Iniziare ad iniziare: lasciarsi iniziare

di

Andrea Ponso

(Studioso di liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale “Santa Giustina” di Padova)

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In una società in piena crisi, in un contesto apparentemente terminale, quello che più sconvolge è forse l'impossibilità di vivere tale crisi e tale terminalità nella sua radicalità. E parlo della capacità di vivere come esperienza tale temperie, e non del semplice subirla passivamente.

Del resto, come cercherò di mostrare, anche per la fine, per ogni tipo di fine, da quella consueta dei giorni, delle azioni e delle cose, fino alla suprema fine che è la morte, occorre essere iniziati.

Insomma, mi pare che l’incapacità di vivere la crisi e la terminalità in tutte le loro sfumature, sia dovuta proprio alla dimenticanza della pratica dell’essere iniziati.

Su questo, mi pare che il rito abbia ancora molto da dirci o, meglio, debba ricominciare a parlare come aveva fatto in passato, almeno fino all’epoca patristica. Perché è chiaro che la crisi dell’iniziazione non riguarda solo la società in generale, ma purtroppo anche la pratica liturgica cristiana dei sacramenti.

Il rischio, laddove i riti di iniziazione ancora si praticano, vale a dire, almeno nel nostro contesto e campo di interessi, nella chiesa, è quello di ridurli a mera burocrazia, come ha stigmatizzato anche il Papa, ad una sorta di censimento.

Da questo punto di vista, se diamo uno sguardo alle Scritture, troviamo un’immagine molto interessante.

Quando Dio chiede a Mosè, in Es 30, 12, di enumerare il popolo, per l’espressione ebraica, di solito tradotta con “contare”, vale a dire “procedere al censimento”, troviamo due diverse espressioni: la prima significa letteralmente “alzare la testa”, mentre la seconda può significare anche “rendere fecondo” o “ricordarsi”. Ecco uno splendido esempio che ci riporta al ricordare come fecondità e futuro, e a quell'alzare la testa degli uomini per distinguerli non nel loro essere-comune e parificante, ma nel loro essere-in-comune.

In generale, da un punto di vista antropologico, potremmo dire che l’essere iniziati ci libera sia dalla indistinzione parificante, sia dall’opposta pretesa di essere unici fautori della nostra esistenza.

L’iniziazione ci dice che, appunto, “veniamo iniziati” da altri o da altro: essa indica quindi l’origine come relazione; l’iniziazione, che ci apre al presente e al futuro, è insomma una memoria che ci viene donata e per-donata, la memoria di una “dipendenza” che non si trasforma mai in schiavitù o in senso di colpa e obbligo giuridico, ma che, al contrario, si fa libera apertura, contribuendo alla nostra esistenza relazionale e amorosa.

La metafora della gestazione e del parto è forse una delle più interessanti da questo punto di vista: esso è una espulsione, anche violenta, dopo i mesi sicuri nell’unità del grembo materno; è sicuramente un trauma il venire alla luce, sia per la madre che per il figlio; eppure non c’è vita senza questo passaggio. E tale passaggio, tale esodo continuo, dovrebbe informare anche il resto della nostra vita, come riconoscenza, relazione libera e indipendenza.

Se l’iniziazione è così strettamente connessa alle dinamiche più elementari della vita, occorre superare quell’abitudine di viverla solo dottrinalmente e intellettualisticamente: la necessità è quella di recuperare la complessa semplicità estetica dei sensi e delle azioni, dell’essere dentro con tutto il nostro corpo e mente, per poter recuperare quella spinta all’uscita e all’indipendenza che viviamo in ogni nostro gesto, in ogni nostro sentire e pensare.

Perché questo è ciò che ricorda il nostro corpo e la nostra esperienza; perché è un contatto, un odore, una voce, un vedere, quello che ci può salvare. Non certo un insieme di formule prive di carne, non certo un insieme di concetti e di propositi, anche se alti, ci fa percepire esteticamente e non an-esteticamente la relazione con Dio e con la comunità.

Se dopo la preparazione ad un sacramento e la sua effettiva partecipazione portiamo con noi solamente un piccolo catechismo di regole e concetti, quel sacramento, pur rimanendo in potenza presente nella nostra esistenza, non potrà mai avere una effettiva tangenza - quando va bene - al di fuori delle mura della celebrazione, nell’esperienza quotidiana di noi cristiani.

La radicalità che manca alle nostre pratiche cristiane di iniziazione è, forse, anche la stessa che rimane solo in potenza nella stessa vita della chiesa considerata nella sua ampiezza di comunità, inserita nella complessità del mondo e delle diverse realtà esistenti.

Intendo dire che la capacità in gran parte dimenticata di una vera iniziazione avrebbe la forza positiva di una critica continua alle troppe sclerotizzazioni delle istituzioni che, in se stesse, non possono essere cancellate (fanno parte di quell’ossimoro positivo e pericoloso insieme che il cristiano crede come incarnazione e storicità dell’evento di salvezza), ma che devono essere anch’esse continuamente passate al vaglio semiogenetico della crisi come continua conversione.

In questo modo, ecco che il depositum fidei non rimarrebbe un insieme inerte di concetti, di regole morali e di significati dottrinali ma, proprio attraverso il movimento della continua iniziazione e del lasciarci iniziare, esso si trasformerebbe davvero in pratica in atto, di tipo partecipativo e inclusivo: non il giudizio, positivo o negativo, sulla chiesa e le sue istituzioni, ma il nostro sentirci davvero dentro in una prospettiva di eccedenza che, tuttavia, non cancella la storia e la concretezza.

Questa liminarità tra il dentro e la sua eccedenza è, infatti, propriamente lo spazio dell’iniziazione.

Concretamente, tutto ciò significa che l’iniziazione è anche il progressivo apprendimento e pratica dei vari linguaggi e codici del rito e della vita cristiana nella loro complessità “estetica”: parola, suoni, gesti, odori ... iniziare è riprendere davvero ad essere cristiani attraverso le competenze non solo contenutistiche e, soprattutto, non riducibili ai loro concetti o significati.

Capiamo in questo modo che l’iniziazione, nelle sue varie forme, può davvero, non solo anagraficamente, renderci finalmente cristiani adulti capaci di stare dentro alla chiesa senza mai che essa diventi una roccaforte difensiva, un museo del sacro o un progetto simile a quell’unico labbro che viene ricordato nell'episodio della costruzione della torre di Babele.

Il paradosso felice dell’iniziazione cristiana è che per diventare adulti nella fede occorre recuperare l’esteticità, il sentire e l’esperire del bambino: una pienezza non dualistica di corpo, sensi, parola, gioco e pensiero.

In questo modo ci rendiamo conto che anche il piccolo che viene battezzato è capace di iniziarci attraverso le richieste silenziose ma pressanti che porta nella comunità: egli chiede infatti un’attenzione che non siamo abituati a donare agli altri, chiede un contesto adeguato, il tatto e l'accoglienza totale; ci insegna a dimenticare l’egemonia del razionale e dello spiegabile, per inginocchiarci sui bisogni elementari, sul silenzio di una parola e di un linguaggio che non ci sono ma che chiedono attraverso gesti, sguardi, pianti e sorrisi.

Solo in questo modo possiamo re-imparare ad essere formati piuttosto che in-formati, accolti piuttosto che schedati, accettati piuttosto che giudicati.

Del resto, la stessa progressione dei sacramenti cristiani dovrebbe essere riletta sotto quest’ottica, in cui il culmine non è tanto la cresima, quanto piuttosto l’eucaristia intesa nel suo senso più ampio, di capacità partecipativa attiva alla vita comunitaria in tutte le sue sfumature e attraverso tutti i suoi linguaggi, non solo di tipo concettuale.

Questo entrare iniziatico nella comunità è forse l'unico modo possibile per non ridurci alla “spiegazione” dei sacramenti e dei gesti rituali, ma per lasciare che la loro materialità e fisicità ci indichi essa stessa, con la sua potenza antropologica, il senso, e ci faccia sentire con i sensi ciò che in essi, e mai riducibile ad essi, si rivela nelle celebrazioni.

Si tratta di un cambiamento forte nei modi consueti della nostra vita cristiana, non solo liturgica naturalmente, che è già stato indicato dal Concilio Vaticano II e che spetta a noi e alle generazioni future inverare e incarnare storicamente, al di là di una visione soggettivistica o solo intellettualistica della liturgia.

Renderci insomma conto che il “significato” e l’efficacia di un rito non ci appartengono come proprietà ma ci vengono donati da Dio e si realizzano comunitariamente; come comunitariamente tutti celebrano, e non solo il sacerdote che presiede.

Tutto questo libera noi cristiani dalla pretesa di “gestire” il Signore e i suoi doni, liberandoci anche dalla tirannia dei significati - aprendoci piuttosto alle potenzialità dei significanti e dei racconti simbolici, staccandoci sia dalla pretesa letteralista dell’interpretazione, sia dalla riduzione rubricistica dei riti e dei sacramenti.

Questa “nuova” visione ci chiede tempo e spazio, pazienza e fatica perché si stacca dall’automatismo burocratico dei sacramenti come procedure che, in fondo, poteva anche farci comodo.

Il sacramento è certamente efficace immediatamente, ma il tempo e lo spazio che serve all’uomo per accettarlo davvero come dono richiedono un cammino e una conversione sempre presenti. Del sacramento non ci si appropria, perché è dono che può o meno essere accettato.

Queste caratteristiche simboliche ci diventano chiare, per fare un esempio, quanto cerchiamo di dire cosa sia un gesto sacro: ridurlo al suo significato, infatti, è richiuderlo in una “parte” - mentre la caratteristica del gesto sacro è quella di tenere in relazione la parte e il tutto. Scrive a tale proposito Giorgio Bonaccorso:

«il gesto riguarda il rapporto tra una parte e un’altra. Il gesto sacro, invece, è un atto e un segno con cui si tende a coinvolgere quella realtà più ampia a cui appartengono i viventi: una condizione del gesto sacro è che con esso si tende a realizzare una relazione tra la parte e il tutto. [...] Il mondo, la storia, la comunità, sono totalità con le quali viene legato il gesto, che così diventa sacro. Ma se il gesto, come in parte è avvenuto nella nostra cultura, perde questo legame, presentandosi esclusivamente come rapporto tra le parti, sembra assai difficile avvertirne la sacralità. [...] Se, per esempio, la rivelazione divina viene intesa come offerta di un discorso definitivo sul fondamento della vita, e si presenta a ognuno di noi come ciò a cui dare l'assenso, il contenuto della rivelazione viene a configurarsi come una parte e la relazione con essa finisce per identificarsi con il rapporto parte-parte: non vi è più quel rimando al tutto che conserva la qualità inesauribile della rivelazione e la possibilità che i gesti che la riguardano siano gesti sacri. In altri termini, se il sacro è “svelato”, ossia ridotto a una realtà che sta di fronte a noi e che quindi si configura come parte, allora il sacro viene lentamente esautorato e i gesti sacri spariscono. Indubbiamente il divino si presenta sempre anche come un tu, ma mai come una realtà riducibile al tu, dato che non si presente di fronte all'io come gli altri io.» (Giorgio Bonaccorso, L'estetica del rito. Sentire Dio nell'arte, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, pp. 183-184)

Questa apparente sequela di gesti, parole e simboli che chiamiamo iniziazione, e che potrebbe sembrare una semplice applicazione burocratica (come purtroppo spesso accade), si rivela essere invece l’apertura alla trascendenza vissuta però non contro ma tramite, e attraverso, il sensibile e la sua concretezza incarnata.

Il senso del limite e della finitezza che ogni rito, come quelli di iniziazione, portano al loro interno, si rivelano allora come vere e proprie porte aperte sul divino e su tutto quello che non è né semplicemente un oggetto davanti a un soggetto, né l’indistinzione della sparizione della relazione tra singolarità e alterità.

I riti di iniziazione ci portano in contatto con la nostra finitezza, con i limiti invalicabili che ci abitano e ci danno un profilo, fino al limite estremo della morte; ma, proprio da questo, ci conducono ad assaporare, qui e ora, il respiro della redenzione e del tutto.

E questo, come accennato all'inizio di questa breve riflessione, è un insegnamento che va oltre la sfera strettamente religiosa e cristiana: perché essere iniziati significa primariamente, a livello antropologico, prendere coscienza della propria finitezza, dell’impossibilità di vivere come monadi staccate dall’essere in comune ma non schiacciate dall’essere-comune; perché essere iniziati significa fare i conti con il tempo e lo spazio, con il corpo e non con i suoi simulacri; significa scoprire che la nostra vita non è mai riducibile alla linearizzazione massificante dei significati che ci vengono imposti o che da soli ci imponiamo; che la nostra vita non è, fortunatamente, solo in nostro potere; che le cose più elementari dell’esistenza, come l’acqua, il pane, la voce, gli odori, i gesti consueti ... sono concretamente presenti e tuttavia non possono mai essere completamente ridotti alla loro mera oggettualità, che sono sempre anche segni e dinamiche di relazione con gli altri e con l'alterità.

E che così siamo anche noi e le nostre vite.