La vita come progetto:
1 - Nei nostri principi teorici l’esistenza di un imprecisato “quid” parallelo alla mente è ormai un presupposto irrinunciabile. Che questo quid sia il soffio di cui parlavano i grandi filosofi della Grecia, o lo spirito o l’anima, oppure una qualità emergente dai neuroni come sostengono le neuroscienze, è opinione comune che non siamo solo materia, ma anche qualcos'altro.
Il successivo nostro paradigma, legato al primo, è l’idea di progetto. Vale a dire che la nostra vita sembra regolata – oltre che dagli istinti e dalle necessità psico-sociali dell’ambiente – anche da una progettualità (di cui, da viventi, non siamo consapevoli) decisa da questo stesso quid prima di incarnarsi nell’ovulo materno. Il progetto conterrebbe previsioni, ovviamente di massima, che si incrocerebbero con le strutture psichiche prodotte dal cervello umano per dar luogo ad una struttura unificata che la scienza definisce vagamente “coscienza” senza ulteriormente specificare cosa essa sia.
La scelta progettuale sarebbe libera, nel senso che è individuale e specifica di ciascuno di noi senza alcuna intermediazione se non l’adeguamento a quel principio evoluzionistico che regola l’intera vita dell’universo. Se le cose stanno così, si tratterebbe di una scelta consapevole che, tuttavia, il futuro corpo ignorerà, ma che l’anima (la nostra profondità inconscia) conoscerebbe assai bene. In un certo senso l’Io psichico rappresenterebbe l’estrema volontà dello spirito, il depositario di una volontà che precede la vita. Questo spiega anche perché sia necessario conoscere se stessi. “Conoscere se stessi” come recita tutta la tradizione filosofica e orientale, secondo la nostra chiave di lettura, deve significare ri-conoscere intuitivamente il progetto del nostro stare al mondo. Il desiderio di autoconoscenza non sarebbe, quindi, un desiderio del solo Io psichico destinato a scopi utilitaristici, ma proverrebbe dalle profondità dell’inconscio, cioè nel luogo dove è presente questa nostra misteriosa anima individuale la quale vorrebbe sempre più essere presente nelle decisioni riguardanti la vita umana in cui è provvisoriamente occultata.
2 - Ma - si potrebbe chiedere - come facciamo a sapere qual è la volontà di quest’anima, dal momento che la coscienza non riconosce altro che se stessa? Anzi moltissime persone non credono affatto di possedere un’anima nel senso spirituale del termine. Costoro non hanno tutti i torti, però riflettono poco. Essi negano partendo da una opinione (che, in effetti, è un’ altra credenza), molto banalizzata, che suppone la partecipazione dell’anima a tutte le minute cose quotidiane, anche le più insignificanti. E’ evidente che l’anima esterna se stessa soltanto in condizioni particolari, non certo nel bailamme quotidiano delle nostre banalità legate al contingente.
Questa credenza va, dunque, ridisegnata in una logica diversa. Anche in questo ragionamento dobbiamo riflettere su una premessa ovvia: il linguaggio dell’anima non può coincidere con quello della mente, perché quest’ultima tende all’orizzontalità fisiologicamente sociale e dei luoghi comuni, mentre l’anima si muove verticalmente, cioè verso la metafora simbolica del cielo sopra di noi. La conseguenza di tutto ciò, è . che l’anima entra nella coscienza sia le volte che la nostra vita si trova di fronte a decisioni radicali estreme e sia quando ci proiettiamo in un progetto spirituale e sociale che supera la realtà quotidiana e tende all’esperienza conoscitiva indipendentemente dalle credenze. In altri termini non è importante credere in un fine, ma operare verso un fine mediante quelle operazioni della coscienza che entrano verticalmente verso il profondo attingendo a un’etica universale piuttosto che a un’etica convenzionale e ideologica. Questa riappropriazione di sé, tra l’altro, ha anche una valenza terapeutica di tipo pratico, sia come prevenzione generale e sia verso quell’aiuto psicologico da cui anche le malattie organiche traggono beneficio. I principi precedenti, tuttavia, oltre ad avere un senso conoscitivo personale, producono una conseguenza fondamentale sul piano del diritto: se, oltre al nostro corpo, siamo anche i depositari della nostra anima, il principale proprietario della nostra esistenza non possiamo che essere soltanto noi.
3 - I paragrafi precedenti sono, quindi, propedeutici alla discussione, attualmente in Italia, sul testamento biologico di fine vita e ad i suoi corollari sul diritto o meno a disporre del proprio corpo. Infatti, un discorso del genere, non può affidarsi a principi dogmatici, ma alla logica, partendo da presupposti teorici di tipo razionale e non fideistici.
Senza oltre addentrarci in questa questione, non c’è dubbio che se ci trovassimo a dover decidere se vivere o morire o comunque affrontare soluzioni importanti per la vita nostra e altrui – a meno di non essere in uno stato di depressione grave – se crediamo di non essere solo materia, dovremmo tener conto che se la coscienza evoca l’interiorità profonda, questa potrebbe rappresentare anche la voce dell’anima di cui percepisce l’eco, rendendola complice, in tal modo, della nostra decisione psichica.
Ovviamente la difficoltà è quella di imparare a riconoscere questa volontà per essere assolutamente certi di non ingannarsi scambiando il proprio stato depressivo o patologico, con la decisione di morire o, comunque, di decidere sui fatti importanti della vita.
4 - Ma supponiamo di non essere in grado di portare avanti la riflessione precedente e poniamoci la domanda in altro modo partendo dal punto di vista del diritto a cui si accennava prima: siamo o non siamo i padroni della nostra persona o, il nostro, è un delitto di presunzione? Esiste un diritto naturale inalienabile di proprietà di ciò che è mio, compreso la mia mente e la mia vita? Il corpo è mio o di qualche altro? Dal momento che, una volta nato, mi assumo l’onere e il dovere, per tutta la vita, di curare il corpo, di nutrirlo, di difenderlo e nel contempo nutro anche la mente, con la cultura, con l’educazione, con i sentimenti, con le virtù civili, eccetera, rendendomi responsabile in prima persona e non per delega, anche di fronte alla legge, delle mie azioni, perché non dovrei decidere, nella situazione di sofferenze atroci, di tornarmene da dove sono venuto e chiedere alla scienza di abbreviare la mia esistenza in modo indolore?
Credo che nessuno possa reclamare diritti sulle mie decisioni. Se la società ha il diritto di pretendere che io viva in modo conforme alle leggi, perseguendomi se sbaglio senza l’obbligo di conoscere la mia vita interiore, perché, a mia volta, non dovrei godere dello stesso diritto di scegliere se voglio ancora stare su questa terra o se voglio andarmene?
Nella nostra società viene riconosciuto il diritto di proprietà di qualsiasi cosa, dall’automobile, alla casa, dal vestito che ho inddosso, ai soldi nel portafogli, a eccezione del mio corpo. Ma nel contempo la società riconosce il diritto di inviolabilità del mio corpo – anche per operarmi il chirurgo necessita del mio consenso informato - al pari dei miei diritti e doveri soggettivi.
Non c’è un’evidente asimmetria in tutto ciò?
Quindi il mio essere “io” è una soggettività che agli occhi della legge assume un valore oggettivo. Il diritto mi riconosce quale soggetto giuridico perché io penso; e di conseguenza sono il solo responsabile delle mie azioni.
E quando dico “responsabile” mi riferisco al mio Io, non alludo al corpo, dal momento che, come Persona e Soggetto autonomo, io vivo esclusivamente nella mia testa perché è lì che si struttura l’Io, così come - nel dolore, nella gioia, nel piacere, nel lavoro, negli affetti e nelle emozioni ma soprattutto nelle decisioni - io mi trovo esclusivamente sempre e solo nella mia testa e in nessun’altra.
E’ in questa luce che io sono assolutamente ed esclusivamente il padrone di me stesso, pagando per ogni responsabilità che questa testa si assume, nel bene come nel male.
5 - Mentre in Italia questa discussione ancora suscita polemiche, a Zurigo, nel mese di maggio, c’è stato un plebiscito-referendario in cui la maggioranza dell’elettorato si è pronunciato a favore della “dolce morte”. Col referendum, avendolo vinto, il popolo svizzero ha chiesto l’abolizione di tutti gli ostacoli di legge relativi al suicidio assistito, il cui slogan elettorale era stato questo.” Il diritto di morire è una faccenda privata che non riguarda lo Stato, né tantomenola Chiesa”. Il referendum è stato sostenuto da due associazioni, Exit e Dignitas, nonché dall’Unione Democratica Federale (di destra) e dal Partito Evangelico, una formazione politica religiosamente ispirata. La decisione referendaria dovrà prima o poi essere percepita dall’Unione Europea, con una ricaduta sulle decisioni degli altri paesi. Sappiamo tutti che in Italia un dibattito sereno sul suicidio assistito è praticamente impossibile perché si sostiene che uccidere non è un diritto ma un delitto, anche quando c’è la volontà del soggetto.
Le opinioni politiche non ci interessano, perché noi portiamo avanti riflessioni e non ideologie e se necessario, criticheremo anche il comune Maestro, ma singolare è il fatto che questa opinione sia di Ignazio Marino, del PD, mentre il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, addirittura ha paragonato l’assistenza al suicidio all’incentivazione del riciclaggio di denaro sporco.
Pensando a Englaro:
6 – Quando medito sulle questioni appena delineate e le associo ai fatti reali della vita, confesso di essere preso dall’angoscia. Alludo al coma irreversibile e non alle stupidaggini degli opinionisti. Pensando a Englaro qualcuno ha finanche detto che avrebbe potuto svegliarsi. Ma in quali condizioni mentali si sarebbe trovata la povera ragazza? Ma l’angoscia mi prende alla sola idea di restare immobile senza poter comunicare con nessuno.
Facciamo insieme questa terribile riflessione. Se si è in coma senza coscienza, il problema neppure si pone: dobbiamo risvegliare la coscienza o solo un corpo senza la sua mente? E se non c’è coscienza, ci troviamo sempre davanti a una Persona, nel senso etico e giuridico? Se si, perché mai?
Provate, ora, a immedesimarvi in una situazione di coma durante la quale esternamente sembra che voi dormiate, mentre è possibile che invece siate coscienti senza che gli altri se ne possano accorgere. Riuscite a immaginato cosa si potrebbe provare restando, uno, due, una decina d’anni, con la coscienza sveglia, ma in un corpo che non può radicalmente comunicare neppure il più elementare pensiero? Se non riuscite a immaginarvelo fate la prova a chiudervi in un armadio ed a restaci un paio di giorni. In una situazione del genere, nell’obbligarvi a vivere in nome di un terrificante principio etico, non si tratterrebbe della più feroce delle torture, come quella di obbligarci a stare in una bara, sottoterra, con il solo filo d’aria proveniente da un tubicino conficcato nella gola? Non vorreste che qualcuno vi staccasse la spina, che vi facesse scivolare in un sonno senza più l’orribile incubo del non poter comunicare, nel silenzio della totale morte civile e emotiva, sordomuti per forza di cose, impossibilitati ad esprimere il più piccolo dei desideri, morti più dei morti, perché loro lo sanno di non avere più il corpo, mentre i comatosi capiscono di essere ancora qua avendo però perso tutti i diritti, compreso quello di poter chiedere di morire.
Il punto a cui voglio arrivare è, però, un altro: augurereste una situazione del genere al vostro peggiore nemico?
Suppongo di no. E invece è proprio questo che vuole la morale religiosa. La sola idea che si possa stare in coma irreversibile chiuso nella bara del proprio corpo, è un pensiero terribile, ma non passa per la mente di nessun cristiano, sembra un tipo di pietà bandita dalle riflessioni metafisiche e psicologiche e da quell’elementare principio di carità e di amore che dovrebbe accompagnare non solo il cristiano come tale, ma anche chiunque ami l’Altro almeno un poco e non vorrebbe vederlo dannato nella sua immobilità, in un dramma che solo chi ama potrebbe intendere e capire. Tutti parlano a vanvera del diritto a vivere e della difesa della vita e nessuno parla del diritto a pretendere un po’ di amore, quello che dovrebbe spingere a dare sollievo a chi soffre e non ad accentuare la sua pena infliggendogli il suppletivo di un’esistenza terrificante che, in quelle condizioni, nessun che sia ancora sano di mente, potrebbe più desiderare.
Corrado Piancastelli