31 ottobre Giovani e memoria


La vera arte della memoria è l’attenzione.

Samuel Johnson

Con la Legge n. 234 del 30 dicembre 2021 (comma 788) la Repubblica italiana riconosce il 31 ottobre come Giornata nazionale «Giovani e memoria», per “promuovere i valori e il significato profondo dei personaggi, degli eventi e della memoria” e per rafforzare “il grado di consapevolezza, coinvolgimento e partecipazione delle giovani generazioni” alla costruzione di un’identità che accomuna le generazioni e che viene alimentata dalla capacità di conoscere con senso critico i fatti, le persone, i luoghi e gli oggetti che compongono la storia.

Vista l’importanza di questo argomento, abbiamo riflettuto sul senso della 'storia' e della ‘memoria’ con due docenti che insegnano storia nel nostro istituto.

Intervista al prof. Marco Bernardi

Che cosa vuol dire insegnare la storia oggi?

Io credo che abbia la stessa funzione e lo stesso significato che aveva in passato, semmai possono essere cambiati gli strumenti a disposizione e le strategie, non la sostanza. Anzi, forse è ancora più importante oggi, perché l’accelerazione dei tempi, la continua e incessante innovazione tendono ad aumentare la distanza percepita da un passato per molti aspetti diverso dal nostro tempo: è necessario perciò qualcuno che possa dare una mano ai “non addetti ai lavori” a comprendere ciò che nel passato è “altro” rispetto all’oggi (senza incongrue attualizzazioni), ma anche a cogliere ciò che nel passato sta in continuità col presente: gli aspetti che sono costanti perché propri dell’uomo (le costanti “antropologiche”) o le linee lunghe di processi i cui esiti si colgono ancora nell’oggi.


Qual è il valore della storia?

L’importanza di conoscere la storia degli esseri umani in generale (dell’insegnarla, o di studiarla, impararla, capirla) è la stessa che rende necessario conoscere le singole persone, per entrare in rapporto con loro, in modo proficuo e giovevole ad entrambi. Se, ad esempio, conosco i vissuti traumatici di una persona, posso spiegarmi certi suoi atteggiamenti e mettere a punto strategie relazionali per entrare in dialogo con lei senza offenderla o esserne respinto. Nel caso della storia, conoscerla permette di entrare in rapporto con la realtà anche attuale nel suo complesso: capire come sono state le società, come è stato gestito il potere, quale sviluppo ha avuto l’economia, quali modelli del passato hanno avuto una lunga durata o sono stati rifiutati (e come e perché) fornisce chiavi di lettura e modelli per interpretare l’oggi. Non perché la storia sia per forza ciclica e tutto ritorni uguale a se stesso, ma perché l’uomo è sempre l’uomo ed è su questa base che le discontinuità e i punti di rottura si innestano.

Che la storia sia magistra vitae e insegni a evitare i vecchi errori del passato non so se sia vero: gli eventi degli ultimi 150 anni sembrerebbero in larga parte invitare a ritenere infondata questa rassicurante convinzione. Va anche detto, però, che, se la storia può essere maestra, può esserlo a patto di trovare qualcuno che l’ascolti e forse è per un difetto di memoria storica che certi errori si sono riproposti o - il che è difficile stabilire se sia peggio - per la volontà deliberata di ripeterli a causa di interessi personali o di parte.

Storia e memoria sono la stessa cosa?

Dunque, storia e memoria non sono la stessa cosa. Anche il termine storia è segnato da una certa ambiguità: storia sono gli eventi o il loro racconto? Forse sarebbe più corretto nel primo caso di parlare di “passato” e riservare il termine storia (giusta la sua etimologia) alla sua narrazione, che può non essere sempre affidabile, che quasi mai è imparziale, ma che comunque è l’unico modo che gli uomini di ogni epoca hanno per confrontarsi con una selezione gestibile dei fatti degli uomini che li hanno preceduti.

L’attualità è storia?

Dipende. Lo può essere nella misura in cui è possibile porsi rispetto ad essa ad una distanza emotiva e razionale sufficiente ad operare una selezione dei dati e un’interpretazione che li organizzi in un sistema coerente di cause, effetti e reti di interazione. Di solito questo non è possibile, per cui, forse, per lo più ha senso parlare di cronaca. Il rischio di fornire letture troppo “affrettate” e precoci del mondo attuale è quello di appiattire sullo stesso piano fatti rilevanti e fatti trascurabili, sotto uno sguardo miope che non ha la profondità della lunga durata. Le conseguenze più deleterie possono essere la tentazione di trarne pronostici, che ben difficilmente potranno essere affidabili, o la tentazione di fornire letture tendenziose e non fondate, che possono alimentare inutili tensioni o frenare processi di sviluppo sociale e culturale in corso.

Il passaggio alla digitalizzazione è solo un passaggio o è storia?

Se per “digitalizzazione” si intende l’introduzione di nuove tecnologie, direi che si tratti di un fenomeno in senso lato culturale che, come molti fenomeni culturali, potrà esercitare un’influenza sul dipanarsi delle azioni umane nel tempo: evidentemente non da solo, ma insieme a tutti gli altri fenomeni di questo tempo (alcuni, forse, misconosciuti ai più, o solo al nostro Occidente, perché sottovalutati, non osservati, o colpevolmente ignorati e rimossi). Quindi no, non è storia, ma non è nemmeno un passaggio: è un fenomeno che si colloca nella storia (o nel tempo, piuttosto). Un po’ come l’introduzione della stampa a caratteri mobili in Europa nel XV secolo: determinò qualcosa sul piano storico? Sì e no: si può dire che una maggior diffusione dell’oggetto “libro” possa aver contribuito ad un cambiamento della mentalità e al determinarsi di fenomeni come la Riforma protestante, ma, ovviamente, non ne fu la sola causa.

Nella storia tutto è complesso, in senso etimologico: intrecciato, ripiegato, strutturato in reti che si allargano in tutte le direzioni. E forse, alla fine, abituarci alla complessità è il principale servizio che studiare, conoscere, indagare la storia ci può rendere. Per tornare alle prime domande, dunque, se non per altro, oggi - come ieri e mi auguro in futuro - è per questo che è importante avere a che fare con la storia.


C’è un particolare periodo storico, al di là del programma scolastico, che ci tiene a spiegare?

Se ne fossi capace, ci terrei a raccontare gli anni di Piombo (tra il 1969 e il 1989) della storia italiana: lì emergono tensioni e questioni che si irradiano, nell’immediato, dalla lotta contro il Nazifascismo, ma che si inquadrano in un’onda lunga le cui prime increspature possono forse addirittura essere individuate nelle lotte del Risorgimento. Al tempo stesso è un’epoca non troppo lontana dall’oggi (40-60 anni), rispetto al quale tuttavia sembra apparire più lontana di quanto non risulti rispetto alle dinamiche di 150 anni prima: che cosa ha determinato questa discontinuità macroscopica? E non è che per caso qualche preoccupante fenomeno di rimozione collettiva ci ha indotto a credere di aver voltato pagina, mentre striscianti forme di violenza (ingiustizia sociale, settarismo, familismo, corruzione, elitarismo) continuano a innervare la nostra società, perché non sono state affrontate, elaborate e superate adeguatamente?


Ludovica Lovisetto

Steven Hu

Intervista al prof. Giuseppe Cilenti

Che cosa vuol dire insegnare la storia oggi?

Secondo me, insegnare la storia oggi significa superare il modello didattico della storia che ci arriva dal liceo di epoca gentiliana, modello che porta, finché la prospettiva non cambierà, a due possibilità: separare l’insegnamento della filosofia dalla storia oppure insegnarle insieme, in maniera diversa, perché, pur essendo programmate nella stessa classe di concorso, non vengono gestite in maniera coerente fra di loro. Al di là della dimensione didattica, insegnare la storia, per quanto riguarda la prospettiva sociale, significa agire nelle vesti di un “intellettuale organico", come direbbe Gramsci, ovvero dello storico che cerca di proporre un’utilità della storia, rifiutando il modello del magistra vitae, secondo il quale la storia si ripete, che personalmente non considero veritiero. Ritengo, infatti, che la storia possa dirci dove siamo arrivati e come ciò è avvenuto, fornendoci delle risposte su chi ha voluto costruire un’identità storica artificiale, intesa come la consapevolezza che la nostra storia non è ciò che viene descritto sui libri, che sono una ricostruzione artificiosa del nostro passato. Per l’appunto, la storia permette di comprendere le motivazioni che hanno portato ad una determinata ricostruzione storica artificiale, facendo luce sulla natura di tutte quelle tradizioni inventate, come suggerisce la teoria dell’invention of tradition di E. J. Hobsbawm, che spesso sono usate a scopo nazionalistico o per legittimare un modello di potere. Perciò, fare storia significa distruggere tutta una serie di stereotipi, di tòpoi, che ci portiamo dietro.

Qual è il valore della storia?

Dipende da cosa intendiamo, se storia come insieme del passato ricostruito o come storiografia, quindi ricostruzione del passato. Se si intende storia nella sua prima accezione, il passato ci serve per capire chi siamo, considerandolo come la successione di eventi che ci hanno portati ad essere dove siamo ora. Proprio per questo la storiografia è utile, perché permette di comprendere quello che è stato e quello che qualcuno prima di noi ha fatto sì che noi credessimo che sia stato. Proprio come avviene in un film giapponese degli anni ‘50, Rashomon, dove un samurai viene ucciso in mezzo alla foresta e, in seguito, una serie di testimoni raccontano le loro differenti versioni dell’aggressione. In questo caso, il problema è duplice: si parla di ricostruzione storica ma anche di memoria personale. Perciò, lavorare sulla storia, intesa come storiografia, dà la possibilità di capire molto di più chi erano le persone che hanno scritto certi documenti storici, rispetto al contenuto effettivo di essi. Quindi, usare la storiografia significa cercare di ricostruire perché e per quale motivo è stata fatta la storia in un certo modo.


Storia e memoria sono la stessa cosa?

Credo che, vista la domanda, abbiate già intuito che storia e memoria non sono la stessa cosa. La memoria serve soprattutto per la ricostruzione di un particolare tipo di storia, quella orale, ovviamente attuabile solo con la storia contemporanea. Tuttavia, il problema della memoria è che è estremamente fallace, poiché noi tendiamo a selezionare i ricordi in base a ciò che ci conviene e a quello che vogliamo pensare di sapere. Di fatto, ciò si può osservare con chi ha vissuto un determinato evento storico e chi vi era strettamente collegato, come si evince dalla questione delle foibe, dove, in base a chi si intervista, si ottengono due versioni dei fatti completamente diverse. Pertanto, non si può fare storia con un singolo elemento o con una sola parte di memoria, proprio perché la memoria è tendenziosa.


L’attualità è storia?

Questo ci fa ritornare sulla convinzione, abbastanza diffusa, secondo la quale per fare storia è necessario lasciar passare un po’ di tempo, al fine di creare un distacco dall’evento trattato. Perciò, se si credesse in questa teoria, bisognerebbe affermare che l’attualità non è storia, ma io non ne sono convinto. Certo, è vero che il distacco da un soggetto consente di essere un po’ più oggettivi, ma, d’altra parte, non credo che la storia debba essere oggettiva; infatti, lo storico dovrebbe essere solo il più onesto possibile, rivelando sin da subito la sue lente ideologica, attraverso la quale osserva gli eventi storici. Quindi sì, l’attualità può essere storia a patto che vengano specificate, a priori, determinate condizioni, come il grado di coinvolgimento rispetto ad un dato fatto e il punto di vista attraverso il quale lo si legge.


Il passaggio alla digitalizzazione può essere considerato una rivoluzione, come quella industriale?

Sì, si può parlare di rivoluzione perché si inserisce in una delle diverse rivoluzioni industriali, tanto che oggi si parla di quarta o quinta rivoluzione industriale. In questo caso, si tratta di una rivoluzione tecnologica e digitale, che ci permette di accedere in maniera completamente diversa alle informazioni; pertanto la si può definire anche come rivoluzione dell’informazione, pur non essendo la prima di questo tipo (si pensi, ad esempio, al telegrafo). Quindi sì, è certamente una rivoluzione, è attuale perché ne stiamo ancora metabolizzando le conseguenze, soprattutto sul piano anagrafico e generazionale, ed è anche storia perché la si può “storicizzare”, dato che si parla di un lungo fenomeno da inserire in un contesto, con delle premesse e delle conseguenze che si vedranno ancora di più nel corso degli anni.


Irene Mammoliti

Irene Gattiglia

Niccolò Geuna