La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent'anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. Piero Calamandrei
A poco più di un anno dalla fine della guerra, il 2 giugno 1946 gli Italiani e le Italiane furono chiamati alle urne per scegliere la forma costituzionale dello Stato rinato a nuova vita.
La società italiana si trovava spaccata a metà: il Nord a maggioranza repubblicana e il Sud a maggioranza monarchica, nonostante la confusione politico-militare presente dopo l'armistizio, che portò alla guerra civile, e la fuga da Roma dei vertici militari, del re e di suo figlio.
Terminato il conflitto, si succedettero governi di unità nazionale sostenuti da forze politiche ideologicamente diverse tra loro e presieduti da Ivanoe Bonomi, fino al 19 giugno 1945, Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione, dal 21 giugno all’8 dicembre 1945, e Alcide De Gasperi, uno dei fondatori della Democrazia Cristiana, dal 10 febbraio 1945 all’1 luglio 1946. Tali governi si trovarono ad affrontare la questione istituzionale, che imponeva un taglio netto con il passato: le “leggi fascistissime” erano state cancellate, avevano ripreso vita le organizzazioni politiche e sindacali e le associazioni culturali, erano nati nuovi giornali. In tutta Italia si era diffuso un desiderio di libertà.
Fu scelta la via del referendum; un’Assemblea Costituente eletta dal popolo avrebbe poi elaborato la nuova Costituzione. Il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto, che si impegnò a rispettare l’esito del referendum.
Per la prima volta in Italia si tennero elezioni nazionali a suffragio universale maschile e femminile. L’affluenza al voto fu altissima. Questi i dati:
28.005.449 aventi diritto al voto;
24.946.878 votanti (89,08%);
23.437.143 voti validi;
12.718.641 voti a favore della Repubblica (54,27%);
10.718.502 voti a favore della Monarchia (il 45,73%).
Fu subito chiara la netta differenza di espressione fra le regioni settentrionali, a maggioranza repubblicana, e quelle meridionali, a maggioranza monarchica. Profonda era, quindi, la frattura presente all’interno dell’elettorato: la costruzione della Linea Gotica aveva determinato la spaccatura del Paese e la guerra civile era stata vissuta in modo completamente diverso al Nord e al Sud, dove la monarchia rimaneva un’istituzione identificata da molti con l’idea di nazione, mentre la repubblica portava con sé numerose incognite.
Il 2 giugno 1946 si votò anche per l’Assemblea Costituente: la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza relativa dell’Assemblea (35,21 %); il Partito socialista e il Partito comunista raggiunsero il 39,61 % dei suffragi. Si affermavano i partiti legati alla tradizione popolare e venivano ridimensionate le forze liberali, che avevano dominato la vita politica fino all’avvento del Fascismo. L’Assemblea, oltre a redigere la nuova Carta costituzionale, avrebbe eletto il Capo Provvisorio dello Stato. Ne fecero parte ventuno donne, le “Madri Costituenti”.
Il 10 giugno la Corte di Cassazione proclama i risultati del Referendum e il Consiglio dei Ministri diffonde un documento in cui “sapendo di poter contare sul senso di responsabilità di tutti gli organi dello Stato, rinnova il suo appello ai cittadini perché, nel momento attuale, decisivo per le sorti del Paese all’interno come nei rapporti internazionali, lo sorreggano concordemente con la loro vigile disciplina e il loro operante patriottismo, nel compito di assicurare la pacificazione e l’unità nazionale”.
Nei giorni successivi, Alcide De Gasperi diventa Capo provvisorio dello Stato, Umberto II va in esilio in Portogallo (il 13 giugno) e la Corte di Cassazione proclama la nascita della Repubblica Italiana (il 18 giugno). Il 25 giugno iniziano i lavori dell’Assemblea Costituente, che il 28 giugno elegge Enrico De Nicola, di area liberal-democratica, Capo provvisorio dello Stato e in seguito vota la fiducia al secondo governo De Gasperi.
Per conoscere la vita delle 21 Madri costituenti e di 21 Padri costituenti clicca qui.
Possiamo affermare con sicurezza che la festa del 2 giugno rappresenti il simbolo dell’identità collettiva, l’orgoglio di appartenenza nazionale, la naturale connessione al tricolore e all’inno di Mameli? Su questo aspetto il dibattito in Italia non è concluso, lacerato dalle ideologie politiche.
Tre date interpretano l’identità nazionale con diverse scelte simboliche, celebrazioni, manifestazioni patriottiche e politiche: il 25 aprile, il 4 novembre e il 2 giugno
L’Anniversario della Liberazione dai nazifascisti, il 25 aprile, rappresenta l’emblema dell’antifascismo, della Resistenza, della festa di popolo, espressioni che coinvolgono l’arco costituzionale che va dal centro-sinistra alla sinistra radicale, dove, in alcuni casi, al tricolore si associano le bandiere rosse. L’obiettivo della celebrazione del 25 aprile è sottolineare la legittimità politica di tutte le forze antifasciste e del loro ruolo esclusivo nell’elaborazione della Costituzione.
La data del 4 novembre, celebrazione della vittoria della prima guerra mondiale, rappresenta l’esaltazione dell’apparato statale e delle istituzioni nazionali, delle forze armate, il compimento della sacra costruzione nazionale, il ricordo del Risorgimento, temi portanti della destra e del regime fascista, che nel 1922 trasformò la commemorazione dei caduti in solennità civile. Il 4 novembre diviene quindi il contrappeso ideologico del 25 aprile, con il rischio di attribuire connotazioni non proprie al valore simbolico e istituzionale di tale giornata.
Il 2 giugno sancisce la nascita formale della Repubblica italiana, la vittoria della repubblica sulla monarchia; si tratta di una data neutra, priva di connotazione ideologica, a tal punto che dal 1977 al 2001 la celebrazione, anche a causa di una grave crisi economica, perde la connotazione di festività, derubricata a sola commemorazione da effettuarsi durante la prima domenica di giugno. Solo nel 2001, su input dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, viene nuovamente celebrato il 2 giugno, viene ripristinata la parata militare ai Fori Imperiali di Roma, comprensiva delle forze dell’ordine e di protezione civile, e si ridà vita non all'orgoglio militare ma al concetto di patria, che ha al centro l'atto di nascita della Repubblica e la Costituzione, fondamento dell’Italia democratica e della libertà dei suoi cittadini.
Fabio Faccilongo
Sin da quando ero bambino sono stato abituato a crescere in un duplice mondo: due lingue parlate in casa, due Paesi da chiamare casa, due rami della famiglia distribuiti tra Torino e Bősárkány. Con il passare degli anni anche i miei sentimenti di patriottismo hanno seguito due direzioni: un pezzo del mio cuore è rivolto ai Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II e a tutte e tutti gli eroi e le eroine che hanno contribuito a rendere l’Italia il grande Paese che è oggi; l’altra metà della mia anima celebra coloro che si sono sacrificati per liberare l’Ungheria dalle varie oppressioni cui è stata sottoposta per secoli (Imre Nagy, Lájos Kossuth, Sándor Petőfi, la stessa Regina Erzsébeth, in Italia meglio nota come Sissi).
In occasione del 2 giugno, i miei occhi saranno tutti rivolti al passato italiano, in special modo a quella domenica del 1946 in cui l’Italia andava riunendosi e rialzandosi dalle nefaste vicende belliche nel luogo più esemplare e veritiero che possa esserci: la cabina elettorale. In occasione delle celebrazioni per la nascita della Repubblica italiana ho tuttavia pensato di accompagnarvi nella mia testa di italo-ungherese, portandovi nel passato della mia altra festa nazionale.
Il 15 marzo è per noi Ungheresi un giorno di ricordo più che di festa, poiché celebra il sacrificio degli eroi della Rivoluzione anti-austriaca del 1848. Infatti, l’Ungheria fu tra i Paesi che più contribuirono a creare il vero e proprio Quarantotto. La rivoluzione venne repressa nel sangue da parte delle truppe austriache anche grazie al forte sostegno militare dei croati, guidati da Josip Jelačić, e dei russi dello zar Nicola I Romanov. Purtroppo, il sogno di indipendenza magiara si arrestò bruscamente di fronte all’enorme potenza di fuoco nemica, tant’è che la vera e propria indipendenza ungherese arrivò solamente poco meno di un secolo più tardi in seguito al decadimento dell’Impero austroungarico.
Durante le celebrazioni del 15 marzo, due sono i nomi più spesso ricorrenti nelle menti dei miei connazionali: Lájos Kossuth, generale dell’esercito ungherese e capo militare e spirituale della Rivoluzione, e Sándor Petőfi, poeta romantico e compositore del “Nemzeti dal” (Canto Nazionale). Per nostra fortuna, anche la famiglia Savoia si era trovata schierata contro gli Asburgo, e anche a causa di tale vicinanza ideologica con gli ungheresi Kossuth poté riparare a Torino, città in cui egli morì e dove è a lui dedicato un busto nel Giardino Aiuola Balbo.
Spesso si dice che la storia (anche se sarebbe meglio dire la storiografia) la scrive chi vince. Tuttavia, la memoria non può essere dimenticata, ma continua a tramandarsi ininterrottamente nei cuori e nelle menti di chi crede e vuol liberarsi. Il ricordo degli eventi del 15 marzo 1848 non potrà mai essere abbandonato a sé stesso finché esisterà una forte comunità ungherese a suo sostegno. Questo è l’insegnamento che dobbiamo trarre in vista del nostro 2 giugno: le celebrazioni delle giornate nazionali sono un momento di gioia, ma prima di tutto necessitano di rispetto e ricordo per chi ha messo sul piatto la propria vita per la nostra libertà.
Fabio Nača
Come ricostruire una comunità nazionale coesa, come rifondare istituzioni che siano al servizio dei cittadini, come smantellare gli obsoleti apparati amministrativi e burocratici, ammasso di privilegi e ingiustizie? Queste sono le domande da cui si sviluppa la narrazione di Carlo Levi.
Pubblicato nel 1950 L’orologio si svolge fra Roma e Napoli, tra il 22 e il 24 novembre del 1945, durante la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, con cui gli uomini del Partito d’Azione speravano di vedere realizzato il rinnovamento della società italiana in seguito al ‘Vento del Nord” della Resistenza.
La riflessione del protagonista, direttore, come Levi, del giornale del ‘partito del Presidente’, si dovrà soffermarsi sull’impossibilità di scardinare abitudini radicate nella struttura del paese e dei suoi abitanti.
La riforma della pubblica amministrazione avrebbe dovuto avere come base una rivoluzione culturale, capace di sradicare la relazione tra potere statale e società che si era sviluppata negli anni successivi all’unificazione nazionale e di affrontare le questioni sociali che avevano portato al fascismo.
L’orologio rotto che il protagonista aveva portato a riparare e che non ritirerà, dopo averne ricevuto in regalo uno nuovo, simboleggia la sua presa di coscienza: la necessità di ricostruzione si scontra con l’immobilismo di una classe politica incapace di gestire in modo egualitario le risorse che gli Italiani e le Italiane contribuivano a creare, suddividendole in base alla capacità di farsi rappresentare dai gruppi che detenevano il potere.
Miniserie televisiva in cinque puntate andata in onda su Rai3 nel 2016 per celebrare i settant’anni del diritto al voto per le donne. Dieci “ragazze” che il 2 giugno 1946 avevano tra i 21 e i 31 anni raccontano le proprie storie di contadine o insegnanti, casalinghe o impiegate, artiste o impegnate in politica, diverse tra loro per provenienza, estrazione sociale, istruzione e opinioni.
La prima volta in cui venne riconosciuto il voto alle donne fu l’1 febbraio 1946 e le donne esercitarono questo diritto nelle elezioni amministrative della successiva primavera, vedendosi riconosciuto un importante ruolo sociale.
Episodio 1 - Episodio 2 - Episodio 3 Episodio 4 - Episodio 5
Ezio Bosso racconta la dolcezza della storia di due giovani amici, Goffredo Mameli e Michele Novaro, e reinterpreta con dolcezza il nostro Inno nazionale, Il Canto degli Italiani.