La coscienza è riducibile a stati cerebrali?

Post date: 13-gen-2014 14.31.07

di: Marco Salucci

Dopo un breve resoconto sullo stato dell'attuale dibattito sulla coscienza nella filosofia della mente, concentrerò l'attenzione sulle posizioni anti-riduzionistiche per mostrare che non ci sono novità rispetto al passato e proporrò infi­ne una strategia per affrontare tanto i vecchi quanto i (pretesi) nuovi argomenti anti-riduzionistici.

1. Dal 1994 i convegni periodicamente organizzati dall'Università di Tucson e nuove riviste (come l'australiana "Psyche" e l'inglese "Journal of Consciousness Studies") costituiscono luoghi di ampi dibattiti dedicati intera­mente a quello che è l'astro nascente della filosofia della mente: la coscienza. Il dibattito in corso sulla coscienza presenta elementi di novità e di continuità rispetto alle questioni discusse negli anni passati. Da un lato, viene per la prima volta affrontato direttamente un tema che in quasi mezzo secolo di filosofia della mente era stato sistematicamente eluso; dall'altro, continua ad essere al centro dell'attenzione la sostenibilità del riduzionismo fisicalista, cioè della tesi secon­do la quale è plausibile aspettarsi una spiegazione scientifica dell'origine della coscienza. Benché sia di grande interesse che al tradizionale (continentale) approccio ermeneutico alla coscienza se ne sia affiancato uno di tipo analitico, la coscienza è assunta come una sorta di banco di prova per la verità del ridu­zionismo; e ciò non diversamente da quanto era accaduto con la nozione gene­rica di stato mentale negli anni Sessanta. Si discute, in sostanza, della questione se la coscienza sia un mistero (nei convegni di Tucson si è formato il "partito dei nuovi misteriani" il cui leader è Colin McGinn) oppure un problema trattabile all'interno di una qualche teoria e, ulteriormente, se tale teoria possa essere di tipo empirico oppure no.

Per la verità la discussione attuale è stata avviata da qualche intervento pre­cedente al 1994, fra i più significativi quelli di C. McGinn, di D.C. Dennett, di O. Flanagan e di Crik (1). L'intervento di Crick è particolarmente significativo per una prospettiva fisicalista e ciò indipendentemente dalla praticabilità del pro­gramma di ricerca e dalla validità delle ipotesi che egli stesso propone. Scrive infatti F. Crick "il messaggio del libro è questo: è giunto il momento di pensare in modo scientifico alla coscienza [...], è tempo di cominciare seriamente e deli­beratamente uno studio sperimentale della coscienza" (2). A chi conosce la sto­ria della filosofia della mente contemporanea le parole di Crick non possono fare a meno di evocare quanto i fondatori della teoria dell'identità fra stati mentali e stati cerebrali scrivevano quarant'anni fa: l'affermazione dell'identità è un'ipo­tesi empirica è come tale può essere confermata o smentita solo sperimental­mente (3).

È dunque rilevante che biologi e neuroscienziati comincino ad occuparsi della questione della natura degli stati mentali in generale (4) e dell'origine della coscienza in particolare, perché ciò potrà contribuire a riequilibrare un dibattito che fino ad oggi ha avuto come punto di riferimento esterno alla filosofia l'Intelligenza Artificiale, piuttosto che le scienze biologiche, e come protagoni­sti i sostenitori di varie forme di funzionalismo, piuttosto che i materialisti. Un po' semplificando, si può dire che gli scienziati hanno assunto in maggioranza una posizione vicina a quella del riduzionismo fisicalista, mentre tra i filosofi ha prevalso, per motivi diversi, un atteggiamento anti-fisicalista. Ciò è stato moti­vato dal fatto che i sostenitori delle varie teorie funzionaliste o computazionali della mente si sono giovati del grande sviluppo degli studi di Intelligenza Artificiale, mentre le scienze biologiche e del cervello, alle quali i materialisti hanno sempre affidato la conferma della loro posizione, hanno cominciato solo da poco ad impostare la questione della natura degli stati mentali.

Nonostante dichiarazioni come quelle di Crick la situazione non è ancora sensibilmente mutata e molti tra i filosofi sono attualmente impegnati a elabora­re argomenti anti-riduzionistici. Di tutti gli argomenti sostenuti nel passato quel­li che sembrano avere ancora oggi il maggior credito sono quelli che si colloca­no sulla linea inaugurata da Nagel e da Jackson (5). Di tal genere sono infatti anche quelli recentemente proposti da D. Chalmers (6) che hanno suscitato un amplissimo dibattito. Gli argomenti di Chalmers non sono, pertanto, completa­mente originali, e non solo perché si rifanno a quelli di Nagel e di Jackson (7), ma anche perché ripresentano quelli classici dei qualia assenti e invertiti. Tuttavia Chalmers ha sistemato tali argomenti in un complesso organico (da cui scaturisce una proposta originale, secondo alcuni di tipo panpsischista, che però qui non interessa discutere) rendendo così disponibile una sorta di summa dell'anti-ririduzionismo, il che costituisce una buona occasione per fare il punto sulla tenuta della teoria dell'identità fra stati mentali e stati cerebrali a quarant'anni dalla sua prima formulazione.

2. Relativamente alla coscienza Chalmers distingue un easy problem (che è il problema di elaborare teorie neurologiche e cognitive che spieghino, per esem­pio, come il cervello reagisca agli stimoli sensoriali e controlli i comportamen­ti) da un hard problem (che è il problema di spiegare come i processi cerebrali producano esperienza cosciente vissuta in prima persona). L'easy problem è tale non perché sia di facile soluzione, ma perché non sembrano esserci impedimen­ti concettuali alla sua soluzione; l'hard problem, invece, essendo sostanzialmen­te un modo con cui Chalmers ribattezza le difficoltà del riduzionismo indicate da Nagel, sarebbe irresolubile in via di principio.

Dall'analisi dell’attuale dibattito sul tema della coscienza emerge però mar; solo che il tipo di argomenti utilizzati risalgono almeno agri anni Settanta, ma anche che il tema stesso è sostanzialmente una riproposta della nota e antica que­stione dei qualia: il termine coscienza è infatti inteso nel senso che taluni stati mentali suscitano particolari sensazione nei soggetti in cui quegli stati mentali si verificano.

Gli argomenti più importanti che Chalmers propone contro il riduzionismo sono riconducibili ai seguenti tre:

A) argomento dei qualia assenti. Si tratta, come è noto, dj un argomento molto diffuso nella letteratura da quando N. Block (8), nel 1972, lo utilizzò con­tro il funzionalismo. Nella versione di Chalmers invece del robot o della Cina di Block le entità che si comportano come esseri umani senza tuttavia avere coscienza sono gli zombie.

"Uno zombie è semplicemente qualcosa di identico a me ma che non possie­de esperienze consce - tutto tace al suo interno" (9). Chalmers sostiene che anche la descrizione fisica più completa del mondo lascia aperta la possibilità che l'esperienza cosciente sia assente: è infatti concepibile un mondo possibile fisicamente identico al nostro ma nel quale sia assente l'esperienza cosciente. Se questo mondo popolato da zombie è immaginabile allora la descrizione fisica è incompleta e una spiegazione riduzionistica della coscienza impossibile.

B) Argomento della conoscenza. Si tratta semplicemente della ripresa degli argomenti ormai classici di Nagel e di Jackson: possedere una conoscenza fisi­ca completa dei fenomeni cerebrali non significa anche sapere che cosa si prova ad (che effetto fa) avere un'esperienza cosciente (10).

C) Argomento dell'analisi concettuale. Secondo Chalmers una teoria riduzionista della coscienza dovrebbe essere tale che i fatti relativi all'esperienza cosciente fossero implicati logicamente da quelli fisici: ma siccome è chiaro "che non c'è implicazione concettuale della biochimica sulla coscienza [...] la coscienza non sopravviene logicamente sul fisico" (11). Si tratta, ancora, di un argomento non nuovo e, infatti, i materialisti (12) lo avevano già affrontato quando avevano attaccato il comportamentismo: l'identità fra stati cerebrali e stati mentali è un fatto e come tale può essere accertata solo dall'indagine empirica e non da quella concettuale.

È facile vedere come tutti e tre gli argomenti, non solo B, siano riconducibili a quello di Nagel perché gli stati mentali che vengono menzionati in ciascun argomento contengono come nucleo uno stato del genere "effetto che fa". Nell'argomento A gli zombie, come il robot e la Cina di Block, non provano nulla a comportarsi in un certo modo; nell'argomento C ciò che si prova ad avere un certo stato mentale non è implicato concettualmente dall'analisi dei fatti fisi­ci che accompagnano lo stato mentale. Argomenti simili ad A e a C sono stati sottoposti a repliche specifiche (13), ma ciò che mi interessa è mostrare che pos­sono essere ricondotti a B, in quanto è l'argomento di Nagel che rappresenta la sfida più seria posta al riduzionismo.

3. Una delle questioni sulle quali il libro di Chalmers deve indurre riflettere è la seguente: perché gli argomenti già proposti e ampiamente discussi in passa­to vengono ancora ripresentati come se le repliche, serie e numerose, dei riduzionisti non avessero per nulla contribuito a far progredire il dibattito? Risposte puntuali a tali argomenti sono facilmente reperibili nella letteratura (14), ma, nonostante ciò, continuano ad essere utilizzati. Credo che ciò non dipenda dal­l'inefficacia delle repliche quanto piuttosto dal fatto che i riduzionisti non hanno preso sul serio l'effettivo carattere di esperienza soggettiva degli stati mentali, e neppure hanno fornito una spiegazione del perché l'esperienza soggettiva costi­tuisce un problema per qualunque teoria della mente. Il riduzionista dovrebbe dunque ammettere l'esperienza soggettiva all'interno della sua teoria e, contemporaneamente, mostrare anche come non ne derivi la falsità del riduzionismo.

Argomenti come quelli sopra ricordati vengono riproposti perché, evidente­mente, continuano a mantenere la loro forza. Nei confronti di questa forza argo­mentativa i riduzionisti sono dunque ancora debitori di una replica convincente. È quanto mi propongo di fare nel paragrafo successivo, dopo, però, aver messo in luce perché gli argomenti anti-riduzionisti sono così attraenti.

È noto che "l'effetto che fa" è quel carattere dell'esperienza soggettiva che Nagel ha dichiarato inafferrabile da una qualunque descrizione fisica. Ma, a sua volta, l'argomento di Nagel sembra essere uno dei molti modi con i quali, nel pensiero moderno e contemporaneo, è stata espressa la divaricazione fra l'im­magine scientifica del mondo e quella dell'esperienza comune. La formulazione più celebre di tale divaricazione è forse quella data da Eddington nel 1929 quan­do, introducendo la sua opera The Nature of thè Physical World, dichiarava di averla scritta seduto ai suoi due tavoli: "uno di essi mi è familiare fin dall'in­fanzia [...] Ha estensione; è relativamente costante; è colorato; soprattutto è soli­do [...] L'altro [...] è soprattutto vuoto. Disseminate in questo vuoto ci sono numerose cariche elettriche che viaggiano a gran velocità; ma la loro massa complessiva è meno di un miliardesimo della massa del tavolo medesimo[...] Non ho bisogno di dirvi che la scienza moderna mi ha assicurato [... che il mio secondo tavolo, quello scientifico, è il solo che esista realmente" (15). Il pro­blema di Eddington, quello di ricondurre il tavolo dell'apparenza a quello della fisica, è anche il problema di Nagel: come ricondurre le esperienze soggettive a eventi neurofisiologici?

4. Proporrò adesso sette punti ai quali deve essere ricondotta una teoria riduzionista della mente: i primi quattro individuano i caratteri fondamentali delle proposte già avanzate dai sostenitori della teoria dell'identità, gli altri devono essere aggiunti per affrontare il dibattito attuale e quindi, dal momento che il dibattito attuale e quello trascorso non presentano soluzioni di continuità, anche le critiche avanzate nel passato da Nagel e da Jackson.

I) Alcuni stati cerebrali sono stati mentali (ovviamente non tutti gli stati cere­brali sono stati mentali, come quelli, per esempio, che regolano le funzioni vege­tative o il metabolismo).

II) Tutti gli stati mentali sono stati cerebrali (è l'ipotesi caratteristica della teoria dell'identità).

III) Le esperienze soggettive (i qualia, la coscienza, l'effetto che fa e simili) sono stati mentali e dunque, dal puntoli, segue che

IV) l'esperienza soggettiva è uno stato cerebrale.

V) Abbiamo esperienza dei nostri stati mentali, ma non abbiamo esperienza dei nostri stati cerebrali, e quindi neppure di come gli stati mentali possano esse­re identici (o derivare da, sopravvenire su, accompagnarsi a, essere ricondotti o ridotti a stati cerebrali.

VI) Da V, ovviamente, non segue che gli stati mentali non possano essere stati cerebrali.

VII) Poiché gli argomenti anti-riduzionisti discussi sopra si fondano su V (quello di Nagel direttamente, gli altri dopo essere stati ricondotti a quello di Nagel), allora, per VI, non sono validi.

Che non si abbia esperienza soggettiva dei nostri stati cerebrali può essere considerato un fatto conseguente alla mancanza di un organo che ci consenta di rilevarli. Questo fatto, di per sé, non deve sorprendere dal momento che non abbiamo esperienza di molti stati fisici del nostro corpo. Ma una conseguenza che ne deriva è sorprendente, almeno a giudicare dal seguito che gli argomenti anti-riduzionisti continuano ad avere, e cioè che, da tale fatto, non se ne può rica­vare la falsità del riduzionismo. Gli argomenti in stile nageliano, infatti, esigono tacitamente che si abbia esperienza di come i nostri stati cerebrali divengano (siano causati, originati o identici) stati mentali. Il problema individuato da Nagel non è, dunque, che non possiamo spiegare gli stati qualitativi mediante una descrizione fisica ma che non possiamo avere esperienza di come gli stati qualitativi si originano da quelli fisici. Siccome, però, ciò registra semplicemen­te un fatto di natura, non può essere considerato un difetto delle teorie riduzionistiche. Il cervello non possiede organi per rilevare i propri stati interni, com­presi i propri stati fisici (è noto, per esempio, che le sensazioni localizzate nella testa - dolori ecc. - sono riferibili al cranio, non al cervello). La natura ci ha provveduto di organi per rilevare alcuni stati fisici del mondo esterno o del nostro corpo, ma4 non del nostro cervello, e quindi neppure di come gli stati cere­brali siano stati mentali anche se questa identità fosse vera. Gli argomenti in stile nageliano pretendono che si abbia esperienza soggettiva di ciò che l'ipotesi riduzionista sostiene - cioè che gli stati cerebrali sono stati mentali - e pertanto, mancando questa esperienza, l'ipotesi sarebbe insostenibile, il che è palesemen­te ingiustificato.

Ciò che attrae dell'argomento di Nagel è la difficoltà già indicata da Eddington: sembra incredibile ridurre l'aspetto soggettivo a una descrizione oggettiva. Questo problema è esattamente il punto su cui fanno leva i vari argo­menti anti-fisicalisti, da Nagel a Chakners. Tali argomenti pretendono che si abbia esperienza soggettiva della riduzione: ma il cervello non ha, e non si vede perché debba avere, ano speciale organo di senso che percepisca come i suoi fatti fisici divengano esperienza soggettiva. Pertanto tutto ciò che possiamo e che dobbiamo aspettarci è una spiegazione scientifica di come gli eventi cere­brali possano produrre eventi mentali. La spiegazione dell'identità, la giustifica­zione del riduzionismo, sta in una teoria non in un'esperienza soggettiva. Il fatto che una teoria non possa farci provare che "effetto fa" non è un difetto della teo­ria perché non è il genere di cosa che una teoria è tenuta a fare.

Supponiamo che un giorno la scienza abbia fornito una spiegazione di come gli stati mentali si originano da quelli cerebrali. Essa, presumibilmente, avrà la forma: "un sistema fisico fatto così e così, in cui accadono cose così e così, ha la proprietà di sentire l'effetto che fa essere nello stato così e così". Per gli scien­ziati questa spiegazione sarà completa. Nagel e Chalmers devono però ripropor­re il loro argomento perché resterebbe pur sempre vero che 1'«effetto che fa» essere in uno stato mentale è accessibile solo a chi lo possiede. Quindi per Nagel la spiegazione sarebbe ancora incompleta. Ma una spiegazione che Nagel trove­rebbe completa equivarrebbe alla pretesa che fosse possibile avere esperienza soggettiva di come uno stato cerebrale ha proprietà soggettive. Poiché per questo manca l'organo specifico 1'«incompletezza» non riguarda la teoria, non più di quanto l'impossibilità di vedere l'infrarosso costituisca un'incompletezza della teoria ottica. Siamo di fronte ad una limitazione cognitiva non diversa da quelle derivanti dalle caratteristiche specifiche di tutti gli organi di senso, ma non è chiaro come ciò possa impedire l'elaborazione di una teoria neurofisiolo­gica che spieghi come certi stati fisici abbiano la proprietà di provare esperien­ze.

5. Le strategie disponibili per affrontare il problema di Eddington sono tre: a) quella di Nagel e di Chalmers che nega a priori la possibilità di tale riduzione; b) quella del fisicalismo che affida alla ricerca scientifica la riduzione degli stati mentali cerebrali; e) quella dell'eliminativismo che intende la riduzione come eliminazione dei termini ridotti (gli stati mentali). Fin qui si è discusso delle prime due strategie perché la linea di discussione inaugurata da Nagel e oggi rap­presentata da Chalmers ha polarizzato l'attenzione sull'irriducibilità dell'aspet­to qualitativo degli stati mentali, con ciò presupponendo ovviamente l'esistenza di tale aspetto e degli stati mentali stessi. Tanto impegno nell'elaborate argo­menti àntiriduzionisti ha tuttavia posto in secondo piano l'alternativa che, ovvia­mente, è disponibile solo dopo che si "sia optato per la strategia b. Di per sé il riduzionismo non è eliminativista, ma l’eliminativismo è una possibilità del riduzionismo (e secondo J." Scarte, come vedremo subito, inevitabile). La que­stione è chiaramente presente anche nel brano sopra citato di Eddington: "la scienza moderna mi ha assicurato [...] che il mio secondo tavolo, quello scien­tifico, è il solo che esista realmente". Prima dell'intervento di Nagel il problema più dibattuto fra la teoria dell'identità e i suoi avversati concerneva il concetto stesso d'identità. Oggi, J, Scarte è l'autore che sembra maggiormente interessa­to ad affrontare la questione della natura della coscienza e degli stati mentali da tale punto di vista (16). Se gli stati mentali sono identici a stati cerebrali allora non ci sono due tipi di stati ma uno solo, con la conseguenza che gli stati men­tali vengono eliminati; se invece vogliamo mantenere l'esistenza degli stati men­tali allora non possono essere identici a stati cerebrali. Nel secondo caso avremo il dualismo, nel primo avere una forma di monismo materialista ma al prezzo di aver eliminato gli stati mentali (e dunque anche la coscienza) dall'ontologia del mondo. Al contrario "la pura sensazione qualitativa del dolore è una caratteristi­ca del cervello assai diversa dalla combinazione delle scariche neuronali che causano il dolore" (17).

Per Searle il materialismo è necessariamente eliminativista a meno che non sia disposto ad introdurre, accanto alla nozione di identità, quella di causalità. Se gli stati mentali sono identici a stati cerebrali e nello stesso tempo ne sono cau­sati allora è sostenibile tanto l'opzione monistica quanto la reale esistenza degli stati mentali, poiché gli effetti sono pur sempre distinti dalle loro cause. Si trat­ta, com'è ovvio, di un'assunzione problematica poiché, come già Piace (18) nel 1988 aveva notato, se x è identico a y, x non può essere anche causa di y. Sembra che Searle ritenga di evitare tale difficoltà in quanto l'identificazione e la rela­zione di causa-effetto avverrebbero su livelli diversi: un determinato stato men­tale è identico ad uno stato cerebrale di un certo livello ed è causato da uno stato cerebrale di livello inferiore. Per un verso gli stati mentali sono causati da stati cerebrali di livello inferiore mentre per l'altro sono identici a stati cerebrali di livello superiore. Le posizioni di Searle (come ad esempio il celebre argomento della stanza cinese) hanno sempre suscitato un ampio dibattito ma non quello di cui stiamo trattando (19). Ad una riflessione appena più attenta essa si mostra però problematica perché se l'identificazione conduce sempre all'eliminazione allora anche Searle è eliminativista giacché gli stati mentali sono pur sempre identici a stati cerebrali di livello superiore.

Searle da per scontato che l'eliminazione sia l'unica forma di riduzione. Sembra che egli ritenga che l'unica forma di riduzione possibile sia quella di Eddington. Ma già Hempel si era decisamente opposto alla concezione di Eddington la quale "per quanto presentata in modo persuasivo, è insostenibile; in quanto spiegare un fenomeno non vuoi dire eliminarlo. Non è né lo scopo né l'effetto delle spiegazioni scientifiche mostrare che le cose familiari e gli eventi della nostra esperienza quotidiana "non esistono in realtà" (20). Sui filosofi della mente dichiaratamente eliminativisti si sono affermati dei luoghi comuni non sempre fondati: ciò che essi intendono eliminare non sembrano essere gli stati mentali come tali ma le teorie psicologiche ingenue (21).

D'altra parte, per complicare ulteriormente il quadro fra coloro che vogliono eliminare gli stati mentali devono essere annoverati anche alcuni avversari del riduzionismo fisicalista (22).

Mi sembra che, di nuovo, ci si trovi di fronte a un nodo di concetti ancora poco chiariti: il fisicalista non può rimproverare a Nagel di porre limiti a priori a ciò che la scienza potrà spiegare e poi pretendere di sapere a priori non solo che la coscienza è riducibile, ma anche di che tipo di riduzione dovrebbe trattarsi (23). Dichiarando la teoria dell'identità un 'ipotesi empirica i suoi padri fonda­tori intendevano affermare che non ci sono impedimenti logici per la sostenibilità (ed è in questo senso che va inteso l'argomento che ho presentato nel para­grafo precedente); se la riduzione è possibile e che tipo di riduzione possa esse­re utilizzata è compito dell'indagine empirica decidere. In conclusione, qualun­que sia il grado di validità dell'argomento in favore del riduzionismo presentato nel paragrafo precedente, mi sembra che, allo stato attuale, le ragioni per sce­gliere una forma di riduzione piuttosto che un'altra siano comunque più incerte.

1) C. McGinn, The Problem of Consciousness, London, Blackwell, 1991; D.C. Dennett, Consciousness Explained, Boston, Little-Brown, 1991, trad. it. Coscienza, Milano,Rizzoli, 1993; O. Flanagan Consciousness Reconsidered, Cambridge, Mass., Mit Press, 1992; F. Crick The Astonishing Hypotetis, New York, Macmillan, 1994, trad.it. La scienza e l'anima, Milano, Rizzoli, 1994.

2) F. Crick, La scienza e l'anima, cit., p. 10.

3) U.T. Piace, Is Consciousness a brain process? in "The British Journal of Phsychology", 47 (1956), pp. 44-50; J.J.C . Smart, Sensations and brain processes, in "Philosophical Review", 68 (1959), pp. 141-156.

4) Cfr. anche A.R. Damasio, Descartes' Errar. Emotion, Reason, and thè Human Brain, New Yok, Putnam, 1994, trad. it. L'errore di Cortesia, Milano, Adelphi, 1997.

5) T. Nagel, What is it like to be a bat? in "The Philosophical Review", 83 (1974), pp. 435-450, trad. it. Che effetto fa essere un pipistrello? in Questioni manali, Milano, II Saggiatore, 1986, pp. 162-176. F. Jackson, Epiphenomenal qualia, in "Philsophical Quarterly", 32 (1982), pp. 127-136.

6) D. Chalmers, The Conscious Mina, Oxford, Oxford University Press, 1996; trad. it. La mente cosciente, Milano, McGraw-Hill, 1999.

7) Cfr. anche S. Kripke, Naming enecessity, in D. Davidson e G. Harmon (a cura di), Semantics of naturai languages, Dordrecht, Reidei, 1972, trad. it. Nome e necessità, Torino, Boringhieri, 1972.

8) N. Block e J. Fodor, What psychological states are not, in "Philosophical Review", 81 (1972), pp. 159-191.

9) D. Chalmers, op. cit., p. 98.

10) Ivi, pp. 104-105. ll)Ivi,p. 99.

12) Soprattutto J.J.C. Smart, op. cit. e D.M. Armstrong, A materialist theory ofmind, London, Routledge and Kegan Paul, 1968.

13) Riguardo all'argomento C ho già ricordato il luogo ove possono essere reperite. Contro l'argomento A si può ricorrere al principio della sopravvivenza per il quale esse­ ri con stati cerebrali identici non possono avere stati mentali differenti; cfr., per esempio, J. Kim. Supervenince and nomological incommensurables, in "American Philosophical Quarterly", 15 (1978), pp. 149-156.

14) Per una esposizione complessiva del dibattito fra sostenitori e oppositori della teoria dell'identità cfr. M. Salucci, Materialismo e funzionalismo nella filosofìa della mente, Pisa, Ets, 1996.

15) A.S. Eddington, The Nature of th Physical World, New York, Cambridge University Press, 1929, pp. IX-XII.