Finalità della psicoanalisi e visione del mondo

Post date: 27-mar-2014 20.36.02

di: Fausto Petrella

Mi è occorso del tutto recentemente - nel 2000, in un clima di bilanci millenaristici - di trovarmi invitato come psicoanalista a pronunciarmi sulla finalità della psicoanalisi in un convegno che si proponeva di attivare un confronto, se non un vero dialogo (che di fatto non ci fu), tra le diverse tradizioni religiose sto­ricamente accreditate. Il raffronto mirava a precisare in particolare le differenti visioni escatologiche espresse da ciascun orientamento religioso. In un momen­to di pluralismo culturale e, per così dire, di forzata coesistenza di posizioni reli­giose diverse e tradizionalmente in opposizione, è sembrata del tutto giustifica­ta una comparazione tra le visioni escatologiche del cristianesimo, dell'ebraismo, del sufismo e del buddismo. E della psicoanalisì!

Lo psicoanalista - ci si deve chiedere - cosa ha a che vedere con temi di così vasta portata? Sicuramente non molto. Tuttavia si è anche nel giusto ritenendo in qualche misura la psicoanalisi implicata con un simile tema, se non altro da un'attesa o da una domanda implicita rivolta alla psicoanalisi da parte del mondo occidentale e da una parte della collettività. Scaturirono in quell'occasione alcu­ne mie riflessioni, che vorrei riproporre in questa sede. In questione è il posto odierno della psicoanalisi nella vita culturale. Quale è il suo rapporto con le visioni del mondo, in particolare con la visione delle religioni? Esiste oggi qual­cosa che si possa ritenere una specifica Weltanschauung psicoanalitica, un suo argomentato pensiero che assomigli a un'escatologia?

Sappiamo che Freud sostenne, nella sua famosa "lezione" 35 di Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1), che non esiste una Weltanschauung psicoanalitica diversa da quella scientifica e che neppure la scienza ha comun­que il compito di produrre visioni complessive e prospettiche sull'uomo.

La psicoanalisi ha una sua piccola tradizione nel pronunciarsi ipoteticamen­te sulle questioni prime, mentre non mi sembra abbia mai espresso idee specia­li sulle questioni ultime, in una prospettiva così ampia, come quella aperta dall'interrogarsi sul fine ultimo dell'uomo: una domanda la cui risposta possibile dovrebbe concorrere a una comprensione del significato del nostro breve pas­saggio su questa terra e che potrebbe avere persino una qualche ricaduta pre­scrittiva sui nostri comportamenti quotidiani.

Come medico e come psicoanalista sono soprattutto impegnato nella cura del dolore psichico e della sofferenza morale patologica. Forse compete al moderno curatore d'anime, allo psichiatra e allo psicoterapeuta, un'area che, quasi per definizione, è sottratta a questi temi di vasta portata. Lo psichiatra si occupa infatti di quella sofferenza morale sulla quale la fede, la credenza in Dio, il lega­me con ciò che ci trascende, o anche la religio implicita nel legame sociale posi­tivo dell'alleanza, della fraternità, della solidarietà, della reciproca compassione e tolleranza, non sono stati efficaci nel sollevare l'animo dolorante e costretto ad alienarsi per sfuggire a sentimenti negativi soverchianti. Mi riferisco a tutta quel­l'immane sofferenza che, soprattutto a partire dall'Ottocento e sino ad oggi, è stata considerata espressione di psicosi e di nevrosi, cioè di malattie psichiatriche.

Da quando è nata, vale a dire dall'inizio del Novecento, la psicoanalisi ha acquistato un peso crescente e anche un prestigio tale, da trasformarla in una sorta di religione presso molte persone: qualcosa che si sarebbe potuta sostitui­re, con vantaggi esplicativi e una sicurezza maggiore di veridicità e plausibilità, a spiegazioni e impostazioni mistico-magiche e fantasiose, come potevano appa­rire le tesi delle religioni a un animus non religioso. Magari allevato con criteri che assegnano un primato alla conoscenza scientifica del mondo, e che ricono­scono nella credenza religiosa, e nella sua prospettiva di vita eterna nell'ai di là, l'operare di un bisogno troppo umano di illusione.

Appartiene a Freud, ma anche a molte altre figure del secolo, l'aver denun­ciato il carattere illusorio delle prospettive escatologiche positive. Un simile giu­dizio negativo ha suscitato sovente delle critiche verso la psicoanalisi, anche da parte di laici. La principale critica è che così si è sottovalutata l'importanza etica, e anche psicologica e umana, dal sentimento religioso: le religioni concorrono in modo decisivo ad alimentare queir "ethos del trascendimento", che è sicuramen­te un grande valore che appartiene alle culture influenzate dal mito biblico. Fu questa, per esempio, una delle critiche alla psicoanalisi mosse da Ernesto De Martino (2).

Si è venuta d'altra parte creando, da parte laica, l'idea che una parsimonia nel lanciare credenze e nel basarsi su illusioni, potesse concorrere a creare un'etica nuova, d'impronta umanistica, che poteva crescere sulla rinuncia all'illusione e sulla consapevolezza precisa del nulla e della morte, senza la consolazione fina­le di alcun riscatto messianico.

Troviamo quest'impostazione disincantata in tanti luoghi del pensiero con­temporaneo. E' l'istanza che percorre l'idea freudiana di Thanatos, come ten­denza entropica del vivente e come radice pulsionale della distruttività umana, presente sia a livello biologico, sia a livello dei comportamenti individuali e sociali. Una presenza che è attiva non solo alla fine dell'esistenza, ma anche al suo inizio.

Un'acuta coscienza della morte, intesa come consapevolezza dell'ineluttabi­le morire, senza edulcorazioni e senza mitigazioni mistiche o consolatorie, è pre­sente diffusamente nel pensiero europeo contemporaneo. La troviamo espressa, in una versione priva dei riferimenti psicobiologici che ha in Freud, nel miste­rioso essere-per-la-morte di Heidegger, una sorta di "categoria" entro cui pensa­re l'essere nel mondo dell'uomo.

Riscontriamo la medesima consapevolezza anche in molta grande letteratura contemporanea, in espressioni tragicamente lucide e paradossali, variamente mitigate da elementi positivi d'ordine psicologico, etico, sociale, eccetera.

Faccio solo due esempi.

Isaac Bashevi Singer ha raccontato, in un suo lungo romanzo, la saga di una famiglia ebrea polacca, la famiglia Moskat (3). Il romanzo, che è stato scritto nel 1950, reca i segni profondi dell'olocausto, che influenza après coup l'intera nar­razione. Le vicissitudini dei Moskat incominciano dall'inizio del Novecento, susseguendosi per varie generazioni sino alle soglie dello sterminio, e si conclu­dono con le sconsolate parole: "II Messia è la morte". Per il personaggio che pro­nuncia questo giudizio, l'esperienza personale e storica è servita da tragica ini­ziazione a questa consapevolezza.

In tutt'altro contesto, uno scrittore, che mi sembra del tutto estraneo alla vita religiosa, come il nostro C. E. Gadda, intervistato nel 1931 sulle sue "tendenze" letterarie, rispondeva con le poche pagine intitolate "Tendo al mio fine", pre­messe al Castello di Udine (1933) (4). Giocando sull'equivoco la tendenza-il fine-la fine, esse ancora propongono come risposta la morte, la propria morte, senza alcun riscatto che non sia quello di esibire nella scrittura la consapevolez­za della propria caducità, unita a un'ironica pietas autocommiserante per la con­dizione delle cose umane.

Ma, ripeto, la psicoanalisi freudiana e quella derivata dall'elaborazione fatta­ne da innumerevoli e anche grandissimi autori, che ne hanno sviluppato la pra­tica e la teoria, non si è mai pronunciata sui fini dell'uomo. Quando si è espres­sa sui propri fini, lo ha fatto di solito in termini assai limitati e sobri. La sua esca­tologia - se così si può dire - ha un orizzonte volutamente molto limitato, e si presenta come una prospettiva nel breve andare. Proprio perché nel lavoro clinico ci si avventura su un terreno psichico e personale, esiste una specifica atten­zione a non fornire alla cura un orizzonte troppo prefigurato e ideologico, nel bene o nel male, promettendo ora la felicità, ora l'iniziazione al riconoscimento di un'infelicità supposta insuperabile della condizione umana.

In fondo la psicoanalisi si occupa di sofferenze speciali e aggiuntive, che nascono dalla conflittualità della vita psichica e dagli effetti negativi di espe­rienze svantaggiose o traumatiche, spesso precoci o in ogni caso non padroneggiabili e soverchianti. Esse sono di sovente associate ad orientamenti bio-psi­chici sfavorevoli, che operano entro contesti microsociali essi stessi sfavorevoli e inadatti a permettere uno sviluppo personale sufficientemente buono e soddi­sfacente. Si tratta dunque di sofferenze aggiuntive, che vengono a torto facil­mente confuse con quello che Freud chiamava "la comune infelicità" dell'esi­stenza. La cura analitica cerca di conoscere e far rielaborare al soggetto questi momenti di specifica impasse attraverso un'impresa di risanamento e rinnovamento personale. Questo rinnovamento e risanamento sono l'essenza della limi­tata finalità prospettica della cura analitica. Occorre tuttavia riconoscere che si tratta comunque di un compito ambizioso e di vasta portata, nonostante la dichiarata necessità di sospendere ogni ambizione terapeutica per ben curare. Ogni ideale di risanamento radicale urta contro difficoltà d'ogni tipo, e la ten­sione ideale d'ogni cura s'imbatte in limiti ed ostacoli che sorgono ovunque, den­tro e fuori del soggetto. Ogni discorso sul malessere umano dovrebbe includere un riferimento relativizzante al contesto, all'orizzonte non soggettivo ma cultu­rale, che condiziona l'orientamento dei valori e il quadro dei possibili vissuti positivi e negativi del singolo e del gruppo umano.

Credo a questo punto di dover dire brevemente qualcosa sul metodo e gli strumenti adottati dall'impresa psicoanalitica.

Del suo metodo sappiamo che esso è legato al dialogo, alla difficile apertura di una persona ad un'altra, alla costruzione di un'esperienza e di una visione entro la quale il proprio sentire doloroso ed enigmatico possano trovare un'ac­coglienza da parte del terapeuta e una mitigazione, che scaturisca nel soggetto della cura possibilmente da un'accresciuta conoscenza di sé e da uno sviluppo personale maturato entro lo scambio interumano. Non si tratta quindi soltanto di far funzionare una macchina inceppata, ma di permettere un consapevole rinno­vamento di sé.

Terapia, reciprocità del dialogo, conoscenza di sé, costruzione personale diventano termini essenziali di questa procedura, in accordo con le sue finalità terapeutiche.

I fondamenti della pratica analitica trovano nell'opera freudiana l'esposizio­ne e la premessa teorica e clinica, il libro di fondazione sempre riletto e svilup­pato in tante nuove direzioni, ma non ancora veramente superato. Il grande rin­novamento della psicoanalisi e le scoperte successivamente compiute non hanno mai condotto a rinnegare l'opera del fondatore, ma anzi hanno consentito lettu­re sempre nuove e interpretazioni inedite del suo pensiero.

La psicoanalisi sta oggi dinnanzi a noi come un monumento eterogeneo, che trae la sua forza non solo dalle novità che ha introdotto, ma dalla plurivocità ed eterogeneità dei suoi modelli, dalla loro capacità di aderire alle direzioni pluri­me dello psichico. Su tutto questo si è generata una discussione appassionata e costante per tutto il secolo e che ancora continua.

Vorrei brevemente accennare al conflitto che si può creare tra modelli psi­coanalitici e tra modi diversi di concepirne la funzione, evocando due delle metafore esemplari, molto note e molto diverse tra loro, tra i tanti modelli che sono stati via via proposti. Entrambi i modelli sono presenti in Freud ed entram­bi sono stati criticati da più parti e dagli stessi psicoanalisti: mi riferisco al cosid­detto modello idraulico della mente e al modello archeologico, che troviamo in azione sin dall'inizio della psicoanalisi. Rappresentazione idraulica della mente e rappresentazione archeologica del lavoro analitico sono due metafore illustri e ricorrenti, con le quali la psicoanalisi ha cercato di rappresentarsi il funziona­mento mentale e il lavoro analitico.

Non condivido la tesi di chi afferma che Freud si muoveva essenzialmente nel quadro di una concezione idraulica della mente, il che ovviamente testimo­nierebbe di una visione solo naturalistica e molto limitata dello psichico.

Ma non mi sembra neppure accettabile sostenere che la concezione freudia­na corrisponde a una sorta di archeologia superata e che è alla ricerca essenzial­mente di oggetti morti e sepolti, appartenuti al passato più remoto del soggetto.

La concezione idraulica sembra "vilmente meccanica", se così si può dire manzonianamente. Sarebbe effettivamente grave se quella idraulica fosse l'uni­ca metafora che Freud e la psicoanalisi hanno proposto.

La seconda invece, quella archeologica, sa di vecchio e sembra lontana da quanto accade nella clinica, con i suoi continui e vivaci scambi emotivi. Anche qui, se il riferimento archeologico fosse l'unico e fosse da prendere alla lettera, verrebbe voglia di esclamare: "Via, dunque, restauratori prezzolati di vecchie croste! Via, archeologhi affetti di necrofilia cronica! Via, critici, compiacenti lenoni! Via, accademie gottose, professori ubriaconi e ignoranti! Via!". Queste proposizioni accese, che mi è piaciuto ricordare, sono coeve all'affermazione ini­ziale della psicoanalisi. // Manifesto dei Pittori Futuristi, dove esse furono lan­ciate, risale infatti al 1910.

Un'analisi che si riducesse ad archeologia stravolgerebbe e tradirebbe l'hic et nunc del vivo presente e soprattutto ribadirebbe un'idea reificata dello psichico, limitando il lavoro analitico a un assemblaggio ricostruttivo di ciò che si preten­de sia stato nel passato.

Tuttavia è innegabile che i modelli idraulico e archeologico si compensino l'uno con l'altro, e in parte si elidano a vicenda. Ma soprattutto hanno funzioni diverse.

Il riferimento idraulico-energetico è indispensabile per parlare della ripeti­zione, dell'insistenza dei bisogni e della pressione di pulsioni e desideri, delle piene degli affetti, ad esempio.

Gli aspetti archeologici mostrano invece il ruolo del passato, della storia per­sonale, l'incidenza del desiderio infantile sepolto dalla rimozione o di ciò che ne resta dopo scissioni catastrofiche. Vi sono pazienti che resistono all'analisi gio­cando all'intellettualizzazione archeologica dell'esperienza analitica; ma vi sono anche persone, come una certa mia paziente, che pretenderebbe sempre di fare con me quel gioco infantile a due che faceva con la mamma da piccola: dipana­re la matassa di lana in gomitolo per tutta la seduta. Momento felice del loro rap­porto, ma anche emblema della sua volontà di immobilità, della sua paura di guardare in altre direzioni più problematiche e meno accessibili. Il filo non dove­va mai servire a fare una trama, un tessuto e quindi un disegno o un abito. E ciò in funzione di angosce presenti e, ovviamente, passate.

In realtà la vituperata metafora archeologica svolge in Freud un'estesissima serie di funzioni. Da un lato, è addirittura rivolta alla paleontologia, alla preisto­ria del soggetto e dell'umanità; dall'altro alla sua età storica, e tuttavia non imme­diatamente accessibile e decifrabile. L'archeologia freudiana salda il presente al passato, ma non è un caso che il massimo sviluppo del riferimento archeologi­co, vale a dire lo scritto sul romanzo Gradiva di Jensen, sia in Freud narrativo e inventivo. Il romanzo archeologico Gradiva ci mette in contatto con un'archeo­logia romanzesca, un archeologo delirante, una Storia che non può non essere anche romanzo: un romanzo storico, aperto sul desiderio del soggetto e quindi rivolto sì al passato, ma nel presente e verso il futuro. Gradiva è il momento euforico della massima attualizzazione dell'archeologia immaginaria: la città sepolta in ciascuno, la nostra Pompei personale, può rivivere, ma proprio per questo non si tratta più di archeologia, che non interessa nessuno, perché tutto il passato rivive ora nel presente, in un'animazione sorgiva e relazionale. Le pietre finalmente parlano di un passato che aspira a risolversi nel presente e nel futu­ro, in uno slancio che supera d'un balzo ogni morta archeologia: l'archeologia è divenuta vivente. Il passato che la psicoanalisi considera, interessa in funzione del presente e ogni ricostruzione non assolve solo l'esigenza di un'istanza cono­scitiva. Occorre far rivivere i morti, dialogare con essi per poter andare oltre nella realizzazione di sé e delle proprie finalità personali.

Parecchi anni fa, tentai di dare una forma mitico - narrativa alle finalità della cura psicoanalitica (5), enunciando una serie di narrazioni possibili, da intende­re come canovacci formali del "genere" psicoanalitico, capaci di produrre molte variazioni e sviluppi. Il bambino e il nevrotico chiedono alla psicoanalisi la solu­zione di una serie di enigmi apparentemente insolubili. Compito dell'analista-Sfinge è di fare enunciare questi enigmi, mentre è compito dell'analista-tera­peuta consentire e promuovere nuove articolazioni del mito, agevolandone le varianti più favorevoli. Da queste soluzioni dipende l'attuazione del mito eroico nella quotidianità di ciascuno, dalla quale dipende anche il superamento della nevrosi.

Se si vogliono enunciare questi enigmi, essi si potrebbero formulare così:

• come possiamo essere il padre, o come superarlo, ma senza distruggerlo, dato che abbiamo bisogno della sua guida e protezione;

• come impossessarci del suo potere, aggirando la sua ira e il suo amore per il possesso del proprio potere;

• come ottenere la conquista e il dominio della madre, come generare bambini con lei. Essa rifiuta il bambino e lo minaccia di privazioni intollerabili (per esempio alimentari), mentre il rivale deve essere superato nella sua strapoten­za, ma deve anche fornirla;

• come separare i genitori, allorché si nutrono reciprocamente o si danno piace­ re e come inserirsi nel gioco terribile della coppia.

Questi enigmi non formulati, e altri ancora, mettono in gioco la nascita, la genealogia, l'identità, la generazione, la stabilità del mondo oggettuale, la vita e la morte. Essi sono frammenti della mitologia personale di ciascuno. Ricomposti e in qualche modo risolti dall'esistenza stessa, ciò che ne discende è la "comu­ne infelicità", prima ancora delle nevrosi e delle psicosi sintomatiche.

I quadri morbosi di cui ci occupiamo come psicoanalisti rappresentano altret­tante modalità d'impegno o di fuga rispetto a questi interrogativi, di rifiuto a rispondere, oppure tentativi più o meno riusciti di soluzione. Freud non da indi­cazioni sul soggetto riuscito e normale: ci dice che le scelte umane oscilleranno sempre tra i due poli dell'appoggio e del narcisismo, che per molti la vita tra­scorrerà nel tentativo di medicarsi l'antica ferita, quando essa non si rinnoverà in continuazione.

La ripetizione e il risorgere della mitologia infantile nell'adulto e nell'anali­si ha la possibilità di non evolvere in tragedia e di non infrangersi nelle secche del "romanzo familiare", dove tutto trova delle forme immaginarie di aggiusta­mento. La realtà emotiva del sentire infantile deve essere consapevolmente assunta dall'adulto, al di là di invidie e di sentimenti che promanano da oggetti o idealizzati o persecutori, deformati dalla prospettiva impotente del bambino. L'analisi non consisterà allora solo nell'alternarsi inesausto delle figure del Desiderio, della Morte e della Legge, ma consentirà all'Io di prendere posizione verso di esse. È forse questa la speranza del progetto freudiano di avvento dell'Io nel posto dell'Es; è questa speranza che si presenta come compito della cura psi­coanalitica e che giustifica il rischio della follia e l'astuzia delle sue ragioni terapeutiche.

Per tutti questi motivi l'enunciazione dell'enigma, la messa in forma del mito sono ritenute essenziali in psicoanalisi, tanto quanto la pacificazione del conflit­to, lo scioglimento delle avversità, il ridimensionamento della violenza, il supe­ramento della colpa.

Nel corso dello sviluppo psicoanalitico ha preso consistenza un nuovo aspet­to fondamentale, che da origine a narrazioni nuove o a un'enfasi rinnovata su certi aspetti, in origine poco valorizzati, di quella che Wittgenstein chiamava la potente mitologia psicoanalitica. Si tratta del tema del Sé, della sua coesione e autonomia, che in qualche misura deve essere acquisita, e senza la quale l'effi­cacia della cura analitica può essere in tutto o in parte compromessa.

E1 indiscutibile, a mio modo di vedere, che la stabilità e l'autonomia relativa di sé, del Sé, siano divenute mete fondamentali del lavoro clinico, compiti della cura ai quali va data la massima attenzione. Qualcosa che a pieno diritto deve far parte delle finalità della terapia. Essa deve adeguare a queste esigenze la sua tec­nica e le sue aspettative, come hanno sostenuto Kohut e tanti altri. E tuttavia penso che tali trasformazioni siano da considerare come necessarie, ma non suf­ficienti ad assicurare il buon esito del lavoro analitico. Sono forse insomma sol­tanto le sue indispensabili premesse.

L'analisi dovrebbe spingersi anche oltre, né dovrebbe dissociare disinvolta­mente le narrazioni della costruzione del Sé da quelle che ho sopra indicate, e che sono preedipiche ed edipiche. A ben guardare i problemi delle due serie si intrecciano ed è una questione tattica o tecnica, e certamente anche teorica, ma soprattutto di convenienza, graduare il gioco delle priorità a livello clinico.

Bisogna non perdere di vista che la psicoanalisi ha anche preteso di rispon­dere alla Sfinge e di sconfiggerla. È questa anche una sua irrinunciabile finalità, che conferisce alla cura una sua specifica tensione. Si tratta di una tensione caratteristica della psicoanalisi, che non è presente in altre forme di cura, e che può non essere fatta valere in un certo numero di casi anche nelle cure analiti­che. Ciò non significa che non sia un pensiero importante, una finalizzazione irrinunciabile.

Cambiare strada, evitare l'appuntamento con la Sfinge e riuscire a pacificare altrimenti gli dei, può apparire ed è di fatto oggi in molti casi una strategia tera­peutica sufficiente. La nevrosi e il mito interrogano l'uomo, ma non è detto che egli sia in grado di accettare la sfida difficile della risposta, il tragico radicalismo della domanda, che tuttavia lo psicoanalista deve essere disposto ad ascoltare e fronteggiare.

La psicoanalisi è divenuta uno dei grandi miti culturali del Novecento. Come mito, essa può facilmente essere demitizzata. Del resto, anche il mito scientista della "scienza buona per il fatto stesso di presentarsi come scienza" può essere smontato con facilità e con evidenze che sono facilmente accessibili, perché ci stanno davanti agli occhi.

Tuttavia, se il mito è qualcosa che accompagna l'uomo come un'ombra ine­vitabile della luce della conoscenza, la psicoanalisi è destinata ad accompagnar­lo a lungo con la sua cura, con la sua attenzione critica al rapporto che l'uomo intrattiene con le sue fantasie, con le rappresentazioni di sé e del mondo, con la sua sofferenza e il suo piacere, con le infinite narrazioni che si sviluppano da tutto questo.

Note:

1) Una "visione del mondo" in Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezio­ni) QSF, voi. 11, pag. 262.

2) De Martino E. (1958), Morte e pianto rituale nel mondo antico, Ed. Scientifiche Einaudi, Torino.

3) Singer I.B. (1950), La famiglia Moskat, Longanesi, Milano 1967.

4) Gadda C.E. (1931) "Tendo al mio fine" in // castello di Udine, Einaudi, Torino

1973.

5) F. Petrella, Rapporti fra le finalità della cura e la tecnica nella psicoanalisi. Gli Argomenti, 1, 25-36, 1979.