Sara Alzetta - La guerra di Fannie e Anita

La guerra di Fannie e Anita

di Sara Alzetta

FANNIE:

«oh Trieste, Trieste!... grande emporio!

e sono stati il diploma imperiale di Porto Franco, elargito da Carlo VI, e la concessione dei passaporti franchi, donata da Maria Teresa, ad attirare a qui gente che arrivava da tutti i luoghi e con ogni mezzo: a piedi, arrivavano... o rotolando sulle ruote polverose di carri e carrozze, oppure sospinti dal vento del mare… poveracci, avventurieri, bancarottieri in fuga… avanzi di galera, futuri suicidi!  - e per forza: fortune colossali si creavano nel giro di un anno e si potevano perdere in una notte»,

a mio papà piaceva declamare questo racconto, per me e la mamma - nel nostro salotto perfetto, tra il servizio di cristalli di Boemia e le famose porcellane della Grande Manifattura di Vienna… su cui mai si posava un granello di polvere -.

…il babbo raccontava, e a me sembrava quasi di sentirlo, quel rotolare di carri, e la corsa dei carretti e il precipitarsi delle carrozze

…il babbo raccontava, ed ecco che mi vedevo tutta la scena… sì… levantini, aroma di caffè alla turca - macinato fino fino nei macinini alti e stretti di ottone -  gli uomini che portavano il fez, e questi li avevo visti anch’io per strada, con il pugnale infilato in vita… (ma le donne come si vestivano, le donne? alla baiadera, con il velo, come le avevo viste nei quadri? ..forse in casa…)

Io a casa portavo ancora il grembiule sopra il vestito.

Presto però, mi aveva promesso la mamma, avrei avuto un tailleur, che era venuto di moda da poco: giacca, gilet e gonna….anche se non era un abbigliamento che mettesse in risalto il vitino di vespa, come quello di Sissi o di Carlotta  - che era impazzita, Carlotta, dopo che il marito, l’arciduca Massimiliano era stato fucilato in Messico, era impazzita di dolore e d’amore! …era bello, e misterioso…

… anche se il babbo diceva che l’amore erano sempiezi de fioi e roba da donnette senza giudizio!   - e mi sembrava che questi eccessi mio papà li collegasse in qualche modo all’ascesa vertiginosa di Trieste… esagerazioni!

beh, certo;  anch’io mi ero fatta l’idea che l’ uomo giusto dovesse essere di buona famiglia e benestante e che frequentasse la società… e che sapesse ballare bene! essere una bella coppia ai balli: questa era la cosa a cui non avrei voluto rinunciare.

Così quando la mamma mi aveva annunciato che ero stata chiesta in moglie : «Fannie, è un ufficiale dell’esercito imperiale, è nobile, è alto e ha un bel portamento, e una buona posizione…...devi ricordartene, hai  ballato con lui al tuo debutto...»

…sì, era molto dritto Oswald e passava per un bell’uomo e era un ottimo ballerino.

Le nozze erano state fissate per l’inizio di settembre di quell’anno, il 1914, quando Oswald fosse tornato dalle manovre…

la mamma era più eccitata di me, e aveva ottenuto da papà che per gli abiti del corredo e del viaggio di nozze andassimo dal sarto più bravo di Trieste - ...sì, era la Mery, che in casa cuciva tagliava e stirava, che fino a quel momento aveva fatto tutti i miei vestiti - tutti, meno l’abito da ballo di tulle e raso rosa, con il nastro bianco in vita e una cascata di roselline, che avevo indossato al mio debutto, confezionato da questo gran sarto che serviva e consigliava tutte le signore che vestivano in seta e velluti, e aveva giornali di modelli che si faceva arrivare da Parigi…

…l’atelier occupava un appartamento grande, con un salone pieno di specchi per le clienti, e si sentiva, dalle altre stanze, il trillare continuo delle macchine da cucire.

ANITA:

…si, le Singer jera, le singer… - che se dovesi dir “singher” -   si, jera “nuovo modello di macchina da cucire a pedali”… dopo 10 ore avevi i crampi alle gambe e quando uscivi ti sembrava di esser sorda e mezza ubriaca, ma lo stesso ero assai contenta che mi avessero presa come lavorante, in ‘sta gran sartoria, co’ tute le signore che veniva da tuta Trieste… sì,

...io, povera me, sapevo i numeri e fare i conti… ma con le parole... no, mi imbrogliavo co’ le parole. ….

- però, anche se stavo tutto il giorno sulla macchina da cucire, con tutte le signore e signorine che passavano in atelier… si imparava a conoscerle, queste dame…e quella giovine, eh?, che l’avevo già vista io, piccolina vicino alla mamma che era… no grossa, ma come dire… imponente. ..?

... ecco, a mi… a me le parole non vengono facili, non mi hanno insegnato, a me, a dire sceto quello che penso, che sapessi parlare saprei raccontare in poche parole, quello che ho visto; perché io ne ho viste tante e me le ricordo. 

Prima roba, avevo, mi digo, 8 o 9 anni, quando mia mamma, perché non era stato mio papà ma mia mamma, mi aveva portato al sciopero dei fuochisti del Lloyd, si, quello del 1902, quando sono rimasti in terra, uccisi, 14 di quelli dei nostri che erano in piazza. “Durante i disordini   - hanno scritto i dirigenti socialisti, e questo l’ho saputo dopo, anzi l’ho letto, perché io ho imparato!, a leger!-  si videro madri portare i loro bambini dinnanzi alle bocche dei fucili, fanciulle e spose affrontare i soldati dicendo loro: «uccideteci se avete il coraggio! siamo qui perché non abbiamo nulla da perdere!»!”    

Eh, se devo dire io come erano le cose… disperazione era e miseria, miseria e disperazione, sempre.

Mia mamma si era sposata che non aveva neanche 18 anni.

Lei e mio papà e io e mia sorella più piccola, tutti, nel quartierino di mia nonna: camera e cucina e un camerin.

Mio papà navigava e per guadagnare quel poco di più si era imbarcato sulle rotte transatlantiche… assai poco me lo ricordo.

Se ci penso, non so neanche che faccia che aveva… perché un giorno non è tornato e non si è saputo più niente di lui.

Mia mamma disperata, immaginarsi, faceva di tutto, povera, di tutto: portava la malta nei cantieri, lavava - che io e mia nonna andavamo di notte e prenderle il posto al lavatoio - e quando noi bambine avevamo fame e non c’era niente da mangiare ci raccontava le fiabe e cantava, mia mama…

E quando si è messa a letto, pochi giorni è stato, e siamo rimaste sole, noi piccole e la nonna.

E niente piangere.

Solo mia nonna, un giorno, mentre arrostiva i petorai  - si, i “petorai”, quei peri pici, duri, che poi andava a vendere nella caldieretta di rame- un giorno che si è bruciata  - perché bisognava infilarci in mezzo lo stecco fin che erano bollenti-  le son venute le lacrime.

“Per la scottatura” diceva, ma io sapevo che era per sua figlia morta.

E allora è stato il mio turno, di andare per le case a aiutare se una donna non stava bene o stava per partorire.

E siccome scuola ormai neanche parlarne, finiva che passavo il tempo in strada e mi tiravo dietro mia sorella piccola, a girare con le clape e se vedevamo un gendarme cantavamo: Daghe la papa al vecio, Daghela col cuciar. E poi via noi, correr, e el gendarme drio, perché el vecio era l’imperatore  - xe sta’ una volta che ci siamo buttate in mare dalle Rive, e in acqua continuavamo a cantargliela daghe la papa al vecio.. 

Alla fine, per fortuna il sarto mi aveva preso per fare gli orli e poi ero passata alle macchine da cucire… e allora tanto male non andava, anche se la mamma mi mancava sempre… e invidiavo quella giovine che veniva tutti i giorni con la sua mamma a farsi il corredo, tutto sui toni del rosa, adatto alla sua carnagione da bionda.

FANNIE:

«Ma mamma, l’hai detto tu che ho da figurare, in fondo lui è nobile…!

«Ma Fannie, partite il 10 settembre, e Parigi non è poi così fredda, non da manicotto e mantellina di pelliccia!... anche se la lontra bordata di castorino biondo è davvero una scelta assai raffinata!»

- Lo vedi, mamma! –

«Vedremo, bambina, vedremo… sai, non dobbiamo neanche sembrare gente che vuol strafare!» 

E poi li avevamo comprati.

Papà e mamma volevano farmi contenta a tutti i costi  e c’era quell’atmosfera di festa in casa, come prima di Natale quando ero piccola.

E come quando ero piccola la sera mi veniva la malinconia.

Perché quando ero sola, a letto, mi tornava la paura del primo giorno – quel “primo giorno di fidanzamento” -  che non ero riuscita a dirla, la paura, tanto tutti erano contenti della proposta di matrimonio.

Intanto Oswald era alle manovre, ma il tempo passava sempre più veloce e alle nozze mancavano poco più di due mesi, e la sera non dormivo e sentivo tutti i rumori della casa. Anche quella notte, che ci furono passi affrettati e un gran parlare e porte accostate in furia:

l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Asburgo, e la moglie, Sofia Chotek, erano stati assassinati a Sarajevo, 28 giugno 1914.

Le  salme, arrivate a Trieste a bordo della “Viribus Unitis”,  erano state sbarcate in Piazza Grande.

Al corteo funebre, scortato dai soldati, dalle guardie a cavallo, avevamo assistito dalle nostre finestre, che davano sul Corso e su cui avevamo esposto i drappi neri.

Altri giorni erano trascorsi in grande agitazione, finché erano comparsi dappertutto quei manifesti gialli in cui l’imperatore si rivolgeva  “Ai miei popoli!”.

E poi c’erano state le bande, i fiori, le marce, la gente che faceva ala e batteva le mani ai soldati richiamati.  “Scrivi, scrivimi!” si sentiva gridare… lo dissi anch’io.

Oswald, a cavallo, impettito, molto mutato nell’espressione del volto,  aveva risposto: «Tutti i giorni».

Nel tripudio di quelle giornate, il matrimonio era stato rimandato. Ero tornata alla vita di prima…

ANITA:

La sera delle prime partenze ero tornata a casa di corsa, col remitur che jera per le strade, e subito avevo preso paura: non avevo trovato né mia nonna né mia sorella Ida.

Uscita a cercarle, le avevo viste, in un angolo, schiacciate contro il muro, la caldieretta dei pettorai, che a turno portavano appesa al collo con una cinghia, per terra.

E c’era un gruppo di soldati che facevano baccano e occupavano tutta la strada.

E mia nonna, che era pronta di parola e tutti la conoscevano, se ne stava là, ammutolita, con le sue scarpe sfondate e i suoi miseri stracci… come se non avessero diritto di esistere, lei con sua nipote e quella povera mercanzia e quel mestiere pacifico…

Le portai via veloce,  malamente.  

Mi pareva che avessero messo in piazza la nostra vita, ma misera e piena di castigo come non era, no, non era;  perché ogni settimana portavo a casa la paga, e facevo anche turni extra.

Ma adesso, dopo tutto quel che è successo, se ci penso a quella sera, mi pare che mia nonna l’aveva capita, la guerra, prima di me.

Perché subito il lavoro era calato: ai cantieri, nelle industrie, e, ovio, al porto, perché c’era il blocco navale contro l’Austria.

Il mio Gustele  - che non ho mai nominato ma era il mio uomo e faceva il facchino in porto -  mi raccontava che prima, il capo-ganga prendeva la metà degli uomini che si offrivano, sventolando i libretti di lavoro, ‘desso,  neanche la metà della metà della metà.

E anche per lui, il mio Gustele, che lo prendevano sempre, ovio, perché era forte e sgobbone, erano più le giornate che perdeva che quelle che lavorava.

Intanto le chiamate alle armi continuavano  e, come diceva Il Piccolo, era tutto  “Un abbraccio, un addio”.

E amiche mie si erano sposate in furia per avere il sussidio di guerra del marito… no, Gustele e io… non ci siamo neanche salutati: sparito, forse scappato oltre confine per scapolare la guerra, mai più visto, insomma.

E naturalmente anche in sartoria il lavoro scarseggiava e il padrone, per non licenziarci, ci teneva a mezza paga e a mezza giornata, e pane, farina, fagioli costavano sempre più fino a che, era l’aprile del ’15, c’è stato l’assalto ai forni… hanno parlato di rivolta e che i capi eravamo noi, le donne ma qualcosa in tavola dovevamo pur metterlo, perché era proprio come diceva mia nonna: Maria Vergine, che guerra, ai omini i ghe spara, ale done i le fa morir de fame!

FANNIE:

La gente correva a vederli, la sera, i lampi dei bombardamenti lontani, era come avere un palco in prima fila, come per i fuochi d’artificio, a Trieste e a Gorizia.

E anche a Salcàno, dove avevamo la casa di villeggiatura e dove io e la mamma ci eravamo trasferite fin dall’inizio della guerra; era perché i fittavoli ci portavano polli e latte e ortaggi,  e poi papà era “assolutamente convinto che il conflitto sarebbe stato di breve durata“. e invece dopo 10 mesi era entrata in guerra anche l’Italia.

Guardare la guerra di sera era il mio unico diversivo: la mamma non sarebbe stata contenta che andassi a qualche intrattenimento, anche se erano mesi che di Oswald non avevamo notizie.

L’agosto del ’16 fu molto caldo e la notte delle stelle cadenti, gli italiani avevano preso Gorizia da due giorni, rimasi a lungo alla finestra, oppressa, non so se per la sorte di Oswald o per la mia. 

Ma i soldati occupanti avevano portato in città un brio nuovo…

Mamma, è tanto che non mi vesto da società, potrei mettere l’abito di mussola, e il ventaglio e i guanti..?”  

Infine, al ballo, seduta accanto alla mamma, alzai lo sguardo: un uomo di carnagione scura, occhi profondi e il sorriso scintillante mi stava invitando.

E quando l’orchestrina riattaccava tornava e si inchinava ancora.

Mi pareva felice e dopo tutti quei valzer così leggeri e elettrizzanti come non ne avevo mai ballati, anch’io mi sentivo il cuore gonfio di gioia.

“Per una ragazza, un contegno dignitoso e prudente non è mai abbastanza”, aveva commentato la mamma, al ritorno, in carrozza.

Due settimane dopo, al ballo, ero seduta vicino alla mamma, quel tenente venne a invitarmi subito. rifiutai,  guardando con ostentazione l’anulare in cui portavo l’anello di fidanzamento di Oswald. ma quando un’altra cominciò a civettare con lui, mi innervosii, poi mi confusi per essermi irritata e il ventaglio mi sfuggi di mano. Lui lo raccolse.

Gli occhi fissi della mamma mi bruciavano addosso, ma ancor più forte era l’urgenza di sentire la sua voce, il suo braccio intorno alla vita e quel senso di emozione e di felicità che non avevo mai conosciuto. 

All’uscita bora e pioggia. Un vecchio manifesto strappato agitava i suoi brandelli bagnati. Era il manifesto giallo con l’appello “Ai miei popoli “… L’avevo dimenticato.

ANITA:

in principio… in principio non si sentiva altro che: “pochi mesi e sarà tutto finito, a Natale tutti a casa!

Ma presto gli era passata la voglia di parlare e di pronosticare, a questi signori “SoTutto”.

La guerra andava avanti, i giorni, i mesi, gli anni passavano uguali l’uno all’altro

Così  era arrivato anche il Natale del 1916,  il terzo Natale di guerra.

Per gli uomini che venivano dal fronte era la licenza lunga: tutto il tempo per raccontare i orori della vita di trincea.

Tanti morti per pochi metri di terra, e tanta fame e malattie e sacrifici per tutti quanti.

E noi gli palesavamo come c’erano anche de quei che con la guerra si erano  arricchiti.

Ma no, no digo i ricconi che sanno sempre come far soldi, …no, digo anche gente, cussì, che si conosceva.

Uno, per dire, aveva cominciato  a andare a pescare la sera.

Pesce, che figurarsi, non se ne vedeva, lui lo vendeva a 12 corone al kilo. E pagamento in contanti, non a credito… e poca concorrenza. come veniva il tramonto, via lui che usciva con la barca, con qualsiasi  tempo. Poi comprava oro al Monte e lo rivendeva…

Insomma, un giorno ti incontro la moglie: aveva un anello per dito, anche due, e la me dixi «...ah si, se non jera la guerra…» …mai si sarebbero messi così bene a posto!

E invece noialtri: file, file interminabili per un poca di farina di polenta, che te la davano a San Giusto e la fila arrivava fin sotto al piazzale.

E poi via correre là del Gasometro, altre ore di coda per un sacco scarso di carbone, che mia sorella Ida si metteva in testa e era lunga fino a casa, eh…

C’erano sì donne che sostituivano  gli uomini in molti lavori.

Ma a Trieste non jera successo come che go leto, dopo, quando ho imparato a leggere, che in altri paesi il “sesso debole” era impegnato nello sforzo bellico:

in Inghilterra, per dire, le donne fabbricavano munizioni e per questo diventavano gialle e le chiamavano canarine; e tante sono morte invelenade.

- no, a Trieste, siccome che era troppo vicina al fronte, i cantieri, e le fabbriche (la Stock -per dirne una) tutto spostato a Linz, a Budapest, a Vienna -figurarse se impiantavano qua le fabbriche di armi! 

…sì, anche a Trieste, con gli uomini al fronte, le donne li sostituivano in molti mestieri: campanare, tranviere, impiegate,  telegrafiste,  scovazzine, postine. (che ghe jera de quei che i dixeva «Done scovazzine, cossa altro le sa far! ma, Dio ne liberi, una donna postina!...Prima roba, petegole come che le xe, le te legi la posta»  Ma io non sapevo leggere!

- e questi lavori, che l’autorità  diceva:   “Sono  una conquista per le donne“, non erano per me.

Per me?… lavare, nettare per le case o nei locali, arrangiarsi insomma, quello che noi donne abbiamo sempre fatto…

Mia nonna e Ida andavano a piedi, col sacco, a Opicina a raccoglier ortiche per metterle in minestra, magari con qualche patata… rubata nei campi.

E intanto la propaganda ci insegnava il modo come cucinare le bucce di piselli per “renderle appetitose”… ma dove jera ‘sti bisi? 

Insomma “l’angelo del focolare“ - che in tedesco si dice kuche, kirche, kinder,  cucina, chiesa, bambini - questo si aspettavano da noi! 

Che quando una donna arrivava a casa la sera, dopo che al lavatoio aveva tirato su più reumatismi che soldi, si inventasse i “mangiari appetitosi”. 

Perché “noi eravamo il fronte interno” - ma che tenessimo duro o no era lo stesso, tanto la guerra non andava né avanti né indietro...anche se la propaganda ci inseminiva che “Ogni nostro cedimento è una pugnalata alle spalle per i soldati che combattono”… come se non combattevamo anche noi abbastanza! 

...’nsomma: mestieri pesanti, freddo, battagliare per quel poco di pane che si trovava, quel “pan de guera” che era come segatura. 

La Sgorbissa, per dir…

- la Sgorbissa  jera quela che stava visavì nel nostro pianerottolo - io non so neanche quanti erano i bambini Sgorbissa, tuti pieni di croste-  «con tuta ‘sta miseria xe mejo andar dove che i va’ tuti, o ben o mal. E po’ cossa fazo mi con tuti ‘sti fioi?»  cussì dixeva la Sgorbissa.

La voleva dir che tutti quelli che non avevano proprio niente, andavano nei campi delle baracche di legno, in Stiria. Partivano per i Baracken Lager, cussì i se ciamava, là dove la polizia aveva fatto internare gli irredentisti, i repubblicani, i garibaldini, i politici insomma…

- bon, la  Sgorbissa un giorno è partita con  tutti i figli… e la nonna e mia sorella Ida  - io credo che si erano parlate - gli sono andate dietro dopo poco.

Mai, prima, ci eravamo separate.

FANNIE:

«Devo salutarvi. Non so quando vi rivedrò. Diamo il cambio ai reparti di prima linea. Parto domani»  –

…il mio Mario…

Stavamo lasciando il ballo. La mamma mi stava appoggiando la mantellina sulle spalle. La scostai.

Udii la mia voce:

«Rimango. Non posso lasciarvi… così».

Era passato un anno da quella sera.

Un anno in cui ci incontravamo in un giardino.

Di nascosto, così credevo.

I passi di Mario sulla ghiaia sapevo riconoscerli ancor prima di udirli, perché il cuore cominciava a battermi, per la felicità e il desiderio…

- mi accorgevo che ero diventata attenta alle cose di cui prima nemmeno mi rendevo conto: il volo degli uccelli, che se era basso annunciava pioggia nelle trincee fangose,

- le foglie che cambiavano colore,

- la quiete del giardino… quel silenzio aveva il potere di calmarmi.

Ma non quella sera, il 26 ottobre 1917, venerdì.

Non sapevo se Mario sarebbe venuto, le incognite della guerra a volte glielo impedivano, non sapevo se era vivo! – amore mio... le parole che bruciavo dalla voglia di dire, e poi… Dio mio, poco tempo prima la mamma aveva allontanato una servetta che era con noi da quando aveva 14 anni,  «È questa guerra che  ha corrotto i giovani!»

… chissà che ne era stato di lei, che ne sarebbe stato di me.

Incinta. 

Era l’imbrunire.

Il timore di essere abbandonata si impadroniva di me: non ero più la piccola Fannie, protetta dai genitori, custodita lontano dal mondo, preservata da affanni, disgrazie… colpe… e mentre mi rendevo conto che non rimpiangevo quella vita,

- mi riscossi di colpo:

- era buio ormai e pioveva  e al battere della pioggia si aggiungeva un rimbombo continuo, indistinto.

Raggiunsi la strada, era intasata da un fiume di gente, di donne, di vecchi che arrancavano nel fango,  appesantiti da sacchi, da bambini aggrappati al petto, alla schiena… una ressa piena di urla e richiami…

I più fortunati erano riusciti a scappare coi carri, su cui erano ammassati materassi, coperte, masserizie, e sopra donne e bambini... un flusso che si interrompeva spesso per lasciar passare i soldati in ritirata  - “poveri fioi, chissà a cossa che i va incontro”  - le donne, issate sui carri, con i fazzoletti neri in testa, piangevano in silenzio.

Era la rotta di Caporetto.

Procedevamo in direzione del Tagliamento.

Ogni tanto aerei austriaci ronzavano sopra le nostre teste.

Cominciai a camminare anch’io, andammo avanti per giorni e giorni – ci fermavamo solo la sera, ci buttavamo a terra.

…la mia mente era come offuscata;  non so quanti giorni fossero passati, in questo corteo coperto di fango,

…ricordo solo una donna che, da un carro che procedeva lentamente davanti a me, mi faceva cenno di salire su, che c’era posto. credo che cercai di raggiungerla

…ma i militari a piedi, a cavallo,  le biciclette,  i carretti, i calessi… mi sembrò che tutto girasse in tondo, sempre più veloce, sempre più veloce, sempre più veloce…

ANITA:

Dio che freddo.. Bora gelata nel dicembre del ‘17.

E siccome che le gonne si portavano corte le donne battevano i denti, con le gambe scoperte, anche se avevano le calze di seta. Quelle che potevano comprarle,  le calze fine di seta, e andare per strada in pelliccia.

Poi c’erano quelle che si stringevano i cappotti al petto, ma c’è poco da stringere, con la bora che ti arriva departuto, e tremavano di freddo in fila davanti ai negozi di magnative.

… io non ero né come quelle né come quelle altre. non che non battessi brocche, come si dice da noi - brividi insomma- nei miei vecchi vestiti che erano come velatini.

Non avevo neanche il cappotto, io!  sialléti e sempre cottole lunghe.

Una volta le padrone ti regalavano i vestiti che non gli andavano più, ma questa  padrona nuova che avevo – perché avevo trovato un posto fisso e mangiavo in cucina con la cuoca e per questo non facevo le file – questa padrona era caja. Quello che non metteva più se lo teneva:

«Non si sa mai, con una piccola aggiustata tutto può venir buono in un altro momento…vero, Anita?»

Perché doveva comparire e assai ci teneva a cambiare tualèt, lei che ogni giorno aveva i comitati e le beneficienze e  le mense dei poveri e le raccolte di fondi.

Era tutto un correre: lei a appuntare coccarde e assistere i soldati feriti e io a rinfrescare, smacchiare, stirare.

Che saria sta’ anca bon, perché, prima roba: non era un lavoro pesante, e, seconda, mi ero quasi commossa, in principio, a ascoltare questa madrina di guerra piena di buon cuore.

…e ghe ne jera bisogno de bon cuore, in quel quarto anno di guerra, perché, anche se l’Austria stava vincendo con l’Italia, solo carestia era, e sempre più.

Mia nonna e Ida mi scrivevano - oddio, mi mandavano lettere che qualcuno scriveva - che a Wagna, nel campo delle baracche di legno, dove che erano andate

«Da mangiare poco. Un quarto di pagnotta al giorno, ma capita anche che restiamo senza pane (come questo Natale, per quattro giorni), e allora ci danno le patate crude che noi dovremmo cucinare, ma con cosa? E lo stesso è per quella misera porzione di baccalà che ci tocca una volta alla settimana: crudo. Per il resto caffè nero di mattina e zuppa, pranzo e cena, a volte di fagioli e a volte di semi, con tocchetti di patate e bucce».

E difatti la mia signora mi diceva  «Anita, aiutami! Ho le gambe che non me le sento. Oggi una raccolta di fondi dietro l’altra, per i rifugiati, i feriti di guerra… e poi le corsie, i soldati e le piaghe! …fortuna per te che non hai  niente da fare con queste faccende orribili!»

E giù che si buttava a peso morto sulla poltrona, che sembrava lei la malata e mi faceva venire in mente quella storia che girava:  

- una signora si avvicina al letto di un ferito e gli offre sigarette e dolci ma il soldato rifiuta  – «permettete almeno che vi rinfreschi il viso con l’acqua e aceto» – Il soldato ringrazia, rifiuta ancora, ma è tutto inutile: la signora gli lava il viso; e il ferito commenta:  «sa, io rifiutavo perché lei è la sedicesima signora che mi rinfresca il viso con l’acqua e aceto». 

E allora io, a ogni buon conto, i pochi soldi che prendevo, quasi tutti li mandavo al Campo di Wagna, a quelle due mie poverette.

Ma poi la nonna mi ha scritto: 

«Qua le donne, per uscire, facevano i buchi nella rete del campo e siccome si erano cucite delle tasche dentro le cottole, andavano dai contadini e compravano farina fagioli, formaggio e li nascondevano in queste tasche e li portavano nelle baracche; e Ida andava con loro. Ma adesso che i contadini non vogliono più corone, che i soldi valgono ogni giorno di meno, ma vogliono oro, Ida esce da sola, di sera. Ma se i gendarmi la prendono la mettono in prigione».

Io, immaginarsi,  che mia sorella la vedevo sempre piccola, non mi davo pace…

«Eh sì, è proprio un inferno, Anita! ai primi tempi ci si commuoveva, anche, pensando al destino di queste disgraziate. ma dopo che ne hai viste tante, che lo fanno per bisogno, per la famiglia, ma anche  perché sentono  la mancanza degli uomini….te la fan passare la voglia di essere misericordiose!»

E siccome la padrona, lei, non ne poteva più, io sono partita per Wagna.

Il viaggio è stato in un vagone bestiame pieno, ma non mi pesava.

Arrivata al campo  la nonna, con un’occhiata, subito l’ho riconosciuta, anche se era più curva e sembrava più piccola, così imbacuccata. aveva fatto un passo per abbracciarmi, senza guardarmi in faccia; aveva abbassato gli occhi avviliti, mortificati.

FANNIE:

Quando mi sono risvegliata una donna, china su di me, mi sorrideva con occhi benevoli. Era la caposala di un ospedale da campo. Mi, diceva con voce rassicurante, che avevo perso il bambino che aspettavo, «ma ero giovane, ne avrei certamente avuti altri...»

Un paravento mi nascondeva alla vista, ma intuivo, dai lamenti e dalle urla sorde, che il camerone era affollato.

Vicino a me la voce di un ragazzo invocava in tedesco la mamma.

Appena mi ero rimessa avevo cominciato a fare da interprete per  i soldati ricoverati che parlavano tedesco e provenivano dall’esercito asburgico,  e in breve ero stata arruolata come aiuto-crocerossina, con il grado di sottotenente.

Tutte le crocerossine erano ufficiali: in un mondo maschile il grado ci proteggeva, ci attribuiva autorità… solo il tempo per imparare qualche nozione di medicina e di pronto soccorso.

Ma quello a cui più teneva la caposala era che sorridessimo sempre e che guardassimo negli occhi i pazienti, per non far intuire la pena per le loro condizioni, spesso disperate.  Durante la battaglia del Piave, per 10 giorni, dal 15 al 25 giugno 1918, credo che nessuna di noi poté dormire. Nei rari momenti di pausa, seduta vicino a una finestra, guardavo la lunga fila di autoambulanze che avanzava lentamente verso di noi, mentre, nella direzione opposta, reggimenti di fanti, artiglieri con i cannoni, cavalieri coperti di polvere andavano al fronte.

Poche le notizie che avevo: i miei stavano bene e Oswald era prigioniero in Russia. Ripensavo a loro come da una grande lontananza.

Era il mondo di ieri, in cui la mamma, che mi voleva bene, per il mio bene, mi voleva sposa, a 18 anni, di un uomo che aveva il doppio della mia età e che conoscevo appena.

E anch’io, del resto, pur temendo quel matrimonio, ero attratta dai vantaggi che ne sarebbero derivati: vestiti, teatri, eleganze…  … già, il mondo di ieri… che stava andando in cenere e bruciava con sé tante vite.

Ora c’erano solo quei ragazzi in barella che chiedevano aiuto a dolori e paure inguaribili nelle “corsie meste sì piene, talvolta sì piene da creder che tutto il patire che al mondo patire sì può, fosse andato a finire là dentro”, come recitava la poesia che i soldati  della III Armata avevano dedicato a noi crocerossine.              

ANITA:                                                                                                              

A Wagna c’era una donna grossa, che chiamavano la matta, era un tartaifel che comandava e sapeva tutto.

Lei mi ha detto dove potevo trovare mia sorella.

Per fortuna, perché come Ida non la conosceva nessuno: adesso si faceva chiamare Olga.

Come sono entrata nel locale subito l’ho vista: aveva quel muso allegro e furbo di quando era piccola e, con i capelli corti e neri e la bella testina tonda, era la più bella.                      

«Adesso si usa così. È la moda francese. Come le gonne. E io le mie gambe per fortuna posso mostrarle. Cara mia, qua c’è da patir la fame, io e la nonna, e lavoro non ce n’è. Dovrei fare la serva, che è quel che ho fatto da quando avevo 12 anni?»

- Come me, come le donne, quasi tutte, avevo detto -  

«Non mi interessa di “quasi tutte” le donne, perché tocca sempre a noi due di passarcela peggio degli altri?!

E poi, cosa ti credi, che sono la sola a fare questa vita? Figurarsi! È che io non mi nascondo, io non mi  vergogno!

Sei venuta qua per giudicarmi Anita?, potevi risparmiarti la strada… gli uomini marciscono nelle trincee aspettando di essere ammazzati, e tu ti preoccupi di quel che faccio io, ti preoccupano le malattie, Anita? 

– Come se in campo, a Wagna, non ce ne sono abbastanza, di malattie e epidemie… e tifo… e i bambini e i vecchi muoiono! e di quelle malattie che non si può guarire, freddo, fame, pidocchi, prepotenze e la vergogna di dormire per terra, sullo stesso sacco di paglia in 4, 5 estranei - e la nonna povera che non si può abituare -  di questo non si parla mai!  Sì, tu saresti più contenta se andassi nei casini dell’esercito, quelli che si spostano per tutto il fronte? Prostituta di guerra, e dire di sì a tutti, coi pidocchi, che puzzano, perché  sei obbligata? eh no, cara! sono autonoma, io!  posso scegliere.

E ci sono di quegli  ufficialetti eleganti che mi fanno anche i regali, roba fina, che posso scambiare, perché i contadini adesso accettano sola roba fina, e mi portano cognac e cioccolata… 

Sono giovane io, e voglio vivere! 

È questa guerra che ha cambiato tutto, Anita, e prima ti adatti meglio è!» 

L’espressione dura, chiusa del viso di mia sorella, si era mitigata e finalmente ci eravamo  abbracciate.

Era così bella, la mia Ida, con i capelli corti e la testina tonda che sembrava un ragazzo!

E quel modo franco di parlare, che mai in casa nostra si erano sentiti discorsi così…

Io,  io, vergognavo, che ero andata dietro ai discorsi dei benpensanti, quelli che non si scandalizzavano che plotoni di donne erano mandate al fronte  “per tenere alto il morale dei militari”,  ma non vedevano l’ora di condannare le altre…

… e però, sul treno del ritorno le parole della mamma  «guai a ti se no te sta ‘tenta a tu sorela»  improvvisamente mi avevano fatto battere il cuore.

Dovevo far su due soldi e far tornare a Trieste Ida e la nonna. 

L’idea di essere ancora assieme mi riempiva il cuore di gioia, e mentre mi spingevo per guardare fuori dallo spioncino del vagone bestiame,  fin l’odore fresco della neve mi sembrava nuovo e mi faceva sentir bene.

FANNIE:

Mario… tremando lo cercavo ogni giorno tra i miei feriti… non avevo sue notizie.

L’attesa era la condizione comune alla grande maggioranza delle donne: fidanzati, mariti, fratelli, figli erano al fronte. attesa di una lettera, di un ritorno, della fine della guerra.

Ci ripetevamo l’una all’altra un impegno che era augurio e speranza: se il mio caro fosse colpito che qualcuna si prenda cura di lui con la dedizione che riservo io ai miei feriti. 

Una sera  - c’era festa in reparto per i ragazzi guariti che ci lasciavano per tornare al fronte- fu intonata una canzone che Mario mi aveva insegnato ‘O surdato ‘nnammurato’.  

… lo rividi, il mio Mario: si inchinava per invitarmi a ballare, mi aspettava sorridente, seduto sulla panchina dei nostri incontri, mi prendeva fra le braccia, trafelata, i bottoni della divisa che mi premevano sul petto.. mi sembrò che tutte le luci della festa sfavillassero di passione… e scoppiai a piangere.

La caposala mi attrasse a sé: dall’inizio della guerra, da più di 3 anni, suo figlio era disperso, ma, anche se la morte nelle corsie era una presenza quotidiana, lei aveva continuato a sperare di rivederlo «Una volta ancora. Sai, a furia di pensarlo, ho consumato l’immagine del suo viso, del suo sorriso, non li ricordo più».

… sì, aspettare una lettera, un ritorno, la fine della guerra. un corpo su cui piangere, anche se un terzo dei caduti non venne mai identificato. 

ANITA:

Aveva vent’anni.

L’avevano chiamata Ida, che era il nome della nonna, la mamma di sua mamma.

Ma lei poi si faceva chiamare Olga.

Il papà aveva abbandonato la famiglia che era molto piccola e la mamma era morta dopo poco.

Era cresciuta con la nonna e con la sorella un poco più grande, che le volevano tanto bene e anche lei era attaccata alla nonna, alla sorella, alla vita. Fino alla fine.

La fine brutta che le era toccata.

Lei, la sera, andava nei locali e incontrava uomini e li seguiva.

Tutto era cominciato in qualche giorno di fame e freddo nel campo delle baracche di legno. E poi era andato avanti perché le bettole erano più calde dei cameroni pieni di spifferi di Wagna.

 «Ida è’ morta», mi aveva fatto scrivere la nonna: «è stata ammazzata».

Stupri, e nascite di bambini illegittimi, e violenze e botte, fino a ucciderle, le donne, erano fatti assai comuni, che i giornali non scrivevano, anche per non fare  “disfattismo” in quel periodo di guerra.

Anche nel sonno inseguivo gli ultimi momenti di vita di mia sorella.

E immaginavo di esserci, nel buio di quella notte, e chiamarla, e vederla voltarsi verso di me: «sta’ ‘tenta Ida, scappa» che si mescolava alle ammonizioni della mamma e della nonna: «ciò, la picia, me raccomando, sta’ ‘tenta a la picia».

Quando andavamo a rubare assi di legno nei cantieri, per far fuoco, patate nei campi, per mangiare, all’assalto dei forni, al principio della guerra, …correva, correva, con le sue gambette. Eravamo sempre riuscite a metterci in salvo. Scappare, mettersi in salvo!...

I soldati le andavano a cercare nelle cantine, nei fienili, le donne che tentavano di nascondersi, e le violentavano. Lo si sapeva.

Ma nel sonno, il dolore si rifaceva vivo, e mi svegliavo con quel grido, che era paura, illusione, desiderio: SCAPPA… SCAPPA, IDA SCAPPA!