Post date: 5-nov-2011 21.46.48
di Corrado Piancastelli
Paradossalmente non tutti gli enti di rilevamento, rispetto al numero dei suicidi, hanno dati coincidenti. Ci affidiamo, quindi, ai dati dell’ISTAT, che è una fonte ufficiale, la quale comunica che al 2004, i suicidi in Italia sono stati 3625 e quelli tentati 3481, per un totale di 7106, Dei suicidi portati a termine 1902 sono avvenuti al Nord, 551 nell’Italia centrale, 460 al Sud e 352 nelle isole. L’OMS, a sua volta, ci comunica che nel mondo c’è un suicidio ogni due minuti, una cifra spaventosa perché significa che ogni anno si suicidano oltre tre milioni di persone. Praticamente sparisce una metropoli intera senza che nessuno ne parli mai. Alla base del triste fenomeno c’è la depressione, ma le cause, ovviamente, stanno a monte, specialmente in quei suicidi (in aumento) causati dalla disoccupazione o patologie esistenziali di varia natura. Familiare e non. Le analisi che possono derivare da questi rilevamenti sarebbero complesse, per cui userermo questa premessa solo per impostare un discorso di filosofia terapeutica generale
Nei vari momenti in cui si discute di terapie sociali viene costantemente ripetuto che, a parte possibili meccanismi biologici sottostanti o predisponesti, fra le cause o concause della depressione (che conduce al suicidio), delle tossicomanie, delle nevrosi esistenziali, del disagio giovanile e degli altri mille guai che ci affliggono, sicuramente deve riconoscersi una patologia dell'identità e una perdita dei valori di riferimento, cioè l'incapacità da parte di soggetti sicuramente immaturi, di crearsi ancoraggi con la propria realtà interiore, prima importantissima operazione attraverso la quale si passa per poi entrare nella realtà per così dire pubblica, sociale. I risultati dell'ISTAT, laddove si legge che i suicidi non provengono in gran parte dalle fasce dei disoccupati o dei poveri( ma sono un pò peggiorati in questi ultimi anni) , confermerebbero quanto andiamo dicendo da decenni e cioè che i valori di riferimento e gli ancoraggi alla realtà non sono il danaro, la famiglia, lo stipendio, (pur importanti, naturalmente, per una stabilità emotiva e sociale) ma un equilibrio intrapsichico che dia a ciascuno una ragione del proprio esistere nel mondo, più che una ragione di appartenenza al mondo.
Se questi dati devono avere un senso e se li integriamo con quelli relativi alla depressione che nel mondo colpisce almeno 500 milioni di persone, il motivo in base al quale naufraghiamo è perché non sappiamo cosa farcene della vita, da cui deriva che il problema è l'assenza di un mondo interiore compensatorio dello stress esistenziale a cui siamo esposti in una realtà sempre più alienante e priva di valori, per cui l'ipotesi che non ci sia soltanto una stretta correlazione di causa-effetto fra ambiente e soggetto, non è poi tanto peregrina.
Basti pensare che si è addirittura parlato di "una spiritualità della depressione" (D. Widlocher, La depressione, Laterza, 1985) e, pur senza radicalizzare il problema rispetto ad un biologismo o psicologismo, ormai è certo che le due componenti possono coesistere e rinforzarsi a vicenda. La problematica esistenziale del soggetto è comunque sempre insorgente e questo lo vediamo, ad esempio, nell'alcolismo e nelle tossicodipendenze, così pure il disadattamento sociale a cui stiamo andando incontro per il depotenziamento o assenza della nostra identità.
Purtroppo non ci riconosciamo come persone soggettive, ma attraverso i grandi numeri che manipolano la nostra personalità. Siamo malati perché non ci identifichiamo nei valori che, come specie, ci hanno distinto dalla natura e siamo diventati prima oggetti e macchine viventi alla mercé dell'alienazione e asserviti alle egemonie delle politiche e delle religioni e poi, nei secoli più recenti e fino ad oggi, del tutto dipendenti dalla robotizzazione tecnologica.
Quali sono questi valori? Si può provare una prima e sicuramente incompleta mappatura:
1) - il riconoscimento di Persona distinta dalla natura, quindi distinzione fra l'appartenerci e l'essere nel mondo;
2) - l'appartenerci non vuoI essere inteso come dato narcisistico. E' invece, proprio il senso della nostra unità con cui ci confrontiamo con il mondo anziché esserne fagocitati: questo è il punto più alto della libertà;
3) - la capacità di capire che siamo o dobbiamo essere noi a controllare gli avvenimenti che ci riguardano e non ad essere controllati dal mondo;
4) - la riappropriazione di valori che non appartengono né alle religioni né al diritto, né a sinistra né a destra, ma alla natura dell' Essere ed ai principi della libertà, giustizia, tolleranza, accettazione dell'altro, solidarietà, onestà, dovere, riduzione della possessività, dell'egoismo, del narcisismo, eccetera;
5) - raggiungere l'autopercezione che c'è un input che proviene dal nostro interno (alto e profondo) che domina la scena della coscienza. Un input dal quale promanano le radici di ciò che chiamiamo l'Essere (la nostra Anima?) intorno al quale si costruisce il misero lo suggerito o imposto dal mondo. Per tal motivo noi siamo in catene ancor più che nel fondo della caverna di Platone. Da tale fondo possiamo emergere solo con un gesto liberatorio e terapeutico che possiamo e vogliamo definire cura e riappropriazione umanistica di sé. Ciò passa attraverso l'antifilosofia accademica e attraverso una scienza che deve rammemorarsi di essere figlia dell'umanesimo. E' a causa di questa diaspora che dobbiamo lamentare non tanto (o non solo) la morte di Dio, ma anche quella dell'uomo, morto avvinghiato a se stesso, ovvero a quel metodo che Nietzsche aveva diagnosticato come sostituto della ragione e che ha purtroppo lasciato l'uomo in una solitudine asettica entro la quale ci siamo smarriti e molti di noi addirittura perduti irreversibilmente.
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Tutto ciò ci riporta in pieno nella querelle metafisica perché il disturbo dell'uomo, chiaramente di posizionamento nello spazio e nel tempo interiori suoi propri, si esprime nel/col linguaggio del disturbo psicologico. Si ripropone così, in tutta la sua evidenza e violenza, il problema del rapporto fra filosofia e psicologia, che poi rappresenta la più alta diaspora fra l'umanesimo e la scienza in generale, giocata sulla pelle degli uomini perché i filosofi non fanno più i filosofi e gli scienziati fanno solo gli scienziati. Ne deriva che l'uomo medio, quello che ricade nei drammi individuali e sociali, viene abbandonato sia dalla filosofia che dalla psicologia, salvo 1e assistenze personalistiche sul classico lettino.
Nello specifico il problema è nello sforzo di voler applicare ad ogni costo il metodo scientifico ad una psicologia che volentieri ne farebbe a meno poiché si intrappola con le proprie mani trasformandosi in tavolo operatorio senza che gli psicologi battano un solo ciglio, anzi soddisfatti ogni volta di un travestimento d'occasione che li trasforma in scienziati di laboratorio che hanno completamente voluto dimenticare che "non di solo pane vive l'uomo". Esempi se ne potranno trovare su questa stessa rivista che li pubblica egualmente per spirito dialettico, o come oggi si usa dire, per rispettare una democratica par condicio. Ma il fatto resta.
"Il metodo scientifico -scrisse Umberto Galimberti (Repubblica del 5 ottobre 1996) -esige, infatti, per la sua costituzione, una coscienza intersoggettiva, un intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico. Tale è il cogito cartesiano da cui prende avvio la scienza nella sua accezione matematica. Ma qui la psicologia viene a trovarsi in una contraddizione insuperabile perché se la scienza può nascere solo in presenza e ad opera di un cogito depsicologizzato, se la non interferenza dello psichico è la prima condizione per la produzione di un discorso scientifico, se la soggettività empirica e individuale è proprio ciò che non deve intervenire dove l'analisi pretende di essere oggettiva, può la psicologia prodursi come scienza senza abolire se stessa?"
Questa osservazione, la cui concettualizzazione tuttavia si trascina da tempo immemorabile, viene posta in essere dal fatto che l'oggetto, ovvero il bersaglio di ogni ricerca sulla mente è la mente stessa. Per cui, se nelle scienze naturali ogni dato è da connettere con altri dati per costruire uno schema che appaia, oltre che significante al ricercatore stesso anche operante nel senso ludico o teorico o tecnologico, in psicologia (ma anche in filosofia) i dati hanno significati per soggetti percepienti e cogitanti, non per automi che nulla intendono: sono, quindi, dati privi di significato se presi ciascuno in sé. Ecco perché Galimberti dirà che "destituire il fatto psicologico del suo significato è distruggere il fatto psicologico". E' noto che è specialmente il comportamentismo a rinnegare il "significato" nel senso dell'occhio interiore che osserva se stesso. Secondo questa psicologia, esagerando si nel soggettivismo, non sarebbe più possibile l'osservazione oggettiva. Da ciò la necessità di affidarsi ai tre noti presupposti:
a) -ad una metodica (psicologica) che si occupi solo della previsione e del controllo del comportamento;
b) -a dare senso e valore solo ai dati mostrati dal comportamento manifesto èd a quelli quali risposte a stimoli anch'essi manifesti;
c) ad escludere dalla psicologia dell'osservazione e dalla ricerca tutti gli eventi interni e non osservabili esteriormente (sia fisiologici che psicologici).
In base a questi principi, stante anche l'enorme diffusione che ha avuto il comportamentismo (che nasce dal neopositivisrno del Circolo di Vienna) e la sua analogia con la scienza cosiddetta sperimentale, ciò che noi chiamiamo significato non sarebbe altro che un comportamento. Ad esempio, affermare che io ho un mal di pancia non fa riferimento ad uno stato mentale in cui io sento il mal di pancia, ma significa che io sto esibendo un comportamento di dolore di pancia.
In questo modo l'introspezione è eliminata. Non c'è alcun dubbio che, in una visione della mente così costruita, non ci vuole molto ad affermare che praticamente non c'è alcun stato di coscienza e quindi, paradossalmente, noi non esistiamo! Ovvero, se siamo ciò che esibiamo, cosa accade quando (come scrisse Watson nel '76) ad esempio, pensiamo silenziosamente tra noi? Oppure: che cos'è l'emozione? Dunque, per questa psicologia, c'è una scelta rigorosamente anticartesiana che però arriva alla situazione di una cultura che ignorerà la depressione, i bisogni interiori e finanche la crisi esistenziale riferita all'assenza di valori di ancoraggio di tipo astratto. Tale posizione appare la precisa conseguenza di voler identificare la mente col comportamento (specie Ryle). Manca cioè i1 soggetto. Infatti, dirà proprio Ryle, che usando termini come "desiderare", "amare", cioè quando usiamo categorie di riferimento interiori, noi non dobbiamo riferirci ad entità invisibili (come lo spirito e la mente) ma solo a comportamenti, disposizioni del corpo. Quindi se affermo che amo non esprimo qualcosa che è legato ad un'anima o mente astratta, o sentimenti ed emozioni, essendo vero solo un comportamento mostrato che definisco "amore"; null'altro che un dispiegamento di manifestazioni dietro le quali non c'è nessuno, niente altro. Come nasce questo fisicalismo così esasperato che oggi mostra, tuttavia, il suo limite di fronte al dilagare della depressione generalizzata e alle forme sempre meno controllabili del disadattamento esistenziale che crea suicidi, tossicomani e disadattati in una catena così tragica?I filosofi sanno -o dovrebbero sapere -che se con Cartesio ci fu una identificazione del mentale col privato, è con Wittgenstein che avviene la separazione avendo egli argomentato che il linguaggio non può essere privato, poiché se resta privato non si può verificare. Non solo: come già aveva sostenuto Schlick fin dal 1936 (Significato e verificazione, Pasquinelli, 1969), i criteri pubblici di verificazione e di controllo appartengono solo ai comportamenti osservabili, non ai riscontri introspettivi e, quindi, soggettivi.
Il ritorno al linguaggio diventa essenziale in Wittgenstein i1 quale appoggia una filosofia terapeutica come analisi del linguaggio, fondando un comportamentismo filosofico con tutte le conseguenze portate al massimo dell'esasperazione Wittgenstein perseguita essenzialmente gli stati soggettivi, nega il linguaggio privato come indicatore di eventi interiori e di entità immateriali e lo fa valorizzando il carattere intersoggettivo del linguaggio, quest'ultimo considerato i1 solo mediatore della comunicazione col mondo. Quindi il linguaggio è per lui essenzialmente pubblico, ma in tal modo resta del tutto oscura l'espressione solipsistica del dolore e della tragedia personale trattandosi di stati qualitativi ai quali non può accedere nessuno. In realtà il filosofo-terapeuta o lo psicologo comportamentista non tratteranno con la persona in quanto soggetto, ma esclusivamente con ciò che viene esibito da una macchina corporea in veste di identità sociale.
Il problema di Wittgestein è infatti linguistico, grammaticale. Egli separa la prima dalla terza persona. La prima persona non è verificabile. Se io dico "ho mal di pancia" nessuno lo può verificare e quindi appartiene ad una classe diversa dalla terza persona. A parere di Wittgenstein "non c'è qualcosa che si possa dire la verifica (?) della proposizione "io ho mal di denti" perché la domanda stessa "Come fai a sapere che hai mal di denti? è un non senso" (Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, 1974). La risposta "lo so e basta" non ha valore, poiché è soggettiva. Ma se il mondo è, come crede Wittgenstein, una esclusiva relazione linguistica valida per il gioco complessivo che esprime, c'è da chiedersi il motivo della Storia e cosa fame della valanga di morti impigliati nella rete del linguaggio e deprivati di ogni soggettività e moralità. E' vero che la soggettività subisce l'alterazione e la deformazione proprie della sensibilità individuale, ma se io sento quel dolore e non un altro, è quel dolore che assume ontologicamente un senso per me, è vero che esistono una sfera privata ed una sfera pubblica, ma in quanto persona o unità vivente, io sono soltanto -e per me, si capisce -solo la mia persona privata; è vero che io funziono nella interrelazione con gli altri, ma è in questo scambio di due soggettività non omologate che si può svolgere il dibattito della vita e si stabiliscono le diversità che concretamente costruiscono il processo dialettico della cultura; è vero che nel rapporto terapeutico lo psicologo tace, perché non deve imporre il proprio linguaggio, ma lo fa solo per motivi tecnici ed etici. Sarà poi lo stesso Wittgenstein a dirci che ""compito della filosofia è quello di calarsi nell'antico caos e sentirsi a proprio agio". Ciò potrebbe apparire una contraddizione se non ci avesse anche detto che è sempre nel linguaggio ad essere "depositata un'intera mitologia"!
Una teoria come questa, nelle mani di un dittatore totalitario, diventerebbe una miscela micidiale enormemente più di rompente della teorica nazista la quale almeno salvava il popolo tedesco mentre qui non si salva nessuno.
Ecco perché se siamo persuasi che il linguaggio è tutto, dobbiamo anche denunciare che "questo linguaggio è ammalato".
Se parliamo del linguaggio pubblico esso è costretto alle regole della grammatica trasformazionale che ne ha individuati i tre limiti nella generalizzazione, nella omissione e nella deformazione. Come avere fiducia in "questo" linguaggio? Se per linguaggio si deve intendere anche il modo del corpo di apparire, non si applicano anche al corpo i limiti di cui sopra? Se il linguaggio è plasmato (e mutevolmente ancorato al proprio tempo storico) dal suo stesso porsi come corporeità, chi potrà allora mai guarirlo, se il filosofo o lo psicologo sono portatori delle stesse patologie che intendono curare, non esistendo come soggetti, ma protendendosi solo come prensili macchine in movimento, peraltro malate quanto le altre macchine poste loro di fronte?
Una visione orrenda, non solo completamente anti-umanistica, ma proprio anti-umana che culturalmente ci fa regredire a meccanismo di robot.
E' questo lo scenario in cui si muovono gli indici ISTAT e che trovano una conferma empirica nel quotidiano, nel quale la macchina linguistica mostra tutti i suoi effetti deleteri una volta deprivata dell'intimità dell'io-tu che si racconta e si costruisce. In tal modo le città diventano sempre più inabitabili e anti-umane, la medicina sempre più condizionata alla pura osservazione meccanica (dove sono più i colloqui "clinici" fra medico e paziente?) e sempre più spersonalizzata, gli spettacoli e le televisioni sempre più conformi ai "media", un radicamento sempre più insistito finanche su una letteratura "da centomila copie" costruita per la vendita senza qualità.
E' naturalmente vero anche ciò che ha detto Luciano Caglioti al Convegno sulla libertà (tenutosi a Roma nel dicembre scorso) e organizzato dalla nostra rivista, che la tecnologia ci ha aiutato ad allungare la vita e ci ha sollevato da tanti onerosi lavori. Ma oggi il problema é quello di riempire lo spazio del ritrovato tempo libero con usi e restituzioni alla soggettività che abbiano un senso e di restituire al linguaggio la dimensione di ricchezza privata che esso contiene, senza la quale l'uomo non può più vivere ma solo disperarsi.
Non siamo macchine, almeno non totalmente macchine.
Il neo-umanesimo ci appare necessario non per velleità culturale di principio, ma perché senza il recupero della sua anima perduta, l'uomo smarrisce il proprio senso di appartenenza e il proprio significato.
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Il problema del linguaggio pubblico ha, poi, ancora un effetto devastante sull'identità del soggetto, quello della sua omologazione ad un appiattimento generalizzato. Cioè accade il contrario di ciò che aveva presupposto Wittgenstein. Questo linguaggio pubblico, agito senza anima e solo come espressione semiotica, rischia la cancellazione del linguaggio privato, ma é questa la malattia della contemporaneità cioè la crisi d'identità di uomini che hanno perduto le proprie radici. Ormai la gente parla e soprattutto pensa sul modello del linguaggio della televisione, dei giornali e della pubblicità e soprattutto il pericolo è la quasi completa mitizzazione sia dei linguaggi che delle tecnologie. Oggi conta di più ciò che è mediato dai mass-media che la personale ricerca attraverso il lavoro culturale. Le opinioni non si costruiscono più attraverso lo studio e la scelta critica, ma vengono riversate direttamente nei cervelli dai mass-media e dai suoi istrioni.
Bisogna fermare questa patologia al più presto, prima che diventi totalmente irreversibile.
Il ritorno all'umanesimo non è solo, quindi, un dovere terapeutico, o vagamente intellettualistico, ma un atto dovuto alla storia dell'uomo, poiché in poche decine di anni abbiamo perduto la millenaria fatica dell'evoluzione entro la quale fu proprio il raggiungimento della soggettività e la capacità di pervenire ai significati a farci superare la Natura ed a farci nascere come Persone.
E' questo il senso dell'umanesimo e di una filosofia che riconosce e dimostra l'esistenza di valori all'interno dell'individuo in modo tale che funzionino come ancoraggi, come elementi di sicurezza, primo fra tutti il radicamento che è in noi la facoltà di iniziare un processo di significato e un atto critico: tale procedura, contrassegno di libertà, può promanare da noi senza il condizionamento del linguaggio pubblico. E' questa la posta della libertà, e la libertà consolida l'ancoraggio perché è espressione della volontà soggettiva.
L'appiattimento del mondo e il livellamento del linguaggio sono la patologia conseguenziale proprio dell'enorme influenza che sulla cultura ha avuto un'etica pubblica che ha posto in ginocchio il pensiero soggettivo.
Tutta la querelle, peraltro, rischia il ridicolo. L'uomo è una unità di res cogitans privata e pubblica. La coscienza stessa è una unità inscindibile ed essendo un tutto è qualcosa in più della somma di tutte le sue parti. Anzi è doppiamente qualcosa in più, sia perché ciascuno dei singoli dati della coscienza non costituisce soggettività e sia perché la reattività delle parti a formarsi come mente probabilmente si incrociò con un diverso da sé (di sconosciuta origine) qual'è l'intimo nucleo dell'identità soggettiva che noi consideriamo radice metafisica. Questa coscienza sui generis è comunque una totalità significante, per dirla alla Binswanger, che può essere percorsa (fin dove ci sono le leggi di natura) solo con una procedura fenomenologica. "Fin dove ci sono le leggi di natura" significa fin dove è possibile portare avanti un'analisi servendosi del metodo della scienza, pronti a cambiare il metodo con quello del precorrimento filosofico, laddove finiscono le componenti della ragione del mondo. In questo precorrimento della coscienza noi cerchiamo la linea guida della struttura che costituisce l'intenzionalità della coscienza. In questa indicazione va precisato che non si tratta solo di pulsioni astratte, poiché la linea intenzionale è costituita anche dalla storia del soggetto. Ma procedendo all'indietro e nell'inconscio noi troviamo altre tracce, come l'irrealtà, la dimensione utopica, segnali di soggettività trascendentale, sogni, poesia, linee sacrali, valori e soprattutto voci e pulsioni lontane che si svolgono a fianco della vita, ma immesse in quella atemporalità e aspazialità che anche Freud aveva riconosciute come substantiae dell'inconscio oltre il quale si apre il mistero dell'Essere.
La coscienza, in questa luce, e come aveva già rilevato Husserl, è una unità che comprende aree lontane in un unico flusso: unità enigmatica che tale resta anche per i fenomenologi. Unità entro la quale il mondo della coscienza si muove come interno che osserva e come linguaggio osservato, in piena adesione alla linea della fisica delle particelle per la quale soggetto e oggetto sono indivisibili. L'Io, prigioniero del flusso del tempo e della storia è anche vittima-espressione della soggettività trascendentale che lo sottende, vale a dire di ciò che definiamo la presenza dell'Essere che distinguiamo nel discorso dell'Io che parla della propria anima, e nell'intenzionalità dell'anima che sa ma non può raccontare di sé.
La filosofia (come, credo, la fenomenologia) diventa, quindi, non una scienza che riflette e cerca la conoscenza delle cose, ma il dramma dell'interrogante che cerca di sé in un mondo di linguaggio costruito non a propria immagine e somiglianza. Oltre questo sfondo, tutto al di qua questa volta, si apre un' altra tragedia: quella della coscienza che, ignorando di sé, cerca nel mondo una provvisoria quanto poco convincente felicità.
Cade quindi nel giusto la meditazione di Dannie Abse: "Alla fine Dio caro, hai dovuto andartene. Licenziandoti la tua assenza ci ha fatto rinsavire... Eppure la nostra oscura decadenza lamenta ancora che l'uva sia soltanto uva e grano il grano, conserviamo per mostra il vino e il pane".
Note:
* Saggio pubblicato nel 1998 sulla rivista Uomini e Idee, rivisto e riattualizzato ad oggi conserva ancora tutta il suo valore rispetto ad una situazione sociale per niente cambiata o migliorata..