Per un nuovo umanesimo

Post date: 4-feb-2012 22.14.39

di: Ernesto Paolazzi

E difficile tentare una sia pure approssimativa definizione degli ultimi anni della nostra storia. Vivendoci nel mezzo, pretendiamo tutti di modificarla, e, di fatto, ognuno di noi per la sua forza e per la sua parte, vi contribuisce. Ciò significa che il giudizio che se ne da è un giudizio teso a prospettare un'azione, a far accadere qualcosa. Sempre, il giudizio sul passato, per sua natura logica, è un giudizio che modifica il passato e, quindi, il presente e il futuro, che sono generati dal passato, anzi dal giudizio che di esso diamo. Infatti, della nostra storia altro non sappiamo se non i giudizi che se ne sono dati, e che sono sem­pre giudizi «interessati», prospettici, rispetto a ciò che vogliamo e dobbiamo fare. Ma, se da un punto di vista logico, la natura del giudizio è sempre la stes­sa, psicologicamente vale la massima per cui è bene essere lontani dall'oggetto che si vuole giudicare. D'altro canto, questa massima non può e non deve costi­tuire un alibi per sottrarsi al difficile compito di giudicare il proprio tempo.

Il nostro tempo sembra caratterizzarsi per un'assenza del pensiero, una cadu­ta della tensione morale. Negli ultimi vent'anni, probabilmente per la prima volta nella storia dell'uomo, si assiste ad un cambiamento veramente epocale di mentalità. È scomparsa la civiltà contadina, la civiltà della terra che ha domina­to la millenaria storia dell'uomo. La rivoluzione industriale, avvenuta nell'Ottocento e nel Novecento, ha sconvolto, certamente, l'economia, la politi­ca, gli usi e i costumi, ma non ha sradicato il senso complessivo della vita, del mondo, la coscienza collettiva, rimasta legata alla civiltà della terra. Oggi non è più così. La generazione che era giovane (o nasceva) durante la guerra è l'ulti­ma che ha vissuto nell'era della civiltà contadina. A noi ne rimane una memoria storica, un ricordo letterario. Una profonda malinconia, una grande nostalgia percorre gli uomini, colora di un triste colore il nostro tempo.

Le fiabe dei bimbi, i racconti e i sogni infantili, sono ancora quelli della civiltà contadina: i valori, gli ambienti, il paesaggio, il clima, gli odori, i sapori, i materiali, sono quelli della terra.

Tutto ciò è finito. È un mondo al crepuscolo e l'alba non si intravede - se non attraverso una luce molto tenue. Per la prima volta l'uomo, attraverso l'e­nergia nucleare, ha il potere di distruggere, con un atto di volontà, l'umanità intera. La fine del mondo non è più un evento da attribuirsi a un Dio o al cieco e meccanico caso, alla Natura. L'umanità intera può suicidarsi, come fosse un unico individuo tragicamente disperato.

L'uomo ha tentato, attraverso l'ecologia e la difesa sistematica e politica del­l'ambiente, della terra, di far rivivere, in uno strenuo e ingenuo tentativo, i valo­ri perduti, la civiltà dimenticata. Un sogno romantico, svilito dalla mancanza di un Etos chiaro e preciso, confuso dalla mescolanza di criteri politici ed econo­mici, fatui desideri e sorpassate speranze. Ma l'ecologia non è sfuggita al desti­no dell'epoca. È diventata moda, spettacolarità, immagine senza sostanza. Ha difeso se stessa sposando criteri e valori ai quali si opponeva. Ha voluto presen­tarsi come utilità, come buon senso, come elemento del progresso. Ha scelto, per battersi, le armi dell'avversario, proponendosi come mezzo fra i mezzi del progresso tecnologico, come il mezzo capace di favorire il progresso e ciò che al progresso si oppone. Da difesa di una civiltà al tramonto, si è proposta come tecnica di governo del cambiamento, ponendosi da sola in soffitta come stru­mento non adeguato alla ricerca dell'utile collettivo, perché troppo ingenuo.

Le grandi ideologie dell'Ottocento sono state demolite con una serrata critica del fondamento stesso delle ideologie. Liberalismo e socialismo non rispondo­no più alle esigenze del mondo moderno. Essi si sono svelati per essere delle fedi, delle nobili credenze fondate sul presupposto che la natura umana e la sto­ria sono suscettibili di miglioramento continuo, di progresso verso la civiltà. Le fedi religiose propriamente dette si sono ritirate nelle coscienze di pochi corag­giosi credenti, mentre un sempre decrescente numero di individui le pratica come abitudine svogliata.

Il mito della tecnica, come già era in parte accaduto nell'età del positivismo, si è spento nell'uso banale, da parte dell'uomo vuoto, della tecnologia come mero strumento di divertimento e di comodità. La scienza non è più la conqui­sta della ragione umana, ma una cosa che è là, di cui ci si può servire.

Anche sul piano politico sembra che questa forma di inconsapevole scettici­smo generalizzato pervada i partiti, le classi dirigenti, gli Stati. La lotta ideale fra Est ed Ovest sembra essersi ridotta a mero gioco di potenze economiche e politiche, così come il rapporto fra il Sud e il Nord del mondo, i paesi ricchi e i paesi poveri, ha perso ogni carattere di eticità. Nei paesi ricchi sono sempre meno coloro che ritengono necessario coadiuvare lo sviluppo dei paesi poveri e, in questi ultimi, la forza redentrice della libertà sembra essere diventata un mero paravento per giustificare colpi di mano militari ed economici e per garantire turpi oligarchie.

Se questa è la sommaria idea che si ha del mondo contemporaneo, nelle sue grandi strutture, un'idea analoga viene percepita dalla coscienza intellettuale nello sviluppo della cultura mondiale. Alcune scienze, nuove ed importantissi­me ma troppo frettolosamente pervenute al successo come la sociologia e la psicoanalisi, dopo aver seminato confusione introducendosi, di soppiatto o pre­potentemente, nella filosofia, nella storia dell'arte, sono oggi le scienze dei roto­calchi, la cultura estiva della nuova borghesia metropolitana, il passatempo «dotto» delle signore di mezza età. Oppure sopravvivono, come rendita di posi­zione di piccoli centri di potere accademico o editoriale, in una società delle let­tere che è ormai rigidamente divisa fra un inutile e pedante accademismo e una diffusa quanto banale industria culturale. I settori classici della cultura hanno abdicato alla loro funzione, rinunciando all'elemento proprio che li caratterizza­va come strumento di libertà e di emancipazione morale, mentre la filosofia,

l'arte e la storiografia hanno rinunciato ad essere se stesse.

Le scuole di pensiero, i movimenti culturali omogenei, si sono disselli, e sono spariti perfino gli ismi che hanno caratterizzato l'Ottocento e, soprattutto, il Novecento. La filosofia non ha più preso posizione, si è dialogato senza che nessuno portasse, nel dialogo, il proprio pensiero originale. Si è preferito porre i problemi anziché tentarne la soluzione, fino a che si è compreso che un tale problemismo era un problemismo sterile, un mero esercizio ludico della ragio­ne.

La produzione culturale e scientifica nell'ultimo cinquantennio è stata irrile­vante, se non addirittura inesistente. Studiosi di diversa formazione (1) concor­dano nel valutare non creativa la nostra epoca. Sembra che, dopo Husserl, Bergson, Croce, Heidegger e Dewey, il sapere sia cresciuto quindi solo quanti­tativamente, e forse addirittura a discapito della qualità. Varie formule felici si sono coniate per classificare e cercare di abbracciare, in un ultimo tentativo di ordinamento della realtà, il senso dei nostri tempi; si è parlato di condizione post-moderna (2) per specificare l'intera condizione dell'uomo contemporaneo, e di pensiero debole (3), per indicare la via antimetafisica, antidefinitoria, seco­larizzante, la via obbligata che ha imboccato la filosofia. Ma anche queste for­mule non hanno retto perché contraddittorie in sé, in quanto ciò che intendeva­no sostenere sul piano del contenuto, veniva negato dal metodo stesso della for­mulazione: un pensiero debole non si può autodefinire come tale senza diventa­re immediatamente pensiero forte. Il post-moderno non può specificarsi come una definizione di una condizione, sia pure critica, dell'autoaffermazione della tecnica come mera utilità.

Non che, come banalmente si può credere, si debba addebitare all'improvvi­sa e repentina scomparsa dell'intelligenza critica e dell'impegno etico, la responsabilità della condizione attuale. Al contrario: l'esercizio critico si è scal­trito; gli strumenti per operare sono infinitamente migliori. Sembra che le posi­zioni assunte dagli studiosi siano più l'effetto che non la causa dell'epoca. Chi scrive, compone, si interroga, sente di non potersi spingere oltre un certo limite. Avverte l'inconsistenza di se stesso e del mondo, vive ed esprime una condizio­ne più che una posizione. È un uomo nel mondo (non posto di fronte al mondo) della mera utilità, sente di vivere nella condizione dell'estraneità assoluta, teme il riso e l'ironia ancor più della polemica e forse della persecuzione.

Il mondo della scienza come mera utilità produce solo miti interni al suo stesso sistema, non sopporta miti esterni al suo meccanismo.

Lo stesso clamore, suscitato alcuni anni fa dalla cosiddetta società dell'informazione, dall'enorme progresso della tecnologia informatica e delle comunica­zioni, trovava la sua ragion d'essere più nello spavento dell'uomo di origine contadina di fronte alle luminarie del progresso, che non nella realtà stessa delle cose. Il contadino giunto a Parigi o il piccolo pescatore approdato a Napoli, s'innamora e si spaventa della grande città; l'esalta e l'addita sarcasticamente come esempio di progresso ai suoi compaesani, oppure la indica come il diavo­lo, la quintessenza del male che distrugge i valori della bella e antica tradizione. Così gli intellettuali hanno accolto il progresso dell'informazione. A ben vedere, non è successo nulla e la società dell'informazione non è stata altro che la sovrastruttura tecnica della società della sterilità intellettuale e morale. Ora che anche i bimbi giocano con i computers, l'intellettuale ha smesso di dialogare con la cibernetica.

Qualcosa, dunque, sfugge all'interpretazione del destino storico in cui tutti ci muoviamo. Negli anni recenti e mai, forse, come oggi, l'arte sembra essersi riti­rata dal mondo, dal mondo pubblico, se non dalle coscienze degli individui. Una sorta di pudore nel mostrare l'intimo di se stessi e della natura, domina l'at­teggiamento dell'uomo contemporaneo. Più l'arte si è industrializzata e diffusa, e più si è allontanata dagli uomini; più ha mostrato tutte le sue nudità, propo­nendosi programmaticamente di essere liberatrice, più si è resa servile e conformista; più ha scelto di mostrare i risvolti reconditi della coscienza, dell'a­nima, più è arretrata verso la mera esteriorità; più ha deciso di proporsi come denuncia e scandalo, e più si è mostrata strumento di Potere.

Il nostro tempo ha sventolato la bandiera della sincerità come vessillo della nuova libertà. Lo smascheramento della coscienza attraverso pratiche mistico-scientifiche inventate dalla psicanalisi. Lo smascheramento dei rapporti di forza fra le classi e i gruppi, attraverso lo studio spregiudicato dell'economia politica. Lo smascheramento dei falsi costumi morali, del perbenismo «borghese», dell'i­pocrisia farisaica dei ben pensanti.

Le avanguardie artistiche del primo Novecento e le neoavanguardie degli anni '60 irrompevano nel mondo dell'arte per fare scandalo, pour épater les bourgeois, per dissacrare ma, soprattutto, per svelare i segreti più riposti dell'a­nimo umano.

Ma un fine comune lega, a ben guardare, tutte le posizioni delle varie «scuo­le» artistiche dei movimenti letterari o delle poetiche dei singoli scrittori: la programmazione della ricerca della sincerità, la volontà di proclamare, come in un manifesto politico in alcuni casi, o come un programma scientifico in altri, la propria adesione al nuovo credo. Ogni poeta, ogni artista (o gruppo di artisti) si è sentito (o è voluto apparire) come colui il quale rompeva con l'insincerità delle forme passate, con la retorica antica, con il falso sentimentalismo dei padri. I realisti presupponevano di poter raccontare la verità dell'animo umano, delle sue azioni, così come esso è veramente, fermandosi a narrare i fatti e le cose, le situazioni e le condizioni oggettive. Il poeta moderno non ha saputo raccontare nient'altro che l'artificio. La nostra epoca è l'epoca della insincerità assoluta, nella musica come nella pittura, nella letteratura come nella filosofia. La tecnica e la filologia sono sembrati essere l'ultimo rimedio, l'ultimo ancorag­gio alla realtà, alla sincerità. Una sincerità aggettiva, che si proclamava così da sola (ma senza naturalmente proclamare nulla) liberando il piccolo uomo contemporaneo dalla responsabilità di pronunciare una verità, artistica o filosofica, che essa sia. D'altro canto, non possono sfuggire gli elementi positivi che carat­terizzano il nostro tempo: il benessere materiale, che è forse un benessere «poco nobile» ma che non ha mai radicalmente danneggiato nessuno; l'effettiva crescita della libertà politica nei paesi occidentali; la reale e consistente parteci­pazione democratica degli uomini e delle donne (delle masse, si diceva una volta) alla vita pubblica, come a dire, alla reale democrazia liberale. Nessuno vorrà essere tanto pedante dall'inorridire di fronte al progresso, novello Leopardi, cedendo al mito intellettuale, al quale nessun uomo che appartiene al «mondo delle lettere», purtroppo, sfugge. Il pessimismo dell'intellettuale, di cui noi stessi abbiamo dato prove poc'anzi, fa parte dei rischi del mestiere, a meno che non diventi strumento di critica reale, e quindi di effettiva spinta verso un progresso che sia anche progresso morale e civile.

Nel mondo della mera utilità, l'uomo di cultura si sente privato del pubblico. La sua preoccupazione, il suo dolore, sembrano cadere nel vuoto dell'indiffe­renza ed egli, senza confessarlo nemmeno a se stesso, si scopre ad augurarsi che la propria infelicità si estenda a tutti. Che tutti possano condividere la soli­tudine dell'animo nobile di fronte all'ignaro e stupido mondo. Accade che i soli-tari disperati diventano moltitudine, che il profeta di sventure assurga a mito, quasi a divo. E l'intellettuale che ha fatto fortuna, che ha finalmente conquistato il mondo, si accorge che è una falsa fortuna, una falsa conquista. I suoi seguaci, divenuti fans, mortificando se stessi e gli altri, abbassano a mera moda la dispe­razione della condizione umana. È difficile incontrare uomini più superbi e appagati dei sistematici sostenitori del mal di vivere. Il Pessimismo elevato a metodo prima, a sistema poi, infine a stile di vita, è fra gli atteggiamenti più consueti e irritanti dei nostri tempi.

Tutto ciò non può far dimenticare la reale condizione dell'umanità, per tanti aspetti migliore di quella di altre epoche, per quanto ne possiamo sapere. L'uomo antico non è stato, né materialmente, né moralmente, in condizioni migliori. L'uomo contemporaneo, nonostante tutto, rimane l'uomo più libero che la storia abbia conosciuto. Ogni esemplificazione è veramente superflua.

Se il filosofo, l'uomo di cultura, non vuole abdicare al suo ruolo, se, husserlianamente, vuoi essere un funzionario dell'umanità, deve poter indicare una strada e, possibilmente, percorrerla in quanto uomo della prassi, dell'azione, dell'impegno etico-politico.

Se nella nostra civiltà del benessere si scopre che non tutto è benessere, se si avverte la consunzione del valore in quanto valore, ci si deve misurare con la realtà che si descrive o si percepisce. Non vi è opposizione logica fra le «due culture», quella umanistica e quella scientifica. Razionalità e irrazionalità appartengono al mondo della realtà, al mondo dell'uomo. Un nuovo umanismo è possibile se si attua sul terreno dell'impegno etico-politico, che risolve, nel concreto operare, le apparenti contraddizioni fra mondo della mera utilità e mondo dei valori classici, della morale, dell'arte, della cultura.

Un ritorno allo studio dell'arte, all'estetica, è senz'altro il banco di prova della possibilità di tornare a dialogare sui valori e con i valori. Nell'arte, kantia­namente, si esprime il valore nella sua più intima capacità espressiva, nel suo essere disinteressato ma utilmente operante nelle vicende umane.

L'opposizione, anch'essa falsa, fra utilità e moralità, si risolve, in questo senso, nell'arte, in quanto atto morale e utile, pur non essendo, di per se stesso, né eti­cità né utilità.

L'arte non può redimere il mondo, così come non può redimerlo la filosofia, né la scienza. In questo senso sia Heidegger, sia Hegel che Corate, rappresenta­no posizioni unilaterali. Nell'ambito della volontà si risolve, e mai in maniera definitiva, la contraddizione della nostra epoca, come di tutte le epoche. L'estetica può essere utile, perché si occupa di ciò che non è immediatamente utile, ma non si oppone a ciò che utile è e deve essere.

Note:

1) A questo riguardo, fra i vari scritti, è utile confrontare, di A. ASOR ROSA il sag­gio Dopo il 1968: la fortuna della politica, leggibile in AA.VV., Storia d'Italia, Torino, 1975, voi. IV, tomo II e, di R. RORTY, Conseguenze del pragmatismo, Milano, 1986 (1982).

2) Si confronti il volume di J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Milano 1981 (1979).

3) si confronti G. Vattimo, La fine della moderntià, Milano, 1985 e il saggio di A. Matterà, danni Vattimo e il pensiero debole, in "Prospettive settanta", Napoli, gennaio-marzo, 1986.