La politica della comunicazione
Post date: 26-dic-2013 14.04.54
di: Clementina Gily Reda
Cosa rappresenta in una società la comunicazione? La dimensione centrale cui fare attenzione per garantire la formazione della comunità legalitaria. Gaetano Filangieri nel suo grandioso disegno della Scienza della legislazione, idea che Napoleone apprezzò esplicitamente come necessità di fare uscire il diritto dall'essere una "raccolta immensa, mosaico di centomila pietre di diversi colori accozzate senza ordine e senza proporzioni" (ivi p.123), dava alla comunicazione un posto assolutamente centrale. Essa è la base della società umana: che nasce, ha il suo stato di natura, in quanto società, nella comunicazione (ivi, pp.47-8); quando gli uomini si associano anche in un branco di cacciatori, ciò accade per una forma di comunicazione che consente loro l'aggregazione. Essa garantisce la comprensione della legge, in una società che si apre al consenso dei cittadini, del 'grande tribunale dell'opinione pubblica' (ivi, p.155). Le leggi devono essere emendate, perché "la decadenza dei codici è una rivoluzione politica" (ivi, p.69), ma poi occorre che esse passino nella società, divengano costume ed etica pubblica: per Filangieri garantiscono questi esiti l'educazione, svolta dalla famiglia, dalla scuola, dalla religione (e ad ognuna perciò va dedicata attenzione da parte dello Stato) - e la garanzia della libertà di stampa, che rende esplicito il giudizio del grande tribunale. Filangieri mostrava in queste considerazioni l'utilità di una visione organica del problema della comunicazione, che, stabilita nel suo essere fondamento della vita associata, non rientra tra i poteri dello Stato: ma penetra in tutti e li garantisce nella loro efficacia.
Oggi la comunicazione è un termine tanto inflazionato che occorre precisare con attribuzioni ogni luogo particolare di analisi. Ciò è dovuto, più che alle mode, alla natura di fondamento su elencata ed alla diffusione delle comunicazioni di massa. Esse hanno creato una sorta di mondo addito, che si può definire un neo ambiente elettronico, che genera la necessità di una nuova ecologia, addirittura, per essere reso abitabile. La vita del cittadino che vede ad esempio poca televisione, comunque recepisce le notizie da qualche fonte appartenente alle comunicazioni di massa, dai giornali ad Internet. I ventenni, tradizionalmente i più aggregati in gruppi prossemici, vivono con la musica e alimentano le reti di musica on line di tutti i generi. Chiunque non vede oramai grande problema a tenere contatti ordinati con il resto del mondo o a progettare viaggi. L'orizzonte della globalizzazione si stende per ogni dove per il progresso inaudito della comunicazione. Ma soprattutto questo orizzonte ha cambiato la nostra psicologia cognitiva, il ruolo dell'immagine nella formazione delle strutture logiche è dirompente, generando una neo-oralità che non è senza effetto sull'evolversi delle conoscenze umane e delle logiche. Una neo ecologia, perciò, è il nome giusto per una politica della comunicazione attuale, facendo entrare immediatamente nell'accezione la configurazione neo ambientale che ha oramai assunto il mondo della comunicazione. Come ogni ambiente, esso va studiato ed analizzato nei particolari, ad ogni problema va cercata una soluzione adeguata; mentre l'ambiente naturale ha caratteristiche stabili, pur nella sua evoluzione, studiate da millenni, nel neo ambiente elettronico i cambiamenti rivoluzionano il percorso di quinquennio in quinquennio, le legislazioni ad hoc si moltiplicano, badando al tamponamento dell'argine piuttosto che all'impostazione di una politica lungimirante. In un ambiente politico dominato da un neo pragmatismo generato dalla crisi delle ideologie, questo atteggiamento - lo stesso seguito prima con le ideologie, a causa del troppo rapido svolgersi dei progressi tecnologici - rischia di generare processi incontrollati, lasciando all'evolversi della situazione il dominio della regola.
Torna utile perciò ripensare all'esempio di Filangieri che pure si diede a dominare uno spazio impossibile al dominio. Aldo Garosci disegnava la differenza tra i fratelli Rossetti Nello e Carlo, storico e politico, ricordando un racconto della madre: che ricordava come di fronte ad una delusione, infantile, avessero reagito l'uno dicendo 'non è andata come si voleva', l'altro, veemente, 'ma deve andare'. Regolare la comunicazione è impossibile, ma è la sfida dei tempi. Il pensiero liberaldemocratico odierno deve approfondire le proprie scaturigini culturali cercando nella dimensione liberaldemocratica piuttosto che nella liberale pura suggerimenti utili alle proprie riflessioni. Ricordando che nei capisaldi gettati da Stuart Mili Tocqueville, Hobhouse, De Ruggiero, Collingwood, Mannheim, è scritto un liberalismo non solo garantista, volto cioè al puro liberismo, cioè all'affermazione assoluta della libertà, in economia come in ogni lato del pensiero. Essi disegnano piuttosto un liberalismo democratico con venature, a volte forti, socialiste. Questo tipo di liberalismo contempera le esigenze della libertà con quelle dell'eguaglianza: il che genera ovviamente poetiche opposte, da un canto la garanzia senza regola dell'azione individuale -, o meglio, con la minore regolamentazione possibile; dall'altro la tutela delle minoranze in una regolamentazione che finisce con l'essere cavillosa, per regolare l'azione individuale in vista dell'equilibrio sociale. Tanto diverse sono le politiche risultanti che per i due secoli della riflessione liberaldemocratica molti hanno ritenuto opposte le anime liberale e democratica, addirittura inversamente proporzionali: al massimo di libertà corrisponde il minimo di eguaglianza, al minimo di libertà il massimo di eguaglianza. I pensatori indicati in via d'esempio, invece, sono la scaturigine di un diverso modo di pensare, molto utile oggi che la loro idea politica è la base dei regimi esistenti, tutti tendenti, in diverse misure, a contemperare le opposte esigenze in vista di una società equilibrata. Perché la libertà è sì un assoluto, ma nelle politiche concrete si contempera nell'eguaglianza, altrimenti è un nome inutile, come la libertà di un uomo e di una donna che non si reputino reciprocamente eguali (l'esempio è di Hobhouse negli anni '20).
Il garantismo è il problema, il termine da innovare per discutere la necessità - evitabilità della regola. Se occorre garantire il diritto di ognuno con regola scritta, difatti, essa immediatamente implica il limite di un diritto altrui; quando questo si moltiplica indiscriminatamente, si conclude in un mare di codicilli che lasciano campo a tutti gli abusi. Donde il liberalismo puro, liberista, preferisce evitare la regola, riducendola al minimo e seguire comunque la strada del garantismo. Ma bisogna intendersi. Tutti i giusnaturalisti hanno indicato l'origine del patto sociale nella necessità di difendersi dalla violenza: ciò comporta l'istituzione di una legge che si affida al potere centrale rinunciando al diritto all'autodifesa dal crimine. La regolamentazione e la legge - ed il suo rispetto - vengono prima della scelta sul regime da adottare negli Stati, fanno parte del patto originario che costituisce il cittadino, venir meno a simile capacità significa dare ai cittadini l'opportunità di denunciare il patto: il che accade oggi, se si leggono correttamente certe polemiche politiche attuali del secessionismo. Dunque il potere di regolamentazione resta fuori discussione. Il pensiero liberale deve ripensare la formula del garantismo ripetendo qui la classica scienza tra pensiero liberale e pensiero democratico: libertà-da e libertà-di. Con ciò si indicava la scelta tra un pensiero che si indirizza solo al garantismo, ed uno che si indirizza invece ad assicurare libertà d'azione, facendo caso dunque alle condizioni di vita del cittadino ed alle sue possibili realizzazioni. Altrettanto oggi si dovrebbe distinguere tra garanzia-da e garanzia-di. Con ciò s'intende cosa molto diversa dal precedente, ma come quello valido più che come aut aut come bisogno di reciproca integrazione nell'ambito di una vita politica armonica. S'intende che esiste una garanzia dallo Stato, dunque la necessità di preoccuparsi dei singoli e dei gruppi salvando la loro possibilità minacciata da legislazioni o gruppi diversi. Ma esiste poi una garanzia dello Stato, cioè una riflessione preoccupata di mantenere in vita il patto, originario rendendolo sicuro dalle impugnazioni. Lo Stato forte diceva Croce, non è uno Stato violento; la forza e la violenza sono termini diversi per la natura dell'esplicazione e della motivazione del loro esercizio. Lo Stato forte è semplicemente quello che, con leggi e regolamentazioni tende ad esercitare la propria funzione di indirizzo della comune attività verso direzioni scelte democraticamente. Mancare a simile funzione, è minare la natura stessa dello Stato.
Una riflessione attenta sul garantismo, che ponga queste due anime della garanzia, fornisce alla politica l'arma per contemperare le direzioni d'azione concedendo garanzia ai gruppi fintantoché questo non si ritorce sulla possibilità dello Stato di garantire l'indirizzo politico, moltiplicando eccessivamente i cavilli, che divengono non più garanzia di equità ma di illecito. La politica è il regno del possibile. La filosofia politica si stende nel campo delle formulazioni, cerca le coerenze di fondo, anche puramente ideali (De Ruggiero), nello studio della società storica (Mannheim), che poi la politica attiva traduce in nuove possibilità.
Regolare la comunicazione sembra un compito impossibile, ma è la sfida dei tempi. Resa indispensabile dalla necessità di rendere vivibile, in tempi storici e non futuribili, il neo ambiente elettronico. L'urgenza del problema è tale, che meraviglia manchino nei partiti apposite commissioni che si preoccupino di tracciare una linea di tale filosofia politica che serva poi di base alla politica per tracciare il proprio piano d'azione, contemperando l'ideale alla realtà. Regolare la comunicazione è possibile solo per questo tramite. Manca il tempo per fare un'analisi esemplificativa di come le decisioni sulla politica della comunicazione siano sempre state immediate, volte ad una soluzione pragmatica, e poi disattese: basti fare il caso della RAI perché tutto torni alla memoria. Ma il problema, se si pensa che le comunicazioni di massa vanno dai giornali ad Internet, non è dominabile neppure dallo sforzo sovrumano di un Filangieri redivivo: o, almeno, la nascita di un novello Filangieri adatto alla bisogna non è programmabile, almeno da chi si occupa di politica della comunicazione e non di genetica. Dunque, la regolamentazione è possibile, in piani alternativi di diverse formazioni politiche, da commissioni che i partiti siano obbligati a sostenere finanziariamente nel quadro delle leggi sul finanziamento ai partiti. Commissioni che dedichino sempre per obbligo una parte a disegnare il quadro generale proposto, e poi le singole analisi e possibili regolamentazioni dettagliate.
Il quadro generale proposto è esigenza della filosofia politica, come s'è detto. Ma è anche un'esigenza comunicativa. Per argomentare questo punto ci sia consentito fare ricorso ad un esempio: il basso tasso di partecipazione ai referendum qualche politico ha detto che indica la disaffezione, non il rifiuto, per l'inflazione cui si è andati soggetti. Ma se essa non si mostra parimente nelle tornate elettorali, altrettanto inflazionate, non si giustifichi ciò con i soliti clientelismi locali: si abbia fiducia nel popolo sovrano, e si argomenti correttamente che il rifiuto riguarda l'istituto del referendum cosi come lo si è utilizzato; non si può chiedere all'elettore una competenza giuridica, mentre è giusto chiedergli una competenza di scelta su di un'alternativa comprensibile. Il discorso di quadro è l'unico che vale nella comunicazione politica, l'unico che l'elettore può comprendere e su cui può esercitare la propria scelta. Chiedere al cittadino comune di esercitare una scelta su cose su cui occorre acculturarsi per intendere a mala pena, è cosa che il cittadino rifiuta. Pur avendolo fatto qualche volta, il cittadino non partecipando ai referendum e facendo saltare i quorum dice chiaramente al potere di fare il proprio mestiere, oppure di fornire a ciascuno una laurea in legge a distanza ed il tempo per conseguirla.
Il quadro generale. Parliamo di politica della comunicazione e ci teniamo a questa. Ma siamo sicuri che nella comunicazione politica non sia questo da meditare, invece che l'immagine del leader e la garanzia della comunicazione via Internet? Tutto è importante, ma il centro della comunicazione politica è farsi capire; il che non vuol dire artifizio retorico ma idee chiare. E cosa conta avere le idee chiare, come certamente avranno i nostri politici e governanti, quando il cittadino medio non capisce il perché delle scelte fatte, il perché degli uomini scelti, nulla insomma, perché la politica invece di fornire informazioni chiare fa spettacolo, svaga, o spiega minuziosamente il codicillo?
La politica della comunicazione dunque, correttamente intesa in modo liberaldemocratico, cioè nell'ambito di concezioni della sovranità popolare e della libera elezione, ha come suo ufficio di compiere due operazioni fondamentali, l'una di ripensare il problema della comunicazione in modo adeguato con commissioni di studio obbligatorie il cui disegno base ottemperi alcune esigenze di fondo; commissioni dotate di fondi e di tempi che rendano possibile il loro lavoro: ciò indica la necessità di leggi adatte a questo scopo. Poi deve farsi attenta alla comprensione popolare del progetto, cioè non ragionare sulle politiche retoriche e spettacolari, ma dare semplici idee base dell'azione prevista, che consentano al cittadino di compiere la scelta che è suo diritto-dovere compiere.
I grandi temi degli ultimi anni, essenzialmente la caduta delle ideologie ed il ritmo vertiginoso del progresso tecnologico, banno confuso le idee anche dei più attenti. Non bastano i cerotti di fronte a simili sconvolgimenti: è chiaro che il tanto parlare che oggi è frequente di comunità trova la sua origine nel fatto che la comunità è appunto in crisi totale, che il collasso entropico delle leggi e leggine, che lasciano esplodere la legge in minutaglie prive di senso compiuto, è il vero problema della coscienza politica oggi. Essa richiede un ritorno ad una idea organica dei problemi della comunicazione e della politica, donde il nostro richiamo a Filangieri. Dare un'idea di coerenza non significa pensare in modo autoritario, ma disegnare un quadro che è utile per orientare nella nuova legislazione e per fare intendere ad ognuno le direzioni base dell'agire. Insomma la filosofia politica della comunicazione non è ideologia per il suo non essere dogmatica, ma come l'ideologia si presta a quella che è l'esigenza fondamentale pel pensiero politico, tracciare una linea di interpretazione dei fatti che sia base per un agire politico. Ogni movimento politico secondo il suo modo, nella mediazione della vita politica.