Post date: 18-ott-2011 19.46.48
Intervista a Corrado Piancastelli
a cura di Ciro Conte
Sta per uscire per i tipi della casa editrice Bietti di Brescia un tuo libro dal titolo “I valori forti della laicità”, nel quale oltre ad una serrata critica al cattolicesimo, proponi anche un’alternativa laica della religiosità che consisterebbe in un nuovo umanesimo della ragione e della libertà matura. Due proprietà intrinsecamente umane che non sono in antitesi con la religiosità, ma solo nei confronti delle verità assolute e indimostrabili. Secondo te i tempi sono maturi per una concezione come questa, oppure abbiamo ancora bisogno di essere guidati da un potere forte rappresentato dal cattolicesimo, dall’islamismo o da una persona potente che si prenda cura di noi?
Chiesto in questo modo sono costretto a risponderti che la società contemporanea, purtroppo, sembra ancora proclive ad affidare la propria coscienza a un potere esterno, in questo o nell’altro mondo.
Questo atteggiamento sta cambiando, è vero, i giovani stanno tornando a mobilitarsi, a scendere in piazza, ma la loro identità resta debole perché a loro volta provengono da famiglie anch’esse in crisi d’identità. Ma un vero umanesimo, nei tempi moderni, non è tanto quello di porre l’uomo al centro della storia, perché le democrazie, almeno in teoria, lo fanno ogni volta che legalizzano i diritti individuali, quanto nel fatto che al centro della storia l’uomo deve esserci nel pieno della sua maturità anzitutto identitaria e poi cognitiva, spirituale, culturale e sociale. Altrimenti avremo sempre un falso umanesimo perché senza il passaggio ad una maturità e ad una identità forte, resteremo uomini virtuali e generici, personaggi senza spessore e qualità. Ti faccio un piccolo esempio: quante persone, in Italia, si identificano nella destra o nella sinistra senza sapere veramente di cosa si tratta? La maggior parte delle persone, aderiscono alle diverse ideologie in maniera istintiva e velleitaria, scambiando un partito politico per la squadra di calcio della propria città.
Pur senza approfondire il discorso, cosa intendi per identità?
Bisogna capovolgere la vecchia impostazione che identità significhi identificazione in qualcosa o qualcuno, come la cultura di appartenenza, la patria, la religione, la famiglia d’origine. Queste sarebbero identificazioni che i sociologi definirebbero identità sociale. Serve anche questa, si capisce, ma io mi riferisco all’identità personale profonda, quella che si riferisce al riconoscimento di Sé.
Tuttavia una correzione andrebbe fatta anche per l’identità sociale, chiarendo che i poteri forti che sono l’obiettivo della condivisione sociale e della relativa identificazione, in senso simbolico non sono solo quelli che concepiscono la volontà di Dio o il carisma del padrone di turno e tanto meno il potere del denaro o della forza fisica e militare. Poteri forti sono anche lo Stato di diritto, i principi della libertà e della giustizia, le Costituzioni democratiche e via dicendo. Se si sposta l’antica credenza che forte non è solo ciò che appartiene a chi è “individualmente e materialmente forte” o, come nel caso del dio delle religioni, dispone dell’uomo come suo schiavo obbediente, ci accorgiamo che esistono altri valori primari sui quali sarà opportuno fondare il futuro dei popoli.
Perché non riusciamo a sganciarci dalla sudditanza verso le ideologie che sono alla base delle dipendenze sociali, sia pubbliche che private?
Perché nonostante il progresso e la diffusione dell’informazione attraverso i mass media permane l’ignoranza generalizzata di vasti strati della popolazione. Nella sola Italia, secondo una ricerca del linguista Tullio De Mauro, il 5% della popolazione , cioè più di tre milioni di persone tra i 16 ei 65 anni, non ha la capacità di leggere e scrivere, mentre un altro 75% legge con difficoltà. E non riesce a interpretare un grafico semplice o un’icona, per loro assolutamente incomprensibili. Il 6 settembre del 2008 il Corriere della Sera pubblicò vari calcoli statistici da cui risultava che sono ignoranti oltre 20 milioni di cittadini adulti. C’è da aggiungere il fenomeno piuttosto deprimente dell’analfabetismo di ritorno, consistente nel fatto che la maggior parte di coloro che sono diplomati o laureati, una volta termitati gli studi non legge più un libro e in gran parte, neppure un giornale. Questo significa che ci formiamo opinioni, comprese quelle politiche, sulle tracce dei discorsi altrui e non abbiamo ancora raggiunto la capacità di eleborare un pensiero autonomo fondato sulla ricerca e sullo studio personale. In queste condizioni è evidente che la democrazia resta immatura e vive di principi fondanti ai quali il popolo attribuisce più un valore simbolico esterno che una coscienza partecipante e condivisa.
Per tornare alla prima domanda sulla dipendenza da un potere forte, qual’è la conclusione della tua riflessione?
La conclusione è che, purtroppo, siamo costretti a dire che abbiamo ancora bisogno di poteri forti, specie in Italia dove siamo perseguitati, da un lato dalla iattura di avere il Vaticano in casa, per cui l’italiano medio non riesce ad emanciparsi dai residui di un’appartenenza debole alla ideologia cattolica in cui è nato e si è formato e dall’altra da una classe politica che stenta ad avere una coscienza pubblica. Di conseguenza, in assenza di un popolo avente le caratteristiche dell’identità personale forte, siamo costretti a servirci di ciò che ci viene presentato: la volontà della Chiesa da una parte e la classe politica debole e compromessa. In queste condizioni il cattolicesimo – da distinguersi nettamente dal cristianesimo – purtroppo resta un referente psicologico e rassicurante perché le persone non riescono a crescere e ad emanciparsi dagli uomini della provvidenza, si chiamino Mussolini, Berlusconi o Ratzinger. Senza costoro e altri che potrei citare, sembra che l’italiano non riesca a sopravvivere, che senza padri putativi ci si senta orfani cronici. Non riusciamo, cioè, a concepirci all’interno di processi e di sintesi culturali, come il diritto, la democrazia, la costituzionalità dello Stato, ma si abbia bisogno dell’uomo in carne ossa che ci faccia da padre. E che vesta una camicia nera, oppure ostenti ricchezza oppure ci benedica in un abito bianco, o abbia una divisa solenne, è la stessa cosa: abbiamo ancora bisogno di icone, senza le quali ci smarriamo. E non mi sembra un fatto positivo perché la democrazia, in queste condizioni, esprime una libertà condizionata in assenza di una libertà matura delle coscienze individuali.
Si potrebbe dedurre che il compito di sviluppare un’etica civile spetti allo Stato laico?Molti lo escludono. Lo Stato, dicono, deve fare buone leggi mentre l’etica è un prblema delle religioni. Insomma la solita vecchia divisione dei ruoli sanciti in tutti gli accordi concordatari...
Secondo la Chiesa lo Stato non produce etica ma solo leggi, dal momento che l’etica è qualcosa che ha a che fare con il divino.Ma dice anche qualcosa di più. Lo Stato non produce etica ma deve conformarsi all’etica della Chiesa, nel presupposto che essa incarni la verità e parli quale vice di Dio in terra. E’ un’idea che non si può condividere in maniera assoluta. Uno Stato diventa un forte produttore di etica ogni volta che realizza la giustizia e produce sapienzialità, ordine, pace, giustizia e politica dei diritti individuali. C’è etica forte ogni volta che si sviluppa un efficace welfare sociale, quando mostra i comportamenti virtuosi della sua classe dirigente e politica, quando risolve i problemi dei cittadini, premia i giusti, crea una scuola modello per tutti, protegge le famiglie e i giovani, garantisce il lavoro e la sicurezza delle città e della vita. Ed è etico il principio stesso della democrazia, la libertà di stampa e di opinione. E che in tutto questo non ci sia una circolarità religiosamente intesa - nel senso che ciascuno ha il diritto di essere solo se stesso in modo responsabile e non un servo ideologico di qualcuno - non determina lo stesso valore forte dei doveri come nella regola aurea di Confucio utilizzata anche da Gesù, “fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”
E che fece propria anche il Kant dell’imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua azione possa diventare legge universale”, che non è propio la stessa cosa ma vi si ispira.
Proprio così. Tra l’altro questa che ho appena descritto succintamente sarebbe un’etica di fatti, non un’etica retorica fatta di belle parole. E’ questa la religiosità laica che io penso. L’etica è, ad esempio, nella realizzazione di scuole libere ed efficienti, di ospedali attrezzati, di una ricerca scientifica avanzata, di una dignitosa assistenza ai bisognosi. La scuola in particolare diventa il motore dell’etica quando insegna, oltre i saperi, la buona dialettica civile, le virtù come la lealtà, l’onestà, l’altruismo, il valore della pace e dell’amicizia, sopperendo in tal modo alle frequentissime carenze formative della famiglia.
Come si fa a dire che solo le religioni producono etica? E’ chiaro che simili opinioni sono prodotte da chi è interessato a conservare l’egemonia e il controllo sulle persone, facendo calare dall’alto principi morali attribuiti maliziosamente alla volontà di Dio e quindi dichiarati assoluti e irrinunciabili. Anzi la Chiesa ammonisce, in modo francamente sovversivo, che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. “Il cittadino, recita l’art.. 2256 del Catechismo cattolico, è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti si oppongono alle esigenze dell’ordine morale”. Laddove per morale, ovviamente, s’intende quella stabilita dalla Chiesa, non dalla cultura laica.
Questa oscillazione tra libertà ormai definitivamente sancita e gli obblighi cosidedetti morali e formali di tipo religioso, fanno supporre, però, che siamo ben lontani da quella emancipazione che si prefigurava Kant e l’intero arco dell’illuminismo.
In effetti è così. La democrazia costituzionalmente ha sancito principi inalienabili dai quali non si può retrocedere più, come la libertà individuale, i governi democratici, la libertà sociale e pubblica di professare le prorie idee senza andare in galera come accadeva prima. Ma il tempo trascorso dall’illuminismo a oggi, cioè dalla nascita della società industriale e dalla rivoluzione francese, è ancora breve. La società ha finalmente scelto la democrazia, ma non ha curato lo sviluppo individuale e il cambiamento dei cittadini, lasciando questo processo ai tempi naturali della Storia.
Forse è più giusto che il cambiamento sia prodotto dalla volontà dei cittadini e non imposto dall’alto.
Certamente deve essere così, ma io penso che si può accelerarlo intervenendo massicciamente sulla scuola e riorganizzando il concetto di famiglia perché è in questi due presidi che si svolge la trama del cambiamento e della crescita, matura e non occasionale, delle varie generazioni. La famiglia trasmette al bambino il primo fondamentale imprinting, poi rimodellato per quanto possibile dalla scuola. Per tutto il resto della vita, come insegna la psicologia, non facciamo altro che correggere l’imprinting iniziale di cui restiamo schiavi quasi fino alla morte.
Cosa occorre per diventare cittadini maturi? Non c’è persona che non si ritenga matura e capace, accusando sempre gli altri che, a dir loro, non capiscono niente.
Nel ragionare non basta affermare. Chi afferma deve poter dimostrare ciò che dice, altrimenti è meglio che taccia. Del resto basta rileggersi Kant il quale ci dice che la maturità è l’uscita dall’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un'altra persona. Ma aggiunge anche che l’intelletto va collaudato attraverso l’esperienza, altrimenti si esprime in un parlare teorico che non serve a nessuno. E’, come dire?, un parlare a vanvera. Questo, come si sa, fu anche l’argomento principe degli illuministi che fecero propria la fede cartesiana nella ragione. Oggi dobbiamo tornare proprio alla purezza concettuale della ragione, ma questo implica il lavoro di rafforzamento dell’identità soggettiva piuttosto che dell’identità etnico-culturale di cui parlano i sociologi e i seguaci delle religioni fondamentaliste, cioè cattolici, islamici e ebrei. La ragione, del resto, non esclude nulla, ma tende solo a razionalizzare i problemi escludendo l’inverosimile ma accettando la speranza e l’utopia. Cioè la ragione include anche i sentimenti del cuore, perché è attraverso di essi che noi ci confrontiamo con il prossimo e ci leghiamo al mondo delle persone e delle cose. Ma perché questo rapporto sia diretto e non mediato dalle dipendenze, bisogna autoriconoscersi e sapere di essere consapevolmente nel mondo come soggetto e non come cosa-oggetto.
Trovo piuttosto originale questo approccio al problema. In genere si tende a definire l’ identità come adesione e appartenenza alla storia del proprio tempo, della propria etnia e cultura. Si avrebbe una buona identità quando c’è integrazione col sistema-vita del gruppo di appartenenza di cui fa parte la stessa famiglia.
Non equivochiamo. L’identità sociale condivisa è necessaria, ci mancherebbe altro. Ma noi stiamo alludendo all’identità esistenziale, al myself. Per poter raggiungere l’emancipazione illuministica della ragione bisogna imparare a essere se stesso, cioè a possedere un Sé autonomo che non dipenda dall’appartenenza sociale, dal momento che quest’ultima è costituita dalla somma di tutti i Sé estranei al nostro. Alla fine se stiamo bene nella condivisione altrui ne siamo dipendenti e non realizziamo noi stessi. Infatti la maggior parte delle persone, pur avendo un buon equilibrio sociale e economico, sta male e si nevrotizza perché percepisce l’estraneità rispetto al come vorrebbe sentirsi e vivere. La depressione è uno dei sintomi di questa scissione tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra ciò che si fa e ciò che si vorrebbe fare. E’ un errore credere che siamo espressione del mondo, che siamo l’intero specchio della realtà esterna. Invece siamo soggetti che abitano e osservano il mondo, ma non facciamo valere la nostra soggettività perché non riusciamo a identificare questo nucleo interiore dell’Io che coincide con l’avere coscienza di sé.
La prova di questo processo, che vede il soggetto fronteggiare il mondo, è nel fatto che abbiamo colonizzato il pianeta per mezzo della nostra soggettività creatrice e culturale.
L’identità esistenziale e ceatrice diventa, quindi, la certezza intima di esser-ci, cioè di essere proprio noi e non un ”noi” formatosi sulla condivisione altrui e nella specchiatura del mondo. E questo pur riconoscendo che la vita è anche feedback con la realtà esterna, ma in questo processo a prevalere siamo sempre noi, con la nostra individualità in movimento. E’ questa la vera identità da cui dobbiamo partire per coltivare una democrazia matura e una società di diritti in cui ciascuno sia partecipe con una mente libera, anzi liberata, dall’alienazione etica stabilita da altri che impongono cosa sia il bene e il male senza consultarci. E’a causa di questa nostra intrinseca debolezza che l’alta finanza, ad esempio, ha gettato il mondo nella crisi economica che conosciamo. Certo, l’uomo ha bisogno di continui referenti esterni, come lo Stato, la scuola, il diritto, la politica, la società, il lavoro, la famiglia. Ma vissuti come fattori comprimari, non come sostituti della propria identità di fondo. Questo poteva accadere una volta, quando agli uomini era finanche vietato di leggere la Bibbia, ma oggi che comunque la democrazia è un evento compiuto e irreversibile, si deve conciliare l’ identità culturale di appartenenza, con l’ identità esistenziale. I due processi vanno integrati con la guida della ragione e con l’assistenza del cuore. Da ciò può anche scaturire la felicità a cui oscuramente aspiriamo un po’ tutti anche se la decliniamo in vari modi soggettivi.
Nomini spesso il “cuore”. Che vuoi dire esattamente? Trovo molto aperturista questo tuo linguaggio. Hanno ragione, allora, quelli che ti definiscono un illuminista mistico, un poeta.
Il cuore è il segmento affettivo della nostra soggettività, è la zona del nostro bisogno di amore che consiste nel prendere e nel dare, se si può, in assoluta eguaglianza intensiva. Manifestare il cuore può significare anche avere la responsabilità dei doveri e non solo dei diritti. Ma significa anche avere la pietas, la tolleranza, il senso della comprensione e della giustizia, il desiderio dell’amicizia e la pazienza di saper aspettare che noi e l’Altro se ci amiamo, ci si possa reciprocamente raggiungere nel luogo misterioso dell’unione profonda. Il cuore è un sentimento di appartenenza alla collettività e bilancia la nuda ragione che ha una natura quasi ineluttabilmente matematica e geometrica.
La pietas non crea disquilibri e ingiustizie?
No, la pietas è il luogo mentale dell’attesa. Dell’attesa che l’Altro maturi e capisca, che si ravveda e si emendi dall’errore, che lavori per capire senza irrigidirsi nella sua mentalità precostituita. Ovviamente si deve entrare in un processo dialettico. L’Altro non va atteso nel luogo della collisione ma in una stazione di incroci dove passano, tra i tanti treni, anche quelli che ci porterebbero in paradiso se solo sapessimo intuire il binario giusto.
Credi che siamo solo materia o c’è dell'altro?
Certo che c’è dell’altro. C’è tutto il gap tra Natura e Persona. La nostra soggettività non viene dai neuroni e così pure l’identità profonda di cui parlavamo prima. C’è dell’altro ogni volta che impediamo alla Natura di prendere il sopravvento sulle nostre decisioni, ogni volta che correggiamo gli eventi naturali, ogni volta che l’atto creativo ci dimostra una sintesi concettuale sovrannaturale che nessun programma meccanico saprebbe produrre. Ma non c’è una sola ricerca in tal senso. Le neuroscienze cercano solo risposte materialmente utili e non si preoccupano della sfera interiore e vi sono filosofi che addirittura negano l’autonomia della coscienza e la fanno dipendere dal corpo e dall’ambiente. Non c’è dubbio che la coscienza sia costituita anche dal corpo, dall’ambiente e dalla memoria. E che si nutra della storia esterna al suo essere nel mondo. Ma è altrettanto vero che mentre l’esterno è discontinuo, variabile e mutevole secondo i luoghi e gli avvenimenti, quel nucleo fondante dell’identità profonda resta lo stesso per tutta la vita. Siamo coerentemente e strutturalmente noi dal primo vagito all’ultimo respiro. Noi possiamo trasferirci in qualsiasi situazione esterna, ma non perdiamo mai il senso della compiutezza singolare del nostro Io. Sappiamo di essre noi, e nessun altro, in qualunque situazione possa essere immerso il nostro Sé e in qualunque parte della terra. Questa identità è una proprietà, esclusivamente umana, che possiamo definire come ”anima”, cioè come luogo atemporale e aspaziale di ciò che consideriamo percezione del nostro esistere. Se non fosse così non potremmo essere responsabili delle nostre azioni, perché saremmo robot, per quanto intelligenti e sofisticati.
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