25 aprile 

Festa della Liberazione

Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitato sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. 

Cesare Pavese, La casa in collina

La fine di una guerra civile

25 aprile 1945: il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI ) ordinò l’insurrezione totale nei territori ancora occupati dai nazifascisti e assunse tutti i poteri civili e militari. Anche se le operazioni militari sarebbero continuate fino a maggio, questa data è stata scelta simbolicamente come anniversario della liberazione dell’Italia ed è stata proclamata festa nazionale della Repubblica con decreto legislativo del 22 aprile 1946 su proposta dell’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. 

Terminava così una guerra che, soprattutto nell'ultima parte, aveva duramente colpito la popolazione, rendendola protagonista di eventi tragici e atti eroici. Una guerra che era diventata guerra civile. 

Vogliamo raccontarla attraverso alcuni sguardi che sono stati immortalati dalla letteratura e dal cinema.

Lo sguardo 

di un bambino

Pin, un bambino solo e con una sorella prostituta, si sente 'l'amico dei grandi', ma i grandi non fanno altro che deriderlo. Dopo essere stato in carcere per aver rubato la pistola a uno degli amanti della sorella, inizia la sua avventura partigiana e incontra Cugino, un 'grande' che, come si capisce tra le pieghe della storia, uccide la sorella proprio con la pistola che gli dà il bambino; ma di lui Pin continua a fidarsi: "è l'ultima persona che gli resti al mondo" e si interessa dei nidi di ragno. Così alla fine cammina con lui "nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano". 

Pensare di scrivere della Resistenza ha significato, per Calvino, “lanciare una sfida" ai suoi detrattori e "ai sacerdoti d'una Resistenza agiografica ed edulcorata”, come si legge nella Prefazione scritta  diciassette anni dopo la pubblicazione del libro. Nella sua storia non c'è nessun eroe, la guerra è vista attraverso gli occhi di un bambino in cui si specchiano gli occhi dello scrittore, immersi in un'atmosfera incantata che mette ancor di più a nudo la tragedia della realtà.

Lo sguardo 

di una donna

Agnese è un nome fittizio, ma la sua storia “non è una fantasia”: la donna che  fugge di casa dopo aver colpito un tedesco che aveva ucciso per divertimento la sua gatta è esistita, ha offerto il suo contributo alla lotta partigiana. Renata Viganò l’ha conosciuta mentre si trovava in un paese della Bassa con suo figlio, quando il marito era stato catturato dalle SS. Era una staffetta cocciuta e forte, parlava un dialetto ruvido.

Come la stessa Viganò scrive nella postfazione, la vita partigiana scorreva in un clima “antiretorico, antidrammatico, casalingo e domestico”, con la morte che “girava lì intorno, si nascondeva nello scialle dell’Agnese, negli scarponi dei barcaioli”. Usando una prosa asciutta e luminosa, Renata Viganò ricostruisce quell’atmosfera, nella quale, dice la scrittrice, ancora vive chi è uscito salvo dalla lotta, e forse mai potrà venirne fuori. L’Agnese va a morire per odio verso i Tedeschi, insieme a tanti altri morti per la libertà, ma tutti sono “rinchiusi vivi nel mio libro con lei”: questo è il valore della letteratura, rendere eterna la vita.

Lo sguardo innamorato

Fulvia splendore è l'apostrofe con cui Milton si rivolge alla donna che ama e per la quale sacrifica la vita, tornando a cercare, nella villa in cui l'aveva lasciata, una risposta al suo tormento, risposta che non avrà mai. Quello di Milton per Fulvia è forse uno degli amori più intensi che la letteratura abbia mai raccontato e, fuori da ogni retorica, questo romanzo mostra che anche nel pieno di una questione pubblica, come la Resistenza, rimane l'urgenza di risolvere Una questione privata: la ricerca della propria verità.

Italo Calvino, attento studioso dei meccanismi narrativi, fu capace di leggere a fondo il senso di questa ricerca: Una questione privata, scriverà nella Prefazione al suo Sentiero dei nidi di ragno, “è costruito con la geometrica tensione d'un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. [...] Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest'altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché. È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio”, perché Fenoglio “riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l'aspettava”.

Lo sguardo 

materno

"La storia entra dentro le stanze, le brucia (...).

La storia siamo noi", cantava Francesco De Gregori nel 1985; dieci anni prima Elsa Morante aveva scritto La Storia, intenso affresco che ripercorre la storia dell'Italia fra il 1941 e il 1947 attraverso la storia di una madre, Ida, di suo figlio, Useppe, e dei tanti personaggi che entrano ed escono dalla loro vita. 

La narrazione si apre e si chiude su due atti tragici e attraversa gli anni della guerra di occupazione e del primo dopoguerra con un movimento che intreccia la strada maestra del racconto con tanti viottoli secondari, attraverso digressioni, destini che si srotolano e si incrociano. 

E la storia degli avvenimenti, l'unica che un tempo aveva il diritto di essere studiata, dà il ritmo alla narrazione, ma è stampata a caratteri minori: riassunta  per lunghi lassi di tempo nelle pagine iniziali e finali e in maniera più dettagliata all'inizio di ogni capitolo, occupa una parte a sé stante, un'asettica cornice che rende ancora più tragiche le vicende di chi vive la propria storia di amore e sofferenza.

Lo sguardo 

di chi si ama

"<Su, moglie, a letto>" disse Miro alzandosi. Anche Anna si alzò. Miro spinse la porta ed entrò in cucina. Prima di seguirlo, Anna diede un'ultima occhiata fuori. Era tutto buio. Non c'era nessuno." 

Sulla vana attesa di Anna termina la sua storia d'amore con Fausto, impossibile da realizzarsi a causa del matrimonio della donna. 

I due si erano amati, però le loro vite erano state separate dalla crudeltà e dall'irrequietudine del giovane, e Anna si era costruita con Miro  un'esistenza monotona ma serena.

Intanto la guerra partigiana coinvolge Fausto, che ritrova Anna a San Ginesio, dove era sfollata con la famiglia. I due si amano ancora, ma la felicità per la fine della guerra e il ritrovamento di Anna è presto distrutta dalla realtà: Nora convince Fausto a non rivedere più la cugina; Anna è costretta a chiudere la porta, lasciandolo fuori dalla propria vita

L'appassionante storia di Fausto e Anna ha come sfondo la lotta partigiana, di cui sono messi in evidenza dubbi e tormenti e che viene raccontata senza retorica, perché, come dice il protagonista, "sono un partigiano. Non sono nulla, assolutamente. Sono un uomo. Vivo, amo. Ma che cos’è la vita? Che cos’è l’amore?"

Per Fausto, la fine della Resistenza coincide con la rinuncia ad Anna: l'esistenza ritorna alla normalità, senza però vita e senza amore.

Lo sguardo 

di chi ha sofferto

Durante le offensive del ’42 e le controffensive del '43 sul fronte orientale russo,  il sottotenente Revelli scopre la situazione degli ebrei polacchi e ucraini, la gravissima  impreparazione delle truppe italiane, la realtà quotidiana della guerra e scopre che in guerra muoiono i migliori, che le retrovie italiane sono colme di imboscati, che gli alleati tedeschi sono i veri nemici. Tutto questo suscita un impulso verso la ribellione, il desiderio di denuncia; «ero però troppo stanco, stanco dentro».

Segue poi il tragico epilogo, la ritirata dei soldati italiani, abbandonati dagli  alleati tedeschi e dai propri comandi: una colonna di 80.000 uomini dilaniati dalla sofferenza, dal freddo, dalla fame. Emerge lo  straziante abbandono dei feriti, dei malati, di chi non può più andare avanti, la lotta contro la rassegnazione, la follia che incombe sui reggimenti, ma mai il tradimento verso la bandiera, verso la propria Patria, sempre meno identificata con il  fascismo e la monarchia.

Revelli racconta una doppia sconfitta, quella militare e quella politico-civile di un intero Paese, sottolinea la tragedia degli ultimi, gettati allo sbaraglio, il dissolversi dello Stato logorato da una guerra civile dilaniante, e proprio tutto questo fa riscoprire le ragioni profonde della dignità del vivere.

Lo sguardo ironico

"Non eravamo mica buoni, a fare la guerra": così l'io narrante sintetizza, all'inizio del romanzo, la folle azione militare intrapresa  nel 1940 dall'Italia. Il racconto si apre  con il catastrofico armistizio, che "venne sotto forma di urlo" e provocò il tragico sbandamento dei soldati italiani. In chiave antieroica e autobiografica, la narrazione mette in luce la confusione della lotta partigiana, malgrado l'entusiasmo, e la maturazione nel corso della vicenda. Lo studente di filosofia, che beve con i contadini e ride con le contadine, si perfeziona: "Non ci sentivamo più apprendisti, ma maestri in proprio, gelosamente indipendenti da ogni scuola".  

In polemica con una linea d'azione che ha condotto la resistenza, invece di proclamare la rivoluzione, Meneghello denuncia, alla fine di questa dura esperienza, la mancanza di un totale sradicamento delle radici fasciste, e l'oggi sembrerebbe dargli ragione.

Lo sguardo di chi non ha avuto parole

Un libro sulla Resistenza che parla di donne ed è scritto in inglese. La giornalista Caroline Moorehead nella Casa in montagna propone una prospettiva particolare: presenta la lotta partigiana attraverso delle figure femminili e si rivolge a un pubblico non italiano, ma è rivolto anche agli italiani, perché non si distraggano e non dimentichino una storia per tanti anni raccontata ma che ora rischia di non essere conosciuta o di essere travisata.

Sicuramente ancora poco nota è la presenza delle donne nella lotta partigiana. Da poco tempo nella storia della Resistenza è entrato il ricordo delle settantamila (o forse più) donne che vi hanno partecipato. Protagoniste del romanzo di Caroline Moorehead  sono le torinesi Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Frida Malan e Silvia Pons, simbolo di tutte le donne che, con coraggio e dedizione, hanno dato il loro contributo alla guerra di liberazione: erano staffette, nascondevano i partigiani, se ne prendevano cura, sostenendo quell’azione collettiva che ha visto proprio nella presenza femminile un importante collante.

Narrando la storia di Ada, Bianca, Frisa e Silvia, Caroline Moorehead entra nella vita quotidiana del ceto intellettuale torinese, che molto ha dato alla lotta per la libertà.

“E’ il racconto delle vicende di singoli individui, al tempo stesso vittime ed eroi – e talora anche carnefici – nel contesto di una grande tragedia nazionale: un periodo in cui uomini e donne potevano compiere azioni e accettare di esporsi a rischi e sofferenze oggi nemmeno immaginabili” .

"Quando comincia una guerra, la prima vittima è sempre la verità, quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano storia!"

                                                                        Arrigo Petacco