero volto» (17,4).

Questo uso, che appare a Tertulliano piuttosto barbaro, sarebbe a suo dire stato riprovato da una romana reina, che avrebbe commiserato quelle donne, che potevano guardare e amare più che essere viste ed amate. Schulz-Flügel in questo caso avanza l’ipotesi, che comunque tale resta, che la potente signora in questione possa essere Giulia Donna, siriana, e dunque non ignara dei costumi dei gruppi ricordati. Accoglie favorevolmente inoltre l’opinione di Monceaux, che all’inizio del secolo scorso proponeva come possibile fonte scritta di Tertulliano, se se ne deve indicare una, il testo di re Iuba sull’Arabia, che è citato da Tertulliano nel suo Apologeticum (19,6). E’ scontato, ma nondimeno forse utile, rimarcare come quest’uso definito arabo – secondo Schulz-Flügel indicazione etnografica più che geopolitica – sia largamente pre-islamico.

4. Scrittura, natura, disciplina: cortocircuito del metodo

Cercando di andare oltre la descrizione per vedere come si sviluppa il ragionamento, osserviamo una massiccia presenza di passi biblici, citati a favore dell’opinione di chi voleva far portare a tutte il velo. Lo scritto è stato a ragione definito da Barnes un’«attenta esegesi di un testo cruciale della Bibbia (1 Cor 11,5ss)»[19]. In effetti anche nell’affermazione di aver condotto la trattazione secondo “Scrittura, natura, disciplina”[20] si può scorgere un’influenza del testo paolino, che a propria volta parla di natura e discute di consuetudine, anche se la modalità retoricamente articolata e dialetticamente stringente è ben distante dall’affanno[21] con cui gli argomenti sono presentati nell’epistola inviata a Corinto.

4.1 La Scrittura

Adesso, come nello scritto precedente sulla Preghiera, il testo principale è dunque il passaggio paolino sul velo per le donne che profetizzano nell’assemblea:

«Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno dell’autorità a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo» (1 Corinti 11,5-15).

L’argomentare di Tertulliano riguarda principalmente la dimostrazione che con mulieres si intende ogni essere femminile adulto, dunque virgines comprese, e non solo le donne sposate, come obiettavano evidentemente sostenitori e sostenitrici dell’opposta opinione. Rispetto a questo, ha buon agio a dimostrare che il termine può essere utilizzato ampiamente in riferimento a tutto il genere femminile, ricorrendo all’analisi di vari testi, da Genesi ad altri passi paolini.

Quanto al resto, non manifesta alcuna incertezza nell’interpretazione, “risolvendo”, si fa per dire, tutti i punti controversi e tuttora discussi: caput significa che l’uomo è capo della donna, potestas - con cui il testo che ha a disposizione rende la crux interpretum rappresentata dalla ‘exousia sul capo a motivo degli angeli’ - indica l’autorità che il marito ha sulla moglie, gli angeli sono per lui senza dubbio quelli di Genesi 6, che sono stati sedotti dalle figlie degli uomini. Inoltre, mette in relazione questo passaggio con quello di 1 Cor 14,33-36[22], in cui viene imposto (da Paolo? Dalla lettera comunitaria a cui risponde?) il silenzio alle donne: i due passi sono anche ad una prima lettura contraddittori, in quanto la disciplina proposta dal primo riguarda l’abbigliamento delle donne che intervengono “profetizzando” nell’assemblea, mentre quella richiesta dal secondo sembrerebbe richiederne il silenzio pubblico. Diverse sono le ipotesi avanzate, dall’antichità fino ad oggi[23] e la loro discussione non è qui opportuna: segnaliamo solo che, in fondo, non solo la prassi[24] ma anche la natura fanno ancora largamente (troppo?) parte dell’instructio esegetica.[25]

4.2 La natura

Ma la natura, evocata già nel testo paolino e volentieri ripresa anche in diverse latitudini e temperie, non si accontenta di determinare la foggia dei capelli: in Tertulliano almeno, scopertamente, descrive e di conseguenza prescrive di preferenza i comportamenti sessuali. Quanto segue ne è un esempio, che si può facilmente riconnettere a quanto detto all’inizio sull’atteggiamento misto di interesse e disprezzo:

«A causa di quella razza di teste che credono di essere roba da vendere al mercato, le sante vergini vengano allora trascinate in chiesa, rosse di vergogna perché sono lì, davanti agli occhi di tutti, tremanti di paura perché sono esposte a capo scoperto, poco manca che vengano invitate a qualche prestazione sessuale. E.. per una brava ragazza, tutte le volte che la si espone in pubblico significa essere praticamente svergognata, senza dire poi che subire concretamente la deflorazione nella carne è qualcosa di meno grave, dato che è una semplice conseguenza di una funzione della natura» (virg. 3,4).

Caratteristica anche la descrizione della pubertà: le ragazze cessano di essere vergini dal giorno in cui possono non esserlo più (virg 11,2).  Questa pretesa natura configura in realtà certo un discorso di genere, in cui campeggia, ben più che la condizione femminile, una problematica prettamente maschile. Se poi anch’essa, nonostante la potenza ostentata, ricorra alla supplica in realtà o per artificio retorico, non è facile dire:

«…ci resta ancora il compito di rivolgerci alle interessate con la speranza che accettino più volentieri quanto abbiamo detto. Puoi essere una madre, una sorella, o una figlia vergine – tanto per usare i termini che si riferiscono alle varie età - ebbene, vi prego, mettetevi il velo in testa! Se sei una madre fallo per i figli, se sei una sorella, fallo per i fratelli e se sei una figlia fallo per i padri!» (virg. 16,4).

4.3 Un metodo

Al di là delle singole affermazioni è soprattutto interessante osservare la sintesi che Tertulliano offre del proprio metodo. Raccoglie infatti i tre luoghi già enunciati nell’epistola paolina, ma così facendo dà vita ad un sistema rigido, nel quale i singoli elementi, così legati e messi sotto l’autorità divina, diventano inattaccabili:

«…ecco i punti sui quali abbiamo basato la difesa del nostro modo di risolvere questo problema: in conformità alla Scrittura, in conformità alla natura, in conformità alla disciplina.

La Scrittura istituisce la normativa,

la natura ne fornisce la conferma

e la disciplina la concretizza…

la Scrittura è di Dio, di Dio è la natura e di Dio è pure la disciplina. Qualunque cosa si opponga a queste tre realtà, non è di Dio».[26]

In questo nuovo orizzonte anche il riferimento al Paraclito che guida alla verità intera, frequentemente bagaglio di movimenti ansiosi di novità e libertà, diviene perno di una prescrizione irrevocabile. La tesi iniziale, infatti, non è più avanzata come un’opinione, ma presentata come esigenza ispirata:

«Il Paraclito è l’unico al quale si debba attribuire dopo Cristo il titolo e l’onore di maestro (Mt 23,8) egli infatti non parla da sé, ma riferisce i precetti che vengono insegnati da Cristo (Gv 16,3). E’ l’unico che abbia un’autorità a cui rifarsi nella guida della chiesa, perché solo lui è il successore (antecessor) di Cristo. Quanti l’hanno accolto, alla consuetudine preferiscono la verità» (virg.1,7)

Poi il testo, inesorabile, prosegue:

«Quanti l’hanno ascoltato di continuo, e non soltanto allorché un tempo manifestava le sue profezie, impongono alle ragazze di coprirsi con un velo» (virg. 1,7),

Anche al di là del contenuto delle affermazioni, mi sembra utile porre attenzione al metodo, che resterebbe “rischioso” anche se applicato a temi meno inquietanti: Scrittura/natura/disciplina sono di fatto piegate senza verifica ad una precomprensione, che viene in questo modo sacralizzata, come nella menzione iniziale del Paraclito. Così il discorso viene trasformato in theologoumenon, la cui eventuale contestazione si connoterà non solo come sovvertitrice di un ordine patriarcale, ma anche come necessariamente dissacrante.

5. Una storia degli effetti: «da mihi magistrum…»

La discussione cartaginese presto viene archiviata o quanto meno non si presenta più nella stessa forma e la velatio rappresenterà il rito di consacrazione delle vergini, mentre le profetesse non hanno luogo pubblico[27]. Ma la lezione di Tertulliano ha trovato molti allievi e, tra i più promettenti, Girolamo, che scrive:

«.. io trovai a Concordia, che è una città dell’Italia, un vecchio di nome Paolo, il quale diceva di avere visto a Roma, quando era ancora giovane, un segretario, ormai in età avanzata, del beato Cipriano, il quale riferiva che Cipriano, come era solito, non aveva mai lasciato passare un giorno senza la lettura di Tertulliano e spesso gli diceva: da mihi magistrum» (de viris illustribus, 53, trad. Ceresa Gastaldo)

L’accuratezza con cui Girolamo si cautela potrebbe far pensare che la denominazione di magistrum… non sia così certamente ciprianea. Comunque, anche al di là di questo sospetto, non c’è dubbio che l’esegeta del IV secolo citi ampiamente gli scritti di Tertulliano, in larga misura anche quelli di epoca montanista e dunque, si riterrebbe, “censurati”.

Interessante a questo proposito istruire un confronto con la questione agitata da Gioviniano, che sosteneva la pari dignità battesimale dello stato matrimoniale e di quello verginale, e che dunque aveva qualche tratto in comune con i rimproveri di orgoglio che Tertulliano aveva rivolto alle vergini svelate del secolo precedente. Gioviniano propone infatti quattro tesi, che si ricostruiscono proprio attraverso la confutazione di Girolamo: 1.Le vergini, le vedove e le spose, che sono state battezzate in Cristo, se non differiscono per le altre opere, hanno lo stesso merito. 2. Coloro che sono rinati nel battesimo plena fide non possono essere nel peccato. 3. Non c’è differenza fra astenersi dal cibo ed assumerlo in rendimento di grazie. 4. Tutti coloro che avranno conservato il proprio battesimo avranno nel Regno dei cieli una stessa ricompensa[28]. Così si conclude il I libro:

«Vergine, non ti reco offesa: hai scelto la continenza per l'urgenza del tempo presente. Ti è piaciuto esser santa nel corpo e nello spirito: ma non ti insuperbire, sei parte della stessa Chiesa di cui sono membra anche le donne sposate» (Gioviniano, in Girolamo, Contro Gioviniano, I,4)

Anche Agostino interviene a distanza nel dibattito, con La bontà del matrimonio, spiegando in seguito così i motivi del suo intervento:

«L’eresia di Gioviniano che metteva sullo stesso piano il merito delle vergini consacrate e la pudicizia coniugale, prese nella città di Roma un grande sviluppo. Si dice addirittura che anche alcune monache, la cui pudicizia era stata fino ad allora superiore a qualunque sospetto, si riducessero al matrimonio. L’argomento principale con cui le spingeva, era la domanda: «Tu dunque, sarai migliore di Sara, migliore di Susanna o di Anna?» E sulla base della Sacra Scrittura rammentava loro tutte le altre figure femminili così ammirevoli, alle quali esse non potevano pensare di essere superiori e neppure pari. In questo modo aveva la meglio anche sul celibato santo di santi uomini, sempre rammentando le nozze dei padri e facendo il paragone con loro. A queste mostruosità la Chiesa di Roma resistette con fedeltà ed energia estreme. Nessuno ormai osava sostenere le tesi di costui apertamente, però esse continuavano a circolare sotto forma di mormorii nelle conversazioni private. Ma era necessario affrontare l’eresia con ogni forza che il Signore ci donava, anche se ormai i suoi veleni strisciavano occultamente, soprattutto perché si pretendeva che non si potesse controbattere Gioviniano lodando il matrimonio, ma solo denigrandolo. Ecco il motivo per cui pubblicai questo libro» (Agostino, Ritrattazioni 2,22).

Gioviniano incorre in diverse sanzioni, ed è confutato, appunto, da Girolamo, attraverso una silloge di testi in buona parte del Tertulliano montanista, ma senza utilizzare Il velo delle vergini, che avrebbe forse apportato argomenti contro l’orgoglio verginale.

Resta, comunque, la singolarità di una vicenda per la quale un personaggio in aperto contrasto con la grande Chiesa, come Tertulliano, vede conservata la quasi totalità della sua opera, a fronte di altri autori fortemente penalizzati, come ad esempio origene. Saggezza? Tolleranza? O propensione rigorista condivisa? La storia degli effetti potrebbe anche far pensare ad un irrigidimento di temi e di toni, che riguarda, in particolare, la sessualità in eccesso e, ad esempio, la giustizia in difetto.

Per questo contenuto e per molti, persistenti, cortocircuiti di metodo, una narrazione di vicende pur remote di uomini e donne che tenga in considerazione anche i rispettivi modi e ruoli, apre spazi pratico-simbolici di resistenza agli integralismi[29] e di riformulazione degli orizzonti, anche religiosi:

«Lo scritto delle donne che a un tratto affiora? Grida soffocate infine fissate, parola e silenzio insieme fecondate! (...) Già da gran tempo ormai sempre fra corpo e voce e questo beccheggiare di lingue nel movimento di una memoria da scavare da soleggiare rischi della mia scrittura d’involo d’esilio d’incessanti partenze segni nella sabbia ancestrale. Il beccheggiare delle lingue, certo sarebbe non rinunciare alla speranza…Scrivere è una strada da aprire… scrivere è un lungo silenzio che ascolta».[30]

 

NOTE

[1]     Tertulliano, L’eleganza delle donne, I,1,1-2 - traduzione di Sandra Isetta in Tertulliano, Opere catechetiche, Città Nuova, Roma 2008. Della stessa autrice anche l’efficace introduzione (pp. 325-351), che ripropone le acquisizioni fondamentali dell’edizione curata in precedenza da Isetta (Firenze,1986).  Cfr. commento anche in Renato Uglione, La donna in Tertulliano, in Donna e matrimonio, 81-110, in particolare 81-89.

[2]         Tra le quale segnalerei, almeno, l’epitalamio composto da Paolino di Nola insieme alla moglie Terasia, dono per le nozze di Tiziana e Giuliano, futuro vescovo di Eclano e oppositore di Agostino in merito ad una laus nuptiarum. 

[3]         Tertulliano, Il battesimo, 6,1 («quella vipera della setta di Caino») e 17, 4-5.

[4]     Tertulliano ha aderito alla Nuova Profezia in una fase successiva alla fondazione frigia, della quale mantiene la stima per il carisma profetico, l’ansia di rinnovamento e compimento escatologico (attesa della fine dei tempi), manifestando in particolare un forte accento rigorista in campo morale e più ampiamente ecclesiale. Oggi si discute se la sua appartenenza si sia configurata o meno come uno scisma formalizzato. Cfr. C. Micaelli, Tertulliano e il montanismo in Africa, in Africa cristiana. Storia, religione, letteratura, M.Marin – C.Moreschini (edd), Morcelliana, Brescia 2002, 15-49. Per un inquadramento più ampio del fenomeno si può inoltre fare riferimento a G. Visonà, Il fenomeno profetico nel montanismo, in Ricerche Storico/Bibliche 5(1993),149-164; Id., Cristianesimo primitivo e profezia, in G. Calabrese (a cura di), Chiesa e Profezia, Dehoniane, Roma 1996,59-78; E. Norelli, Parole di profeti, parole sui profeti. La costruzione del montanismo nei frammenti dell’Anonimo antimontanista (Eusebio di Cesarea, HE V,16-16), in G. Filoramo (ed.), Carisma profetico. Fattore di innovazione religiosa, Morcelliana, Brescia 2003, 107-132; M.G. Mara, Movimenti e figure del cristianesimo antico, in C. Militello (a cura di) Profezia. Modelli e forme nell’esperienza cristiana laicale, Cedam, Padova 2000,107-124, part. 114-117. 

[5]             Tertulliano, De anima 9,4.

[6]         «Che unione quella di due fedeli, uniti da una stessa speranza, da un unico desiderio, da un unico modo di vita (disciplina) dallo stesso servizio! Entrambi fratelli, entrambi compagni di servitù; nessuna distinzione nello spirito o nella carne, ma veramente due in una carne sola. E dove unica è una carne sola, è uno anche lo spirito: insieme pregano, insieme meditano, insieme affrontano i digiuni, si ammaestrano reciprocamente, reciprocamente si esortano, reciprocamente si sostengono. Sono entrambi pari davanti alla Chiesa (pariter), pari al banchetto di Dio e nelle sofferenze, nelle persecuzioni, nella consolazione. Nessuno dei due nasconde nulla all’altro, nessuno vieta nulla all’altro, nessuno è di peso all’altro» » (Alla moglie 2,8,7-8, traduzione di Valentina Sturli, in Tertulliano, Opere catechetiche, cit.).

[7]               Tertulliano, De anima 25,3.

[8]             Giorgio Bonaccorso, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella, Assisi 2006, 48; 55-56 su Tertulliano.

[9]        Senza entrare nella complessa delimitazione del fenomeno gnostico, ricordiamo qui solo che Tertulliano tende ad interpretare sotto un’unica chiave dualista movimenti ed autori diversi, Marcione compreso, come appare nella sua cosiddetta “trilogia antimarcionita”: La carne di Cristo, Contro Marcione (5 libri, composti di diversi momenti), La resurrezione della carne. Cfr. Pietro Podolak, Introduzione a Tertulliano, Morcelliana, Brescia 2006, 55-59, ed anche Tertulliano, La resurrezione della carne,  a cura di P. Podolak, Morcelliana, Brescia 2004.

[10]           Tertulliano, La carne di Cristo, 4,1-3.

[11]         Si può infatti confrontare l’affermazione secondo la caro risorgerà «et quidem ipsa et quidem integra» (Resurrezione 61) con quanto affermato appena prima affermato (Resurrezione 59).

[12]       Qua inteso in senso ampio, come relazione fra sesso biologico e configurazioni di ruolo culturalmente e socialmente determinate: “Il concetto di politics of location (della Rich) consiste nel dire che il punto di partenza deve essere il vissuto sessuato femminile di ognuna di noi e che questo non è identico per noi tutte. La nostra somiglianza è invece tessuta di differenze: siamo le stesse nella nostra corporalità femminile, ma il corpo non è pura natura (sex), ma specialmente cultura, cioè punto di intersezione fra il biologico, il sociale e il simbolico (gender). Il fatto di essere donne resta comunque il nostro punto di partenza, la nostra collocazione nel mondo, il nostro modo d’inserzione nella realtà: all’inizio c’è il fatto di essere un corpo sessuato femminile che è fonte di vita e di maternità; questo viene articolato dalla Rich come posizione politica e teorica” (Rosi Braidotti, Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender theories, in La differenza non sia un fiore di serra, a cura de Il Filo di Arianna, Franco Angeli, Milano 1991, 23). Pur non ignorando ulteriori sviluppi delle gendertheories, preferisco attenermi a questa prospettiva: cfr. Simonelli, Patro-logia in questione, in Non contristate lo Spirito. Prospettive di genere e teologia: qualcosa è cambiato?, a cura di M.Perroni, Il segno dei Gabrielli Editore, Negarine di S. Pietro in Cariano (VR) 2007, 173-179.

[13]     Tertulliano, La preghiera 20. All’abbigliamento ed alla cosmesi femminile dedica in seguito il de cultu, al cui incipit ci siamo sopra riferiti.

[14]   Tertulliano, La preghiera 21-22. Eva Schulz-Flügel (Tertullien, Le voile de vierges [Sources Chrétiennes 424], Cerf, Paris 1997, 26-30) offre un’accurata sinossi dei due testi, che permette di individuare parallelismi e differenze.

[15]      Più ampia discussione in Schulz-Flügel (1997), 41-46: anche per il testo si farà riferimento a questa edizione. Esiste anche una traduzione italiana a cura di Pier Angelo Gramaglia: Tertulliano, De virginibus velandis. La condizione femminile nelle prima comunità cristiane, Borla, Roma 1984. Gramaglia opta tuttavia per la traduzione “ragazze”, ritenendo che la questione anche in partenza non sia unicamente riferita al culto.

[16]        «Da qualche parte» (alicubi: 9,4-6): la determinazione vaga del luogo potrebbe tuttavia indicare anche la comunità di Cartagine stessa, dato che in più di una occasione Tertulliano allude in questo modo a vescovi molto noti. Il caso più citato è quello di pudicitia, in cui l’incriminato potrebbe essere il vescovo di Cartagine o quello di Roma.

[17]        Anche se, in conclusione dell’opusculum, trova modo di redarguire anche queste, in quanto certi veli sono più ornamenti che reali coperture 17. Un’osservazione simile è presente anche in Tradizione Apostolica 18.

[18]        Tertulliano, La preghiera 22,7. Gramaglia (1984, 146) si riferisce anche alle prescrizioni matrimoniali riportate in Ketubot 7,6, secondo le quali le donne devono uscire di casa a capo coperto.

[19]         Barnes, Tertullian. A Historical and Literary Study, Oxford 19852 , 141

[20]       Schulz-Flügel (p. 262) indica altre formulazioni parallele, sempre a tre membri e di simile significato ma non identiche, in altre opere di Tertulliano.

[21]      La facile constatazione è confortata dall’opinione di un attento studioso quale Daniel Marguerat: l’apostolo risponde affastellando argomenti, con una retorica affrettata ed incorente, che tradisce imbarazzo (Cfr. D. Marguerat, Statut des femmes dans les communautés religieuses. L’affaire du voile des femmes à Corinthe, in R. Frei-Stolba et alii (eds), Les femmes antiques entre sphère privée et sphère publique, Peter Lang, Bern 2003, 238 – intero contributo pp. 237-247).

[22]         E’ soprattutto su questo passo che viene sviluppato l’argomento a partire dalla disciplina, che oltre alla parola interdirebbe, secondo Tertulliano, anche le altre funzioni “tipicamente maschili”: virg. 9.

[23]        Larga recensione degli interventi antichi e recenti in Giancarlo Biguzzi, Velo e silenzio. Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e14,33b-36, EDB, Bologna 2001, 85-152.

[24]       E’ opinione di Marguerat che le donne di Corinto avessero compreso l’istanza universalistica del messaggio di Paolo, portandola a conseguenze “prevedibili”, ma la cui portata aveva destabilizzato l’assetto sociale della comunità ed anche lo stesso apostolo (Statut des femmes, cit., 247).

[25]         «L’espressione: ‘La donna deve avere exousia sulla [sua] testa significa dunque probabilmente che essa deve acconciare i suoi capelli in modo da rendere visibile all’occhio di tutti la sua irrinunciabile identità, per non mettersi fuori dal disegno del Creatore che, portando all’esistenza uomo e donna in modo diverso, attribuì all’uno e all’altra un diverso status creaturale» (Biguzzi, Velo e silenzio, cit.,46-47 e ibidem, 70: «In una parola: in 1Cor 11,2-16 Paolo si fa inflessibile difensore della differenziazione dei sessi: l’uomo resta uomo e la donna resta donna anche nell’economia della redenzione, e nelle assemblee corinzie di preghiera e di profezia l’uomo continui dunque a mostrarsi uomo e la donna continui a mostrarsi donna».

[26]           In his consistit defensio nostrae opinionis secundum scripturam, secundum naturam, secundum disciplinam. 

Scriptura legem condit,

                natura contestatur,

                disciplina exigit.

                Cui ex his consuetudo opinionis prodest vel qui diversae  sententiae color?

Dei est scriptura, Dei est natura, Dei est disciplina; quicquid contrarium est istis, Dei non est (virg. 16,1-2).

[27]     Probabilmente ne sono eredi movimenti, ricorrenti nella storia, di riforma, all’interno dei quali l’ispirazione evangelica riconfigura anche i ruoli, sia sociali che di genere. Se ne potrebbe vedere un esempio antico nella crisi messaliana, in cui il tratto monastico è in modo evidente portatore di istanze di riforma ecclesiale. Le fonti sono chiaramente di parte avversa, ma permettono quanto meno di individuare modalità di ridistribuzione dei ruoli avvertite come destabilizzanti. Così osserva Timoteo di Costantinopoli: «Costoro promuovono a maestre dei loro insegnamenti eretici le donne consentendo loro di presiedere non soltanto agli uomini, ma perfino ai preti. E mettendo a loro capo delle donne disonorano il vero capo, Cristo Dio» (De iis qui ad ecclesiam accedunt 18 - PG 86,52, trad. L.Cremaschi). Analoghe osservazioni in Epifanio, Panarion 80,3 (PG 48, 760-761), cfr Lisa Cremaschi, Introduzione, in Pseudo-Macario, Spirito  e fuoco, Magnano (BI) 1995, 14.

[28]       La questione sollevata da Gioviniano è di grande interesse proprio anche in relazione alla questione “pelagiana” e soprattutto alla declinazione che del tema farà Giuliano di Eclano, in difesa delle nozze. Appare ancora attuale l’invito di Hunter a riesaminare la questione, rintracciandola nella fonte più diretta che è rappresentata proprio dalla confutazione di Girolamo nel Contro Gioviniano: D.-G. Hunter, Resistance to the Virginal Ideal in Late-Fourth-Century Rome: The case of Jovinian, ThSt 48 (1987), 45-64. Duval ha in seguito pubblicato i risultati dei suoi studi sul Contro Gioviniano, iniziati negli anni ’70, in un’importante monografia: Y.-M .Duval, L’affaire Jovinien, Roma 2003. Per il più ampio contesto che accompagna questa prospettiva di Agostino, cfr V. Grossi, Il contesto del de bono coniugali di Agostino. A proposito della sessualità umana in alcuni movimenti cristiani del tardoantico in RdT 47 (2006) 873-892.

[29]        Ivana Trevisani, Il velo e lo specchio. Pratiche di bellezza come forma di resistenza agli integralismi, Baldini Casteldi Dalai Ed,Trebaseleghe (Pd) 2006.

[30]     Assia Djebar, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell’Altro, Il Saggiatore, Milano 2004, 83; 13-18 (passim).