Guardare il mondo dall'alto, facendo volare le idee, significa osservare il pulsare delle vite che scorrono.
Raccontare le storie di quelle vite significa dare voce a persone che amano, sperano, sognano, si impegnano. Voci che cercheremo di afferrare nello scorrere della vita.
Come avvicinare dei giovani studenti e delle giovani studentesse al marketing e all’economia d’impresa?
A spiegarcelo sono due allieve della classe 3S del Liceo Economico Sociale, che, insieme ai compagni e alle compagne, per il loro Percorso per le competenze trasversali e l'orientamento (PCTO), si sono calate nel ruolo di imprenditrici. Affiancati da ex-imprenditori, ora in pensione, facenti parte dell’azienda “JA, idee in azione”, in collaborazione con il Politecnico di Torino, i ragazzi e le ragazze sono stati divisi in gruppi con il compito di progettare il modello di una possibile startup. Da qui, è nata Second Chance, l’impresa di cui ci hanno parlato Evangeline Busso e Asia Filomeno, rispettivamente la CEO e il direttore operativo amministrativo della neonata impresa.
L’idea alla base del progetto è unire l’utilità e l’ecologia in un unico bene, attraverso la realizzazione delle Prison bag, la sintesi perfetta tra il riciclo di stoffe e vestiti dismessi e il lavoro ricreativo dei detenuti. Ciascun prodotto, personalizzato dal suo creatore con scritte e messaggi e proveniente dai penitenziari, verrà poi distribuito nei luoghi di vendita, come supermercati e negozi di articoli bio, tramite l’interfaccia di enti come il Sermig e il Magazzino della Provvidenza del Cottolengo, che si occuperanno anche di selezionare i capi adatti alla realizzazione delle borse, trattenendo per il loro fabbisogno interno quelli inadeguati, e di inviarli alle carceri.
Sebbene siano alle prime armi, gli ideatori e le ideatrici di Second Chance hanno come obiettivo quello di raggiungere il maggior numero di penitenziari italiani, offrendo una seconda opportunità ai detenuti e ai tessuti che, in altre circostanze, sarebbero destinati alle discariche. Per raggiungere il loro fine, che va oltre quello di un semplice compito scolastico e si apre a prospettive future, hanno già cominciato a distribuire bidoncini per la raccolta di vestiti da riciclare nelle sedi del Convitto Nazionale "Umberto I", in modo da presentare una proposta d’impresa ben sviluppata agli investitori che, il 27 maggio, decideranno quali progetti saranno portati avanti nell’anno seguente.
Quindi, come hanno affermato le due startupper, questa è un’opportunità concreta per immedesimarsi con figure professionali che abbiano qualità adeguate a ciascuno studente e ciascuna studentessa, permettendo loro di conoscere da vicino la gestione d’impresa, grazie ad una startup che tutti, al Convitto, possono sostenere, iniziando subito a riciclare i propri vestiti!
Irene Gattiglia e Irene Mammoliti
Per iniziare il nostro programma di interviste, abbiamo deciso di incontrare il Rettore del Convitto Nazionale Umberto I, Giulia Guglielmini, una figura di riferimento all’interno della nostra scuola. Abbiamo avuto il piacere di porle alcune domande riguardo al suo percorso lavorativo, ma non solo; attraverso le sue risposte abbiamo compreso quanto sia una donna forte e determinata nonostante i pregiudizi incontrati nella sua carriera.
Il Rettore, con entusiasmo, ha risposto alla nostra prima domanda, "Cosa significa essere Rettore?", specificando la differenza tra il termine Rettore e Rettrice, che noi studenti, ma non solo, tendiamo a confondere. Infatti, il Rettore di un Convitto è a capo del Consiglio di amministrazione, mentre la Rettrice di un Educandato è controllata dal Consiglio stesso, perché sono tutt’ora vigenti delle norme del 1929 nelle quali è contenuta questa diversificazione. Continuando, ha sottolineato che essere Rettore significa sentirsi responsabile in diversi ambiti, poiché coordina tutti i servizi dell'Istituto: la Scuola primaria di primo grado, la Scuola secondaria di primo e secondo grado e i Centri residenziali maschile e femminile. Poi essere Rettore, per Giulia Guglielmini, significa tutelare il prestigio che quest’istituzione scolastica ricopre a livello cittadino ma anche all’estero. Infine, ha specificato che per lei ricoprire questo ruolo è un piacere oltre che una sfida sia a livello professionale che personale.
Giulia Guglielmini è il primo Rettore donna in Italia e questo l’ha portata ad incontrare molti pregiudizi soprattutto da parte dei numerosi colleghi uomini che all'inizio l’hanno affiancata e che non erano pronti al cambiamento e all’integrazione femminile nell'amministrazione dei Convitti.
Alla nostra domanda “Come definirebbe in una sola parola il Convitto Nazionale Umberto I?” il Rettore esordisce con il termine “opportunità”, sia per gli studenti, sia per chi ci lavora, poiché offre moltissime risorse. Inoltre ritiene che il valore aggiunto dei Licei dell’Umberto I sia dato proprio dal fatto di essere "Licei" al plurale: questo permette di ampliare e diversificare l'offerta formativa, evitando il fenomeno della gentrificazione, vale a dire la concentrazione di gruppi uniformi dal punto di vista socio-culturale, che porta alla divisione degli istituti superiori in scuole di serie A e di serie B; infatti, i Licei devono offrire delle opportunità ai propri studenti indipendentemente dalla loro derivazione socio-economica. Inoltre, i nostri Licei si distinguono grazie alla loro internazionalità, offrendo a tutti gli studenti percorsi che ampliano la loro visione del mondo e della società, grazie anche agli scambi internazionali, alla presenza dei docenti stranieri e al confronto con gli educatori, i quali rivestono, nel percorso di apprendimento, un ruolo chiave, che di sicuro caratterizza la nostra scuola. Il Convitto, quindi, offre delle occasioni di crescita grazie ai numerosi progetti finalizzati alla formazione a 360° dei ragazzi e delle ragazze.
Con l'ultima domanda “Come possiamo prenderci cura di noi stessi e degli altri durante la pandemia?” abbiamo scelto di concentrarci sul percorso di educazione civica, che ha come nucleo centrale proprio il “prendersi cura”, anche perché l'educazione civica è il tema centrale del nostro sito. Il Rettore, in risposta, ha messo in evidenza il fatto che, durante un periodo difficile come questo, in cui siamo costantemente messi alla prova, dobbiamo prima di tutto prenderci cura di noi stessi per poi aiutare gli altri, facendo leva sulla resilienza, cioè sulla capacità, come esseri umani, di adattarci ad ogni situazione. Infatti, solo un individuo che è in equilibrio con tutte le sue parti, quella spirituale, quella intellettuale e quella fisica, può reagire ed essere di supporto agli altri, ritrovando l’allegria e la forza di rinascere.
In conclusione, per noi studentesse questo è stato un momento di crescita e di confronto con una persona che potrebbe sembrare distante da noi, non solo in quanto adulta, ma anche per il ruolo di Rettore che ricopre, e che invece abbiamo sentito molto vicina.
Luisa De Ferrari, Alessandra De Pasquale, Irene Gattiglia, Irene Mammoliti, Arianna Occigano
Gli eventi accaduti in Afghanistan in seguito al ritiro delle truppe statunitensi meritano una particolare attenzione. Per "Capire l'Afghanistan", a novembre nella nostra scuola sono stati organizzati degli incontri con la giornalista Farian Sabahi. Nello stesso periodo Mario Laporta ha inaugurato una mostra fotografica a Saluzzo, intitolata “Racconti d’Afghanistan”. Lo abbiamo intervistato per approfondire la conoscenza della cultura afghana.
Gli abbiamo chiesto quali ricordi avesse oggi dell'Afghanistan e che cosa fosse cambiato rispetto a quando ci è stato vent’anni fa. “Come molti posti in cui sono stato, ho ancora dei ricordi molto vivi. Per quanto riguarda com’è oggi, posso solo citare le notizie che leggo o i racconti piuttosto affidabili dei miei colleghi. Per me, l'Afghanistan è stata un’esperienza molto forte e importante dal punto di vista personale, poiché l’ho visitato in un momento cosiddetto “magico”, ovvero nel febbraio del 2002, poco dopo la cacciata dei talebani. C’erano speranza, voglia di cambiamento, per riappropriarsi delle tradizioni e delle attività culturali che fino ad allora erano state vietate, in un clima di riscoperta del ruolo internazionale del Paese. Nonostante l’aria di tensione che si respirava ancora, era comunque presente il desiderio di ricominciare di nuovo. Sono poi seguiti gli anni degli aiuti internazionali, che volevano importare la democrazia occidentale, in un Paese dal quale era sempre rimasta fuori, attraverso finanziamenti destinati alle istituzioni statali. Tuttavia, in questi ultimi vent’anni, per le singole persone sono cambiate poche cose: le classi sociali sono rimaste le stesse, con differenze marcate tra gli afghani ricchi e potenti e quelli delle etnie minoritarie, e sono rimasti invariati i conflitti interni. L’unica cosa diversa è l’arrivo dei centri commerciali, di qualche cinema e dei centri di bellezza, che sono la testimonianza di una ricchezza poco diffusa, accentrata nelle mani dei signori della guerra”.
Rispetto alle differenze tra le persone che vivono in campagna e in città e ai luoghi in cui si era concentrato di più il suo lavoro ha detto: “Tento sempre di riprendere non solo gli aspetti negativi del Paese, come i combattimenti e le bombe, ma ho sempre prestato molta attenzione alla vita quotidiana, presente anche in una zona di guerra. Esistono comunque una vita normale, persone normali, che non girano con il coltello tra i denti, ma che continuano a svolgere le loro attività abituali. Però, è visibile anche dalle fotografie come uno studente che va a scuola durante un conflitto abbia un volto meno rilassato rispetto ad uno che vive in un territorio di pace. È stato, quindi, interessante capire come la quotidianità continui all’interno di un territorio che vive una condizione ostile, perché è proprio questo che porta alla fine dei conflitti, ovvero il desiderio di normalità delle popolazioni. Ho avuto un’esperienza diretta sia nelle cittadine sia in montagna, dove la differenza sostanziale consisteva nello stile di vita. Molti, infatti, preferivano trasferirsi dalle zone rurali alle grandi metropoli sovrappopolate come Kabul, poiché diverse vie di comunicazioni erano state interrotte. Inoltre, ho vissuto a Kabul durante il coprifuoco militare, pertanto era possibile osservare solo una parte della vita della città, tralasciando quella notturna”.
Per rispondere alla domanda sulla condizione delle donne e su come esse vivono in Afghanistan si è ricollegato al discorso delle caste, “poiché la ragazza nelle foto può essere una ragazza qualsiasi, di qualsiasi università, che indossa un copricapo qualsiasi solo se appartiene ad una classe sociale alta, a differenza di altre colleghe universitarie che devono portare il burqa. Una versione a cui sono stato sempre avverso è quella per cui le donne sono favorevoli a portare il burqa, che è uno strumento di costrizione sia fisica che psicologica. Infatti, non segue la linea della testa, ma rimane quasi piatto nella parte alta, grazie a delle molle che stringono la testa. Inoltre, il velo è aperto sul davanti, costringendo le donne a richiuderlo continuamente. Durante il periodo in cui sono stato in Afghanistan, ho assistito a delle manifestazioni di donne che si toglievano il burqa in pubblico, per opporsi a questo strumento di costrizione, che erano obbligate a tornare ad indossare dalle loro famiglie. La fortuna di una donna afghana, quindi, è quella di nascere in una famiglia abbiente che le permette di non mettere il burqa”.
Alla fine di questa intervista abbiamo un unico desiderio: vedere l’Afghanistan ritornare ad essere quella terra piena di speranza e aperta ai cambiamenti che Mario Laporta ha conosciuto vent'anni fa.
Irene Mammoliti, Irene Gattiglia, Luisa De Ferrari