Strage di Castel Volturno

Le Forze dell'Ordine mettono in sicurezza la zona nei momenti immediatamente successivi alla strage.



Un manifesto cartaceo con i nomi e le foto di alcune delle vittime della strage camorrista.



Il camorrista Giuseppe Setola, autore materiale e organizzatore della strage di Castel Volturno.

All’interno delle nostre pubblicazioni in questa rubrica si è sempre cercato di dare una voce a chi, purtroppo, non è riuscito ad ottenere una giustizia quantomeno mediatica in seguito alle vessazioni e alle violenze della mafia. Da questa prospettiva, non deve pertanto sorprendere che tra le categorie maggiormente colpite dalla lunga scia criminale mafiosa, e tuttavia ancora ignorata dal dibattito pubblico italiano, corrisponde a chi in Italia è giunto solo in un secondo momento.

Esempi tristemente classici dell’interconnessione tra il fenomeno mafioso e l’immigrazione concernono pratiche quali caporalato (una sorta di schiavitù in salsa contemporanea) e traffici criminali quali prostituzione, traffico di persone, spaccio e così via, con le due realtà che ivi si incontrano ed interfacciano chi per affari, la mafia, e chi per necessità, gli immigrati (specialmente se "irregolari"). A farla da padrona in questi contesti è quasi sempre la mafia italiana, la quale, dove non riesce ad assoggettare al proprio volere chi di questi traffici ne fa una ragione di pura sopravvivenza per mille motivi che non analizziamo hic et nunc, impone un controllo capillare su tutte le sue vittime.

Eppure, non sono solo queste vicende quotidiane e normalizzate da un silenzio assordante a rappresentare il rapporto criminale tra mafia e immigrazione. Infatti, in misura eguale rispetto alla popolazione italiana, anche chi proviene da altri territori del pianeta ha subito presto o tardi la mano violenta ed omicida della mafia, in questo caso fomentata dall’odio razziale. Tale contenuto diventa evidente se si presta attenzione ai fatti occorsi il 18 settembre 2008 a Castelvolturno, presso la sartoria “Ob.Ob exotic fashion”, la narrazione dei quali è pressoché interamente derivante dalla voce di Joseph Ayimbora, unico sopravvissuto alla strage e teste chiave nel processo contro i colpevoli dell’attentato.

“Sporchi neri, bastardi”: queste sono solo alcune delle urla lanciate dai camorristi autori della sparatoria nel casertano, identificati proprio per mezzo degli occhi di Ayimbora come servitori del boss e allora latitante Giuseppe Setola, condannato all’ergastolo con l’accusa di strage con finalità terroristica e aggravante dell’odio razziale, sorte toccata anche ad altri tre uomini. A essere colpiti da quelle urla furono sette persone, con queste stesse parole che divennero improvvisamente decine e decine di colpi d’arma da fuoco a uccidere non solo il loro animo, bensì anche i loro corpi. Ibrahim Muslim, Karim Yakubu, Kwame Julius Francis, Justice Sonny Abu, Eric Effun Yeboa, Kwadwo Owusu Wiafe: ecco i nomi e i cognomi delle sei vittime della strage di Castel Volturno.

Però, esattamente come gli insulti razzisti pronunciati dal seguito di Setola divennero proiettili, così le ferite riportate dal gruppo di giovanissimi ghanesi vennero prontamente traslate all’intera comunità di immigrati del luogo, i quali organizzarono potenti dimostrazioni antimafia, con lo stesso Ministero dell’Interno coinvolto per placare le tensioni con soluzioni emergenziali. E fu proprio in questo momento che il circo mediatico e sociale di cui si parlava in precedenza venne ripresentandosi: le prime ipotesi, totalmente infondate già all’epoca dei fatti, parlavano infatti di "regolamenti di conti tra bande", di "guerra per il controllo delle zone di spaccio", di "immigrati irregolari che mettevano a ferro e fuoco una città senza controllo". Insomma, in poche parole, la medesima narrazione aprioristica e colpevolizzante di chi ha ben poche opportunità di difendersi. Allo stesso tempo ci ha tuttavia pensato il percorso di giustizia a confermare la reale versione dei fatti, come raccontata dal coraggiosissimo Ayimbora ai magistrati incaricati.

Nonostante la conclusione della vicenda restituisca la giusta dignità alle vittime, uccise due volte dal Paese in cui avevano riposto sogni e speranze, l’amaro in bocca continua a permanere. Per quanto rimarrà ancora sottotraccia il distesissimo fenomeno dello sfruttamento degli immigrati da parte della mafia? Come è possibile che un Paese come l’Italia, che all’interno della sua stessa Costituzione giura solennemente sul rispetto di diritti e libertà sine discrimine, non sia dotato di una gestione mediatica e sociale in grado di trovare una soluzione a questo enorme problema di disparità e discriminazione?

La risposta ai suddetti quesiti passa attraverso strade temporalmente lunghe e tortuose, eppure il valore del coraggio nel trovare una soluzione passa necessariamente per sentieri impervi, e se un giovane padre di famiglia come Joseph Ayimbora è stato in grado di mettere da parte qualunque priorità per dar posto alla giustizia, non esistono ragioni per cui non ci si schieri dalla parte del giusto, che è sotto gli occhi di tuttə.

Fabio Nača