Bruno Caccia

L’origine del termine “stereotipo” è datata al 1795, essendo la parola un neologismo direttamente attribuibile all’inventiva del francese Firmin Didot, il quale volle dar forma ad un vocabolo con il significato di un’impressione personale (rappresentata dal greco typos) che difficilmente muta nel tempo (riconducibile all’aggettivo greco stereos, lett. duro). Con il passare degli anni, il suddetto lemma è stato soggetto ad un’attribuzione negativa, tanto che si parla di “stereotipo” solo nel caso in cui si voglia identificare una particolare percezione negativa di qualcosa o qualcuno che non trova corrispondenza nella realtà.

Nel contesto della nostra indagine antimafia, uno degli stereotipi più in voga, anche purtroppo tra gli italiani stessi, concerne indubbiamente la credenza per cui la mafia sarebbe un fenomeno attribuibile ai soli territori del Sud Italia. Vien facile smontare tale mistificazione, dal momento che, per esempio, la prima giunta comunale sciolta in Italia per infiltrazioni mafiose è riconducibile al municipio di Bardonecchia, punto di estremo confine nordoccidentale della Penisola. Inoltre, numerose sono state le vittime dirette ed indirette dell’assurda violenza mafiosa anche al centro e nord Italia, talvolta addirittura fuori dai confini nostrani.

Per chi come noi della redazione di IdeeVol@nti viene da Torino, non suonerà nuovo a tal proposito il nome di Bruno Caccia, Procuratore Capo della Repubblica nel capoluogo piemontese dal 1980 fino al giorno della sua morte nel 1983, nonché magistrato cui è tutt’oggi intitolato il Palazzo di giustizia della ex-capitale sabauda. Il metodo operativo e lavorativo di Caccia rifletteva appieno la sua personalità meticolosa ed inflessibile, come d’altronde visibile nella celeberrima indagine a carico di Germano Oseglia, medico della clinica penitenziaria proprio a Torino e reo di aver rilasciato numerosi e mendaci certificati di cattiva salute ai detenuti della criminalità organizzata. Esattamente come nelle indagini menzionate rifacentisi ai processi concernenti le vittime di cui si è trattato nei mesi scorsi, anche nel caso della morte di Caccia, assassinato nella tarda serata estiva del 26 giugno 1983 mentre portava a passeggio i suoi cani, il seguito giudiziario risulta pieno di incongruenze, contraddizioni, nuove indagini e un susseguirsi continuo di arresti e scarcerazioni.

Come dimostrato dall’esempio afferente al magistrato Caccia, l’efferatezza della mafia non conosce confini temporali, spaziali o tantomeno morali: chi diventa scomodo o invadente risulta di troppo all’interno del loro mondo ideale composto da patriarcato, bigotteria, vigliaccheria e distruzione. Inoltre, la morte del Procuratore Capo Caccia non è che una delle molteplici dimostrazioni del fatto che, se proprio si deve avere uno stereotipo riguardo alla mafia, che questo sia votato a considerarla quale malessere sociale contro cui contrapporre cuore ed anima, sempre e comunque, al di là delle medesime considerazioni di tempo e spazio che la stessa mafia ignora per continuare ad esistere.

Fabio Nača

Nell'immagine, il Palazzo di Giustizia di Torino intitolato a Bruno Caccia, sito in Corso Vittorio Emanuele II al numero civico 130