Questa è una conferenza, finita la quale ve ne andrete a casa più che con risposte, con una serie di nuove domande. Questo perchè nessun parapsicologo serio e nessun sensitivo per quanto grande sia, può affermare con certezza assoluta che le cose stanno nel modo in cui le vede lui.
Io stesso, che pure sono accompagnato da 50 anni da quel profondo e grande mistero che si chiama Entità A, spesso mi arrampico sugli specchi, mi dilaniano (più che i dubbi) le sensazioni e percezioni a cui non so dare linguaggio; mi faccio prendere la mano da visioni che però non posso o non so trasmettere e che sono ambivalenti: se dò forma alle percezioni il linguaggio diventa quello della poesia, se cerco di spiegare faccio filosofia, se indago sulle cause faccio psicologia.
In tutti e tre i casi non riproduco ciò che vedo o ciò che sento, ma trasmetto solo un racconto esterno e ciò che è il senso emotivo della percezione resta soltanto a me. Tutto ciò,comunque, è stata ed è l’esperienza del viaggio - del mio viaggio - sia terreno, sia simbolico e sia sciamanico ed oggi posso tranquillamente sostenere, contro chiunque, che nessuno può fare questo viaggio al posto di un altro: a volta ci riesce l’arte. Ma anche con l’arte il senso profondo non è tanto sulla tela o sulla pagina, ma in ciò che il visitatore riesce a farsommuovere dentro di sè. Dunque anche di fronte alla poesia, chi l’ascolta deve percorrere un itinerario interiore, cioè che gli può consentire il riconoscimento del senso entro il quale si muove il linguaggio della poesia: oso dire che il visitatore deve scindersi, diventare un visionario, deve modificare il proprio stato di coscienza.
Ecco perchè ho cominciato col dire che ci formuleremo altre domande e ci daremo solo poche risposte: le domande ci iniziano al viaggio della scoperta, in ciascuno di noi, e del riconoscimento.
Ora, fatte queste necessarie premesse (e avrei dovuto farvene tante altre) possiamo accostarci al tema della reincarnazione col gravame dei dubbi e delle certezze.
I dubbi non riguardano tanto e solo la reincarnazione, ma semmai alcuni dettagli di cui ora discuteremo.
Intanto chiariamo il significato del dubbio: cioè facciamo un distinguo.
Il dubbio concerne una risposta certa, se questa deve coincidere col metodo della scienza.
Se passiamo al dubbio nel senso filosofico del termine, le risposte sono sicuramente più strutturate.
Se invece lavoriamo con la parapsicologia umanistica e cioè sulla coscienza, i dubbi sembrano svanire di colpo.
E allora le cose stanno così:
- scientificamente parlando non abbiamo alcuna prova certa (nel senso fisico del laboratorio, però), che esiste l’Anima; dunque nessuna ipotesi reincarnativa, se viene meno la premessa. La conseguenzialità è logica.
- Filosoficamente parlando, invece, viene meno la necessità della prova di laboratorio, e tutto viene rinviato alle prove logiche o ontologiche (come si fa per l’esistenza di Dio) o di fede: cioè al discorso dell’Essere con la matematizzazione del linguaggio.
- Con la parapsicologia umanistica assistiamo, invece, allo straordinario connubio fra scienza, filosofia e neuroscienze.
L’Anima non viene mostrata solo dal ragionamento e dalla impostazione del discorso, ma dedotta da fatti concreti i quali, anche se ancora non sono certezze, creano tuttavia paradigmi operativi e ipotesi altamente fondate.
Lo vedremo più avanti. Ma già ora appare evidente che, se non siamo pazzi, la reincarnazione si lega direttamente all’Anima. Se questa non ci fosse non ci sarebbe un alcunchè da reincarnarsi, mi pare ovvio.
Qui, però, gioca una strana situazione: se avessimo la prova certa e oggettiva della reincarnazione, verrebbe implicitamente dimostrata anche l’esistenza dell’Anima. Infatti, che cosa passerebbe da un corpo all’altro, se non proprio quest’Anima che stiamo cercando?
Naturalmente, come umanisti assumiamo come paradigma di lavoro che l’Anima esiste. D’altra parte scegliere un paradigma è lecito finanche alla scienza: se i materialisti si sono scelti il paradigma della negazione noi ci opponiamo col paradigma dell’affermazione: ciò è pienamente legale finanche per il metodo scientifico.
Paradigma vuol dire "modello" (dal greco paràdeigma) che oggi, nella filosofia della scienza significa anche un insieme coordinato e articolato di teorie, metodi e procedimenti che contraddistinguono in modo prevalente una fase di una determinata procedura di ricerca.
Quindi il nostro paradigma è che l’Anima esiste ed esiste - per via logica - anche la reincarnazione.
Vorrei tralasciare le solite dimostrazioni reincarnative con tutto il corredo di racconti che lasciamo volentieri agli aneddotisti e cominciare, invece, con due domande fondamentali.
1) - Perchè la nostra religione si oppone?
2) - Perchè, se siamo il risultato di vite precedenti, solitamente non ricordiamo proprio niente? Il ricordo aiuterebbe molto la teoria, invece non abbiamo in mano che poche labili tracce, prescindendo da alcuni racconti, anche notevoli, come quelli studiati da Stevenson.
Dunque la prima domanda:
Perchè tanto accanimento contro la dottrina della reincarnazione da parte della Chiesa cattolica? Il motivo nasce dal fatto che la teologia cristiana non ammette che l’Anima sia preesistente al corpo, ma che venga creata da Dio di volta in volta che un uomo nasce. E’ evidente che se l’Anima non preesistesse non potremmo avere una precedente vita: come Anima, cioè, saremmo nati nel momento del nostro costituirci nel mondo come cellule. Si tratta, comunque, di un’affermazione teologica assurdamente infondata. Non si riesce assolutamente a capire, sul piano logico, il senso di questa arbitraria affermazione.
Se l’Anima è creata da Dio e ne possiede i caratteri, (poichè quest’Anima è eterna anche secondo i cristiani), come mai non esisterebbe anteriormente alla nascita sulla terra? Perchè Dio dovrebbe creare Anime di volta in volta, contravvenendo al principio di infinito ed a quello di eternità? Indubbiamente le difficoltà da parte dei cattolici ad ammettere la reincarnazione nascono proprio da questa limitata visione di Dio: un Dio incapace di produrre una creazione ab-eterno infinita e di doversi ridurre a produrre Anime appena vede che un ovulo e uno spermatozoo stanno per incontrarsi.
Personalmente mi rifiuto di pensare a questo tipo di divinità che trasforma Dio in un guardone dal buco della serratura di una camera da letto. Tra l’altro non possiamo condizionare la creatività di Dio alla fecondazione degli uteri femminili perchè questo tipo di rapporto legherebbe Dio al capriccio della natura. Infatti, se un’epidemia impedisse agli uomini di sessualizzare e fecondare le unioni, Dio non creerebbe più Anime? E Dio cosa fa? Aspetta come un servo sciocco che uno spermatozoo arrivi sull’ovulo e, paf, crea un’Anima? Non sto affatto esagerando irriverentemente. Quando cominciò la speculazione teorica intorno all’Anima, specie da parte di Socrate e di Eraclito (non si sa chi vi si sia dedicato per primo) e di Platone, le Anime venivano concepite come una sorta di angeli, preesistenti all’uomo e condannate forse a venire in terra per espiare qualcosa. Con l’avvento del cristianesimo si cercò di spiegare anche la questione del peccato originale e allora si pensò che forse l’Anima discendeva direttamente dai genitori. Questa dottrina piacque a S. Agostino, a Lutero ed a molti altri padri della Chiesa. Alcuni pensarono ad un seme corporeo, come Tertulliano e Nisseno, tanto che emanarono due sentenze dette traducianismo spirituale e corporeo. Questa teoria, alla quale aderirono molti cattolici fra i quali anche Rosmini e il Gunther, dichiarava che, insieme agli spermatozoi, veniva trasmessa anche l’Anima, in una sorta di moltiplicazione coitale. Come si vede non sono poi tanto irriverente alludendo a Dio come ad una specie di guardone a luci rosse benchè in me ci sia quel tanto di ironia che mai guasta nei discorsi seri. Per esempio, se le donne decidessero una procreazione limitata o una malattia epidemica sconsigliasse la fecondazione, faremmo forse dipendere Dio da una Natura che egli stesso ha creato?
Al momento credo che nessun cattolico saprebbe rispondere intelligentemente ad una domanda come questa.
Attualmente i cattolici, sulla scorta di S. Tommaso, adottano il creazionismo, cioè, come già si è detto, la teoria in base alla quale l’Anima di ciascun uomo è creata da Dio appena si viene al mondo come cellule che si incontrano durante l’accoppiamento.
Espressa in questo modo questa teoria contiene, però, una grossolana contraddizione teologica. Se l’Anima viene creata appena si forma il corpo e dunque non preesiste, il battesimo, quale peccato originale cancellerebbe se, non esistendo precedentemente, l’Anima non potrebbe nè essere responsabile di qualcosa, nè aver peccato in alcun modo?
Infatti il battesimo, istituito da Cristo, non è solo il rito col quale si diventa cristiani , ma cancella anche il preistorico peccato originale con il conferimento della grazia la quale rigenerebbe alla vita soprannaturale: i condizionali, ovviamente, in questa materia, sono d’obbligo. O ci siamo tutti ribellati a Dio, oppure i figli pagano anche per i genitori: da qui non si scappa.
Per rispondere alla seconda domanda (perchè non ricordiamo niente di niente) dobbiamo continuare nell’analisi delle obiezioni.
Quattro tesi contro la reincarnazione
Gli oppositori della reincarnazione e, implicitamente, della preesistenza dell’Anima al corpo (i due problemi, anche per i cattolici, finiscono col procedere appaiati) obiettano quattro tesi:
1°)- noi abbiamo percezione della nostra Anima e prova della sua esistenza proprio perchè abbiamo una consapevolezza che è preesistente, nel senso che con qualsiasi variazione del corpo (nelle emozioni, negli affetti, nel ricordo, nel tempo o nello spazio), noi sappiamo sempre di auto-riconoscerci. In altri termini noi sentiamo una intima e sostanziale unità fra il nostro Io di ieri, di oggi e sicuramente di domani, almenchè non intervenga una amnesia patologica.
Quindi fondiamo la nostra coscienza sulla certezza della nostra continuità, come Io, nel tempo e nello spazio di noi viventi.
2°)- Se questa adesione spazio-temporale manca, come potremmo sostenere che tra una vita precedente, di cui non abbiamo memoria, e l’attuale, vi sia continuità?
3°) - Nessuno, si sostiene, ha una coscienza netta di essere preesistito e non bisognerebbe confondere le sensazioni che ci farebbero sospettare di essere già esistiti, dal momento che non si può provarne la preesistenza.
4°) - Non potendosi stabilire identità fra due coscienze incomunicabili, ne deriverebbe anche che non potremmo reincarnarci per espiare colpe precedenti, poichè non si può pagare per colpe di cui non si ha nè coscienza, nè ricordo e di cui, oggi, non vi è senso di responsabilità: la responsabilità è legata strettamente alla coscienza personale.
Le quattro tesi ci sembrano di una ingenuità strabiliante e francamente siamo delusi da questo modo filosofico di fare teologia. Tra l’altro, se la responsabilità è legata alla coscienza personale, proprio non si capisce, lo ripeto ancora una volta, che senso abbia il battesimo, sia che l’Anima preesista e specialmente se poi - come sostiene la Chiesa Cattolica - non è mai esistita prima di nascere in un corpo.
Obiezioni alle quattro tesi
Cominciamo con l’accorpare le prime due obiezioni e cioè che, essendo la nostra coscienza - in questa vita - una unità inscindibile fra il nostro Io di ieri e quello di oggi, noi siamo solo questa coscienza: e dal momento che non abbiamo ricordo di una coscienzaprecedente, è evidente che essa non è mai esistita. Questa è fondamentalmente l’obiezione.
Queste due tesi sono insostenibili ed è, anzi, vero proprio il contrario. Infatti, non è vero che, necessariamente, ai fini dell’unità della coscienza, debba esservi la memoria della nostra vita spazio-temporale già trascorsa. Anzi, noi non abbiamo completa memoria neppure della nostra stessa vita attuale.
Della nostra vita, non dico nemmeno già trascorsa, ma addirittura ancora in corso, noi ricordiamo poche cose e, in genere, solo quelle che ci colpiscono in maniera più o meno fondamentale. Ma di questi stessi ricordi noi abbiamo spesso le immagini piuttosto che l’emotività e l’affettività legate alle immagini stesse. Ecco perchè già farei questa distinzione fra memoria immaginativa (il ricordo fotografico) e memoria emotiva o affettiva. Non a caso, si dice, il tempo lenisce i dolori: in realtà cancella la memoria emotiva. Sembra che la mente ci protegga al punto tale da trasformare l’emotività affettiva in altre forme percettive, come ad esempio, lo struggimento compensato, la nostalgia, il rimpianto, il desiderio, il bisogno, ma non più lo strazio del dolore. Cioè, in termini puramente psicoanalitici, la natura produce il disinvestimento affettivo dall’oggetto amato, lasciando - in condizioni non patologiche - forme rappresentative non traumatiche del ricordo.
Si può ricordare una persona morta ma, almenchè non sussista un’abnormalità del rapporto, non c’è più il dolore lacerante: il tempo, ovvero complessi meccanismi inconsci, hanno operato la rimozione del trauma e la sua, per così dire, sublimazione. Ma quanti di questi ricordi possediamo? E tutte le altre cose vissute dalla nascita fino ad oggi le ricordiamo forse più?
Naturalmente ai reincarnazionisti compete comunque l’onere della prova, ma resta l’obiezione che non ha alcun senso affermare che la memoria della vita precedente dovrebbe essere collegata alla memoria di quella attuale per doversi ammettere la continuità e, dunque, la reincarnazione. In effetti si tratta di un falso problema dal momento che noi sappiamo benissimo di essere esistiti dieci o venti anni fa, senza necessariamente ricordare niente di quel tempo.
Benchè suoni paradossale, noi non ricordiamo neppure di essere nati, benchè questo sia un fatto certo.
E questo ci porta alla terza e quarta tesi. La terza sostiene che nessuno ha la coscienza netta di essere preesistito e le eventuali sensazioni che potremmo averne non è provabile che siano vere. Torno a ripetere ciò che ho già detto: non è necessario, perchè sia esistita, che una realtà debba obbligatoriamente essere ricordata. Anzi, aggiungo, la stessa catarsi in corso di trattamento analitico o sotto shock comunque provocato, prova che anche l’eventuale emersione dell’inconscio deve essere solo emotiva e non è obbligatorio il ricordo fotografico e la verità spazio-temporale dell’evento.
L’emersione dell’inconscio, poi, prova che esistono ricordi nascosti che non emergono nella coscienza, anzi c’è più roba nascosta (iceberg) che roba emersa.
Diceva Freud che non è importante ricordare o ricostruire la verità dei fatti accaduti, ma ciò che il soggetto ritiene di aver vissuto. Del resto, noi non ricordiamo almeno il 99% della nostra vita, nè siamo in grado, quando ricordiamo, di operare una giusta collocazione storico-temporale dell’evento. Inoltre - e questo è fondamentale - tendiamo a dimenticare man mano che ci allontaniamo temporalmente dai fatti e, dunque, perchè dovremmo ricordare un’altra vita se non ricordiamo neppure quella che stiamo vivendo ora?
Provate a pensare a questa vita di oggi. Cosa facevate alle ore 12 e 3 minuti del 1979 nel mese di marzo? Che cosa vi disse vostra madre quando nasceste? E cosa vi disse il Giovedì del 19... quando avevate ancora tre anni alle ore 10,30 di mattina?
Cosa stavate pensando alle 9 in punto di stamattina e cosa vi è passato per la mente appena, al pranzo di oggi, avete portate il primo boccone alla bocca? Come era esattamente il vostro volto o quello di vostra madre, trent’anni fa? E vi ricordate di voi a 22 anni, senza rivedervi in fotografia?
Quella ruga sotto gli occhi c’era o non c’era a marzo dello scorso anno? Sapete ripetere parola per parola, la telefonata che avete ricevuto due ore fa?
Sto esasperando il discorso? Non mi pare. Sto solo cercando di spiegare, in maniera grossolana, come lavora la memoria rispetto agli eventi affinchè sia più convincente che la nostra pretesa di voler dimostrare una non preesistenza attraverso l’assenza del ricordo, è una pretesa infondata. Per esempio, senza l’orologio, il calendario, le fotografie, gli specchi e i sensi, come ricorderemmo il passato? E allora, ripeto, che senso logico può avere l’obiezione che, non essendovi ricordo, non c’è passato?
Abbiamo, anzi. la prova contraria.
Abbiamo appena visto che il passato, anche senza il ricordo, esiste. E noi stessi ne siamo la dimostrazione vivente. Questo passato, tra l’altro, esisterebbe anche in assenza della nostra coscienza, come è provato dalle amnesie croniche e totali.
Addirittura possiamo affermare senza che nessuno ci possa smentire che il futuro è incerto, è invece sicurissimo che esiste il passato e il presente.
E’ evidente, però, che stiamo fondando il nostro discorso secondo i criteri della soggettività: cioè sulla coscienza dell’Io al di là del ricordo hic et nunc.
Nella quarta tesi c’è poi contenuta una obiezione debolissima: " Non potendosi stabilire identità fra due coscienze incomunicabili, non potremmo espiare colpe precedenti perchè non si può pagare per colpe di cui non si ha coscienza, nè ricordo: la responsabilità è legata strettamente alla coscienza personale."
Ho già espresso riserve sulla fondatezza del battesimo rispetto a questo concetto.
Se seguissimo questo ragionamento, qualcuno dovrebbe poterci anche spiegare perchè siamo colpiti da tanti guai personali o familiari, senza sicuramente aver mai fatto - in questa vita - niente di male. Perchè un bambino dovrebbe nascere storpio o disgraziato, se neppure ha avuto il tempo di dire amen? Mi chiedo anche da dove nasce questa pretesa per la quale una sofferenza dovrebbe necessariamente essere legata ad uno stato di coscienza della colpa ad essa collegata, quando tutta l’umanità - come individui e come massa sociale - soffre senza minimamente potersi rendere conto del perché?
Non noi, quindi, ma i negatori della reincarnazione (sulla quale, intendiamoci, dobbiamo essere molto cauti; e non è vero affatto che sbandieriamo questa ipotesi col crisma delle certezze assolute) dovrebbero essere chiamati a troppe spiegazioni se volessero sostenere la relazione espiazione-sofferenza. Ma allora, di quali colpe (e quando realizzate) si sarebbero macchiati i bambini del mondo, per esempio quei poveri bambini dei paesi sottosviluppati, o quelli trucidati nei mattatoi nazisti, o quelli che devono elemosinare un futuro, o i milioni di ragazzi disoccupati e umiliati, tutti sicuramente senza colpe coscienti o inconsce?
E perchè, allora, ci porteremmo sulle spalle un peccato originale che, come singoli, non abbiamo commesso? Oppure Dio scambierebbe la storicità del mondo con l’individualità dei singoli?
Comunque, a me sembra che anche la stessa impostazione reincarnazionistica finora sbandierata dagli spiritualisti pecchi di semplicismo allorquando collega, in modo meccanico e quasi behavioristico, la reincarnazione al rapporto colpa-espiazione. Questo è un punto di vista molto limitato. Benchè sicuramente sia ipotizzabile - almeno sul piano logico - una correlazione fra colpa e rinascita, siamo propensi a ritenere, invece, estremamente fondamentale la lezione filosofica dell’Entità A,
cioè del mio Maestro Andrea, il quale sostiene che ci si incarna - e ci si reincarna - non tanto o non solo per espiare qualcosa (e comunque più che di vera espiazione si tratta di ricorreggere il disegno dei comportamenti e delle informazioni conoscitive di una vita già trascorsa), ma sostanzialmente si viene sulla terra per conoscere. E’ questo il senso dell’incarnazione. In tal modo le vite stesse, fondamentalmente, diventano momenti con funzioni e finalità estremamente costruttivi per la crescita dello Spirito, il quale percorre le vie materiali che si offrono come uno spaccato estremamente significativo e vario di quella natura meccanica più generale quale è l’universo che ci circonda. La vita umana rappresenterebbe, per questo essere spirituale, una esperienza di materialità, una modalità di conoscenza, un’altro da sè per lo Spirito, la verifica diretta di una realtà la quale, senza il contatto col corpo, gli sarebbe forse preclusa perchè come essere spirituale non potrebbe mai sperimentare la materia. Come potrebbe, infatti, lo Spirito, di natura divina, conoscere (proprio nel senso dell’esperienza diretta, dell’informazione e della conoscenza, del sapere cognitivo, cioè) un universo strutturalmente e sostanzialmente non omologo alla propria struttura spirituale? Ed è proprio il problema dell’omologazione spirituale dell’altro - in questo caso l’universo materiale - che renderebbe necessaria la varietà e la molteplicità degli approcci alla natura dell’universo: tra questi approcci potrebbe sicuramente esserci la molteplicità delle incarnazioni qui o altrove.
Ricordiamoci che l’universo è definibile solo perchè ci siamo noi. In ciò è anche la nostra dignità di soggetti irripetibili.
Ma perché, se le cose stanno così, non si ha ricordo di nulla? Perchè questo altro mondo, queste vite di un ipotetico Spirito, questo ricordo di un nostro precedente esistere ci viene così puntualmente e continuamente precluso?
Se muoio ora, è finito ogni rapporto con voi. Nascendo, ho chiuso le porte dietro di me, ho perduto il mio mondo e ogni memoria del mio essere passato. E’ così o no?
Intanto mi dico che non è proprio esatto che il ricordo sia così totalmente precluso. Benchè molta letteratura sull’argomento debba essere presa con le pinze per la sua fantasiosità, vi sono casi ben documentati e formazioni mnemoniche che è difficile rifiutare come prove. La stessa ipnosi regressiva ci offre documentazione di grande rilievo di cui si dovrà tener conto in una mappatura dei casi a sostegno.
Si, ma perchè dobbiamo ricorrere a tutta questa fatica senza mai avere le prove certe?
E perchè ciascuno di noi deve perdere tutto, come se fosse una tabula rasa e presentarsi nel mondo con la nudità della mente che non si autoriconosce?
Ci sono due risposte.
La prima risposta deve riconoscere che l’assenza di memoria è estremamente protettiva dal punto di vista psicologico. Allo stesso modo per cui noi tendiamo a traslare in memoria del ricordo sia la memoria emotiva, che la gran parte delle informazioni, allo stesso modo noi selezioniamo le immagini del campo visivo in modo da non farci sopraffare. La neuropsicologia ci dice che, se dovessimo avere contemporaneamente, nella coscienza di questo momento, il ricordo di tutte le successioni temporali degli avvenimenti degli ultimi giorni, impazziremmo. Impazziremmo anche se dovessimo contenere, nel campo visivo o auditivo, tutto ciò che cade nel cono di ascolto o di visibilità dell’occhio. Il cervello, nel selezionare, automaticamente si autoprotegge. Lo stesso si verifica anche nel campo dell’emotività, anche se qui la situazione diventa subito più complessa. Ma per quanto riguarda la memoria di una vita precedente c’è un’assoluta ovvietà nell’affermare che la nostra vita sarebbe tragicamente straziante se dovessimo ricordare questo tipo di passato.
Ancora ricordo, a chi legge, la differenza che facevo prima, fra memoria emotiva e memoria rappresentativa o fotografica. E’ chiaro che si può ricordare solo per rappresentatività: in questo caso, dicevo, si ricorda col solo rimpianto, nostalgia, eccetera. E se, invece, dovessimo ricordare con emotività, con affettività, come quando si soffre per un ricordo di avvenimento accaduto ieri o l’altro ieri, cioè di un avvenimento dal quale ancora non è staccata la sfera emotiva?
In questo caso il ricordo reincarnativo ci produrrebbe una ferita dolorosa perchè rivivremmo anche i drammi e le memorie di persone e avvenimenti che improvvisamente sbalzerebbero in primo piano occupando l’intero spazio della coscienza.
Si mischierebbero affetti, amori, drammi, fra loro completamente scollegati, diventeremmo pazzi in una situazione psicologica di totale follia.
Ecco perché non si deve ricordare. Mai! Se qualche volta ciò accade, speriamo che il ricordo (se è anche emotivo ed affettivo) sia breve e istantaneo e subito ritorni nel buio della dimenticanza.
Via, via da noi. Non possiamo sopportare il desiderio di una storia che non c’è più da centinaia di anni e che, anche se la ritroviamo, ha un altro volto, un’altra carne, forse un altro sentimento. Ecco perchè la sovrastruttura corporea finisce.
Perchè finendo, come dopo dirò, l’Essere è restituito alla sua autentica pace dei sensi, torna nella propria Anima la quale è priva del dolore e del desiderio poichè ha superato la propria morte.
Se, allora, la sovrastruttura finisce, dov’è la continuità dell’Essere? E’ la continuità interiore che ci rende eterni.
Ma c’è un problema
Infatti l’impedimento a ricordare (è su questo punto del ricordo che insistono tutti), non riguarda solo la memoria di vite precedenti. ma finanche quella della nostra esistenza in quanto Anime. Perchè non sappiamo affatto, nè ricordiamo di essere Anime.
E’ vero tutto ciò? O si tratta di una distorsione indotta da una procedura culturale?
Proviamo a darci la seconda risposta: la prima ce la siamo data dicendoci che se ricordassimo impazziremmo: l’amnesia è, quindi, protettiva per la nostra salute mentale e per l’esperienza che lo Spirito deve fare come tabula rasa.
Ora il discorso diventa di un interesse incredibile.
Abbiamo detto che ci si reincarna solo se l’Anima esiste e che se l’Anima esiste probabilmente esiste anche la reincarnazione.
E’ questa la costruzione del paradigma ipotetico.
Vi siete mai chiesti perchè mai nessuno ha ancora potuto dimostrare che quest’Anima esiste veramente e concretamente?
Cosa significa continuità interiore della nostra coscienza?
Quando si parla di anime, di spiriti e di sopravvivenza siamo spesso abituati o costretti a parlarne terra-terra.
Le anime sono, per la maggioranza delle persone e anche degli studiosi, i fantasmi della buonanima, le apparizioni (di una certa letteratura minore), dotate di gambe e braccia, bianche nei sudari di morte; anime che quando parlano, con i tavolini, le psicoscritture, i registratori e i medium fisici o intellettivi, devono somigliare ai nostri cari con voci e comportamenti, ricordi e affetti come li ebbero in vita. Per lo più queste presunte Anime ci lasciano messaggi di una incredibile stupidità e superficialità.
Nessuno si chiede, nessuno lo ha mai chiesto come fanno queste Anime ad essere costruite in siffatto modo se non hanno più un cervello (beh, che non lo abbiano è dimostrato dalla povertà dei loro messaggi), nè più una identità umana perchè è rimasta nel cadavere.
E’ chiaro che se un essere spirituale viene identificato con la parte materiale del cervello, la ricerca del ricordo diventa un’operazione impossibile.
Certo, morendo, noi ci portiamo sicuramente alcune cose che si sono, per così dire, fissate nell’Anima, e brandelli di mente da riciclarsi chissà come, ma pretendere di riprodurre in questo al di là le caratteristiche che furono nell’al di qua, è la palla la piede di una certa parapsicologia che insegue una identificazione probabilmente inesistente.
Ecco perchè per questa via non avremo alcuna prova che sia certa, ma solo indizi di difficile interpretazione.
Naturalmente sto parlando di prova culturale, capace cioè di collocarsi, in senso scientifico, nel cuore della psicologia e del rapporto mente-corpo: discipline che dovrebbero essere interamente travasate in parapsicologia.
Comunque, dicevo prima che non abbiamo alcun ricordo, non dico delle vite precedenti, ma neppure di questa vita: ciò che ricordiamo è iscritto sulle 10 dita: ed a fronte di tutti gli avvenimenti che ci toccano è praticamente niente.
Lo sapete che una giornata, per ogni uomo, è composta da 1440 minuti e che una vita media di 70 anni è formata da 36 milioni di minuti?
A voi decidere se sembrano pochi o molti.
Ebbene, in tutti i 36 milioni di minuti noi accumuliamo un patrimonio enorme di pensieri, fatti e visioni. Tutte le cose che guardiamo, che pensiamo, che desideriamo, che facciamo, e poi tutte le altre che ci fanno vedere, che ci dicono, che entrano in relazione con noi.
In 36 milioni di minuti ci ammaliamo, viaggiamo, lavoriamo, amiamo, incontriamo, mangiamo, dormiamo.
Eppure ricordiamo solo poche cose: dimentichiamo finanche il viso di quella ragazzina che incontrammo a 10 anni, a 12 anni, a 15 anni e che amammo grandemente e di cui serbiamo forse il ricordo fin nell’adolescenza per poi vederne smarrita l’immagine nella mente, cancellata dal rigoroso cervello che elimina via via per dar posto, come si dice oggi col linguaggio dei computer, ad altri files ad altre memorie.
Eppure, nonostante tanta dimenticanza e malinconia per le memorie perdute, c’è una cosa che persiste al di là del cervello che cancella e al di là della perdita in sè del pensiero: è la persistenza della nostra coscienza, la persistenza del ricordo di noi, non dei fatti.
Io sono sempre io e ho la certezza assoluta di essere stato sempre io. Non sono soltanto i flash della disseminazione, qua e là di alcuni ricordi che sono sopravvissuti alla strage operata dal mio cervello, è proprio l’unità di me, il senso di me, il significato di me. E’ qualcosa che io avverto, è al di là della materia di cui io pure sento di essere fatto quando mi fa male, quando ho un misero callo o un male in qualche punto di me: e questa qualcosa è ciò che io chiamo la mia Anima immortale.
E’ questa la mia coscienza profonda, il mio sentirmi me fuori del tempo e dello spazio corporeo: è dunque questa coscienza incorporea di me che deve sopravvivere, la mia Anima, il mio aggrapparmi dentro, il sentirmi nella potenza del significato di me.
Quando pensiamo alla reincarnazione o semplicemente alla nostra Anima, è a questa coscienza che dobbiamo riferirci, non ai ricordi ed ai riconoscimenti terreni.
Noi oggi abbiamo questa coscienza, sommatoria di tutti i 36 milioni di minuti, indipendentemente da ciò che abbiamo fatto. Il passato è passato; rivive però nella coscienza unificata del presente e solo questo presente di me oggi conta.
E’ questa la parapsicologia umanistica perchè quest’Anima a cui alludiamo è un fatto paranormale legato alla nostra vita.
Ma c’è ancora un altro problema: quest’Anima rappresenta una seconda coscienza in cui l’elemento fondamentale è la nostra identità.
Io sono io e non un altro: nessuno può prendere il mio posto, nè io posso prendere il posto di un altro.
Ma questa identità profonda (senza la quale ci spersonalizziamo e andiamo in nevrosi) ha un altro linguaggio: ecco una delle cause del nostro disconoscimento.
Se questo linguaggio è a noi sconosciuto, ma rappresenta la struttura primaria dell’Essere, questo è un ulteriore motivo per cui non ricordiamo.
Sembra proprio che tra la vita e la morte cali un sipario che non riusciamo ad alzare.
Ma a volte è possibile. A volte l’Anima si porta dietro pezzi della mente, se li fagocita, li utilizza e può trattenerli se quei pezzi dovranno essere riutilizzati in una vita successiva.
Ecco che allora possono ritornare nel sogno, in alcune scelte folgoranti, in alcune esperienze, in certi incontri che continuano altre vite.
Cercare queste tracce non è semplice. Sono tracce che si mescolano all’immaginario, al desiderio, ai bisogni, alle memorie genetiche.
Oppure bisogna andare incontro alle tracce. Ritrovare l’Anima! Ma come? Adottando il linguaggio dell’Anima, andandole incontro, cioè cominciare il viaggio. Lo cominciamo insieme? Proviamo per qualche minuto. Il viaggio comincia con la prima riflessione che noi non siamo il nostro apparire e quindi bisogna andare a cercare al di là del corpo che possediamo e possiamo confermare questa prima riflessione con una seconda: sono forse la sommatoria di tutte le parti di cui il mio corpo è composto?
Se smonto il mio corpo, organo per organo, dove se ne vanno il movimento e il pensiero? Neppure se smonto un orologio pezzo per pezzo troverò il movimento.
Dove vanno le musiche appena sono state suonate? Diceva Brecht, che fine fanno i buchi quando si mangia il formaggio? Perchè non è possibile conficcare un chiodo nel manico utilizzando lo stesso martello?
Se mi stendo nudo sul letto e mi addormento, non sono altro che 70 chili di carne da macelleria, più o meno spelacchiata, quasi senza fiato? O c’è dell’altro?
Quando dormo e la mia coscienza responsabile (con la mia identità profonda) si arrestano, chi sono io, anzi, dove sono andato io? Dov’è andata la mia coscienza, il mio meche riconosco come il mio sentirmi io? E quando mi sveglio, da dove sto tornando, da dove torna il mio sentirmi cosciente?
Insomma dove sta veramente il Corrado Piancastelli che credo di conoscere?
Come vedete siamo partiti dalla reincarnazione e poi abbiamo fatto il cammino a ritroso, incontrando prima l’Anima e poi la coscienza.
Il fatto che durante il sonno, come nel corso di un’anestesia o di uno stato modificato di coscienza, come un’estasi o una trance, io perda la mia coscienza abituale smarrendo il mio Io, ci dice che durante lo stato di coscienza superiore durante il quale io mi riconosco, creo, produco idee e cambio il mondo con le mie opere (e tanti di noi fanno la stessa cosa) io vengo usato.
Il mio corpo biologico che vive la banalità della quotidianità, quando entra nello stato della coscienza superiore, viene usato da qualcosa che è proprio il qualcosa che stiamo cercando.
Veniamo usati dal mistero. E non sappiano come. Ma essere usati significa che siamo posseduti dal "mistero", ed è questo mistero (che io chiamo Anima e ognuno può definire come gli pare) che produce la mente superiore, con i suoi simboli e metafore, le sue creatività ed essenze, le sue intuizioni e voluttà di libertà: è questa la forza che vince il determinismo della natura, e stimola i neuroni, che domina le leggi e crea l’umano differenziandolo dall’animale che è in noi. E’ questa la differenza fra l’uomo biologico che vive la società col gioco ripetitivo e ossessivo della vita e l’uomo superiore che produce la pienezza dell’Essere che, creando, vince l’ossessività causa-effetto.
"Veniamo usati", ed è questa forza che ci usa ad avere il diritto di vivere, di sopravvivere e di reincarnarsi. Non l’uomo stupido e animale che si manifesta nel corso della vita con le sue nevrosi e paure, con le angosce e tabù, con i riti ossessivi e ripetitivi del non vivere, abbarbicato alla sola sopravvivenza degli atti inculcati dalla storia, con il suo colesterolo, i suoi diabeti e i suoi cancri....
E’ l’altro essere che è in noi e che appare così poco, ad avere tutti i diritti. E’ lui che ci usa, è solo lui che vive, è la coscienza interiore dell’Essere che ci rende umani.
Scientificamente non sappiano né dove, né come questo mistero agisca, ma lo portiamo nei nostri occhi, nelle immagini dello specchio interiore. Lo portiamo nella nostra civiltà che procede anche nelle barbarie quotidiane, lo portiamo nelle nostre poesie, nelle nostre canzoni, nelle nostre filosofie, nel linguaggio quando si simbolizza, quando ci porta nei luoghi abitati dalla follia del genio che tocca le mani di Dio e si sfiora i luoghi terribili della conoscenza, questo mistero lo portiamo quando ridiamo, quando ci fanno ridere, quando facciamo l’amore e col piacere vibriamo al pari delle corde dell’arpa.
Non sappiamo, o possiamo solo intuire, come è fatto questo mistero, ma sappiamo che non ha la voce dell’uomo, nè il colore della natura, nè i riverberi degli occhi e il movimento delle acque. E’ questo il paranormale e questi sono i segni della nuova parapsicologia: il paranormale che cerca l’Anima e fruga tra le pliche del cervello e dei neuroni, il paranormale che reclama fra i nuovi linguaggi affinchè - come accadde al Cristo - la parola si faccia carne e venga sfiorata dalla nostra sensibilità di poveri esseri ciechi.
Altro che tavoli che ballano! Altro che l’armamentario di vecchie signore in cerca di passatempi per il Sabato sera!
Qui siamo nella pura poesia, nel puro paranormale. Siamo nel luogo dove, come ormai ripeto da tempo, avvengono le transazioni e vengono riconosciute le matrici dell’Essere.
E allora diciamola tutta e smettiamola di rincorrerci, anzi di rincorrere questo mistero come se fosse estraneo a noi. E’ vero che è l’estraneo, ma solo perchè non riusciamo a spostarci dal nostro limitato orizzonte.
Forse non c’è un mistero da scoprire, forse non c’è un’Anima da inseguire.
Siamo noi quest’Anima. Io che sto parlando, sono io l’Anima che sta parlando: non ci sono io da una parte e l’Anima mia dall’altra. E’ questo il grande equivoco e anche il motivo per cui non si approda a nulla nella nostra disciplina.
Se senza questa interiorità alta non siamo che povera carne dentro un vestito, allora è questa interiorità la cosa cercata. E ogni qualvolta noi parliamo col linguaggio alto dell’Essere che cerca, si accresce e modella il mondo, ogni volta che ci mostriamo come i poeti stupefatti che impazziscono nel gioco delle domande e delle risposte, ogni volta che curiosiamo nella sacralità dell’ansimare interiore, noi siamo l’Anima nostra che ogni tanto respira nel sole tiepido della terra.
Se questo apparire dell’Anima non ci fosse, come umanità saremmo distrutti e perduti, saremmo vagabondi svuotati di senso e di significato, poche ossa essiccate, simulacri di uomini e statue di gesso.
Come negare, dunque, questo senso di noi e relegarlo ai soli neuroni come se fossimo abiti da appendere al muro?
Ecco ciò che sopravvive! Ancora una volta lo ripeto: sopravvive il senso di noi, l’appartenenza al proprio schema interiore, l’unità della coscienza interiore che è fuori del tempo e dello spazio. Se ci identifichiamo come coscienza interiore siamo nell’Essere, e qui abbiamo altre conferme che avranno d’ora in poi, un valore personale ma non meno probante. Perduto il controllo della ragione ora incontriamo, nel nostro viaggio, compagni impensabili di cui non avremmo mai supposta la presenza in quel modo. Comprendiamo anche perchè non li abbiamo mai incontrati cercandoli con le tecniche, i tavoli ballanti e gli pseudo-medium che infestano la nostra parapsicologia.
"Loro" non tornano a visitarci come noi vorremmo. "Loro" sono là, da qualche parte, fuori o dentro questo ambiente o in qualche imprecisato punto del mondo. Sono là ma non possono darci alcun segno perchè noi li cerchiamo in modo antropomorfico, li vogliamo proprio con le parti che non hanno più: i loro visi, le loro voci, le loro memorie, i loro amori.
Sono là, forse anche vicinissimi, ma non sappiamo accoglierli che con l’armamentario della visione umana e non vogliamo capire che c’è bisogno della visione interiore, di entrare nel luogo delle transazioni e degli scambi fra l’essere e il non essere, nel luogo dove si deve far tacere la ragione per entrare nel mistero.
E’ il viaggio che dobbiamo imparare a fare, ed è un viaggio strisciante e lento. Come ho già scritto, dobbiamo imparare ad avanzare piano piano lungo il piano inclinato e sacrale che azzera il senso mondano di noi e ci risveglia alla coscienza di ritrovarci nell’Anima che rientra in se stessa. E’ qui che avviene il miracolo, perchè quando ciò accade, d’un tratto si sente che il mistero del viaggio si sta duplicando e non sei più solo. Qualcuno esce dall’ombra e si avvicina, qualcuno ci sfiora tanto pianamente da confondersi con un alito caldo, avverti percezioni che sembrano voci lontane, ma voci non sono, visioni che appaiono come smaltate ma visioni non sono: allora capisci che sei proprio arrivato dove volevi andare. Sei arrivato nel luogo dei poeti e delle idee semplici, nel punto privilegiato del riconoscimento, sei entrato nello specchio che hai guardato per tutta la vita e che ora non ti mostra più il tuo viso perchè l’hai oltrepassato e sei diventato irriconoscibile finanche a te stesso perchè dentro lo specchio sei un’altra persona.
Sei arrivato nella tua estasi, sei tornato dove avresti sempre dovuto stare, dove, io credo, saremo dopo quando, andando e poi tornando e poi ancora tornando e andando, prenderemo dalla terra abiti provvisori, ma sempre col fortissimo desiderio del ritorno, per tornare nel rifugio della nostra Anima, il luogo della coscienza che non ci potrà mai tradire e che abbandoniamo ogni volta che torniamo nella corporalità della vita.
Se una prova che tutto questo discorso ha fondamento, si pone, è che questo gran lavoro per possedersi come coscienza, conferisce a tutti una ricchezza ed una crescita che va oltre qualsiasi possesso umano. E, guarda caso, è una ricchezza che proviene da qualcosa di ineffabile che, secondo la scienza, è pura allucinazione. Se si cresce e ci si illumina attraverso le allucinazioni, allora vuol dire che della vita non abbiamo capito proprio nulla.
Se l’astratto produce ricchezza interiore e spinge gli uomini verso l’alto, cioè a trascendere il proprio corpo, ciò vuol dire che siamo nel giusto.
Corrado Piancastelli
S. Felice sul Benaco (BS), 27-4-1996
Ex sito CIP