Trasfomazione e rifondazione dei valori nell'europa che cambia

Post date: 5-mag-2013 22.46.02

di: Corrado Piancastelli

UMANESIMO FORTE E VALORI DEBOLI ALLA PROVA DEL III MILLENNIO

Morale italiana e morale europea

Sarebbe piacevole alla maggior parte degli uomini poter credere che qualcu­no stia dicendo la verità in piena sincerità di cuore e di mente, specialmente se questi personaggi carismatici avessero il ruolo di papa, di presidente degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica o di un raggruppamento delle più importanti hol­ding finanziarie di livello internazionale. Sarebbe piacevole, dico, se si potesse avere fiducia e stima nell'onestà intellettuale e morale dei leader dei vari partiti politici, della pubblicità televisiva, se la cultura avesse per finalità il benessere dell'uomo e i giornali non fossero al servizio dei finanziatori di turno e delle loro finalità politiche e di potere.

Invece, a distanza di più di trent'anni, dobbiamo dare purtroppo ragione a Roland Laing che, analizzando la situazione del rapporto d'alienazione dell'uo­mo nei confronti della società, così diceva nel corso del Congresso "Dialettica della liberazione" tenutosi a Londra nel 1967: "Sfortunatamente, le ciniche menzogne, gli inganni e le illusioni cui siamo soggetti, attraverso tutti i mezzi di divulgazione, perfino attraverso gli organi di cultura o di scienza, ci hanno ridotto ad una condizione di totale scetticismo sociale. (........... )

Tuttavia noi siamo tanto programmati da credere che ciò che ci è detto, per il semplice fatto che ci viene detto è, probabilmente, più vero che falso: la maggior parte di noi è raramente in grado di sfuggire a questa logica. Tutti noi siamo incli­ni a credere e a fare ciò che ci dicono". Queste parole, pronunciate un anno prima del mitico '68, trovano oggi un panorama sociale peggiorato perché, rispetto alle civili e passionali giornate giovanili di quegli anni, oggi è in atto la patologia dell'indifferenza. Un'indifferenza che è scossa soltanto quando i poteri organizzano fittiziamente (come nel caso del Giubileo o delle sottoscrizioni popolari per questo o quest'altro paese aggredito o in povertà) folle oceaniche di comodo o virtuali e che, a loro volta, innescano movimenti politici ed economi­ci che svaniscono in parte nel nulla e fuori d'ogni controllo, una volta cessata l'e­mozione sapientemente guidata dai mass media e dagli specialisti pubblicitari.

Il problema dell'indifferenza sociale e dell'alienazione del cittadino medio è un problema grave, forse è il punto cruciale della trasformazione dei Valori, con gli impliciti e gravi aspetti di crisi che ogni trasformazione porta con se quando si produce su un terreno obsoleto e tradizionale a forte impatto emotivo e imma­ginario, specie se sorretto dall'introiezione (guidata) dei sensi di colpa.

E' difficile non essere veramente preoccupati del futuro, perché non s'intra­vede alcun segno di speranza che le cose possano cambiare. Il motivo è sempli­ce. Oggi tutto ciò che rappresenta una cultura vera - vale a dire una dialettica intorno ai problemi conoscitivi (politici, filosofici, sociologici, ecc.) - se non diventa commercializzabile e dunque produttiva, se cioè non si può trasformare in marketing, non ha alcuna possibilità di essere presa in considerazione. In con­seguenza dell'ossequio a tali principi economici, si deve produrre solo ciò che, già in anticipo, si ritiene accoglibile da parte di un'utenza che è pubblicitaria­mente manovrata affinché accetti, sul piano ludico e commerciale, ciò che gli sarà proposto, sia se si tratta di un prodotto culturale che commerciale. Dal punto di vista culturale è fin troppo ovvio che un pubblico condizionato all'appiatti­mento concettuale finalizzato alle proposte commerciali, o perché accolga un' impostazione pseudo-culturale di un qualsiasi problema tarato sulla cultura medio-bassa dei fruitori, sarà definitivamente perduto per i grandi dibattiti su altri livelli, intorno ai problemi seri e importanti, come può essere quello della crisi del mondo giovanile e della coppia, del buco nell'ozono e dei gravi pro­blemi ecologici del pianeta sul quale viviamo, delle tossicomanie, della deserti­ficazione progressiva del Mezzogiorno, dello scioglimento dei ghiacciai al Polo Nord o, per citarne un altro che sembra una quisquilia ma non lo è, la trasfor­mazione futura dell'editoria che si convertirà prima o poi al virtuale di Internet, oppure la problematica di una cultura in cui proprio gli artisti interesseranno sempre meno perché le richieste di mercato puntano altrove, per esempio alla commercializzazione dell'arte. Ad esempio, quanti fra i telespettatori (fra colo­ro che stanno a bocca aperta a guardare per ore i giochi a premio che impazza­no sui teleschermi dalla mattina alla sera o inchiodati, in pigiama, davanti ai per­sonaggi del Grande Fratello o alle partite di calcio) sarebbero disposti ad inte­ressarsi e ad occuparsi - ovviamente non per moda - di qualcuno dei problemi ai quali ho appena accennato?

Di fronte ad una situazione sociale come questa, che staranno mai facendo le centinaia di migliaia fra professori di filosofia, di letteratura, di sociologia o di psicologia, insegnanti di scuola superiore o elementare, le migliaia di giornali­sti, scrittori, poeti e comunque di coloro che hanno pur frequentato una qualche scuola superiore o un'università, e che dovrebbero possedere almeno un minimo di coscienza critica e di capacità intellettuale? Di cosa parlano costoro con i propri figli, con i compagni di vita, con gli amici, oltre ai gol della nazionale o della squadra cittadina o delle canzoni di Sanremo e della cronaca nera giornaliera? Oggi che essi lamentano il distacco che i figli hanno creato con la famiglia, preferendo gli amici ai genitori (addirittura i cani e i gatti, secondo una recente inchiesta) svuotando d'autorità formativa e conoscitiva i loro ruoli, cosa hanno trasmesso ai propri ragazzi nelle ore cruciali della loro crescita e della loro for­mazione mentale? Si sono incrociati con loro, in quel processo dialettico di cre­scita che due generazioni storicamente diverse devono pur produrre se vogliono vedere i figli diventare adulti maturi e non soltanto più grandi? Purtroppo la situazione tenderà ad aggravarsi. E' in atto una patologia sociale di difficile tera­pia e la cui soluzione appare sempre più come un miraggio. Perché l'Italia non è neppure più un Paese laico nel senso forte ed etico del termine e i cattolici, attraverso l'aggressività della loro gerarchia e con l'appoggio di ben determina­te forze politiche, vanno sempre più riproponendo il controllo spirituale e poli­tico del Paese, avvantaggiati da una sinistra ormai sempre più obsolescente, ago­nizzante e inutile.

Purtroppo il gioco dell'invadenza clericale non è nemmeno occulto. Non passa giorno che i mass media non propongano immagini o dichiarazioni della gerarchia cattolica che i mezzi d'informazione (e gli intellettuali), salvo poche eccezioni, recepiscono senza alcun commento critico. Dobbiamo solo augurarci che gli italiani continuino a ragionare con la propria testa come (non tanto) misteriosamente sembra stia accadendo, nonostante la forza propulsiva dell'ap­parato pubblicitario di cui dispone la Chiesa che (complice il mondo politico e i mass media) gioca le sue ultime carte sul virtuale di un numero ingannevolmen­te sconfinato di cattolici i quali, nella pratica, invece esistono solo come nume­ri aleatori. Infatti finanche il cosiddetto zoccolo duro dei praticanti cattolici, vale a dire coloro che frequentano regolarmente una chiesa e ascoltano la messa, è ormai indifferente alle direttive teologiche della gerarchia, come dimostra il 53% dei fedeli che ammette l'omosessualità, il 48% il sesso fra i minori e il 43% l'a­borto, per non parlare della pillola del giorno dopo ormai condivisa da quasi tutti gli italiani e del crollo della famiglia tradizionale.

Per non parlare dello zoccolo durissimo della popolazione sacerdotale che, nel sondaggio dell'Eurisko (pubblicato dall'Avvenire il 7 dicembre 2000) addi­rittura mostra che una buona metà dei preti non segue le direttive della gerarchia.

Su circa 50.000 preti di 26.000 parrocchie - ha accertato l'Eurisko - il 25% non segue le lettere pastorali dei propri vescovi, il 47% non segue gli interventi del Papa e il 70% non legge neppure i documenti GEL

Deve, allora, essere stata posta in atto un'influenza vaticana così sottile da sfuggire ad una precisa diagnosi se la presenza virtuale, e nel contempo tangibi­le, della Chiesa, riesce a resistere al cambiamento dei tempi, riproponendo l'ar­retratezza del suo punto di vista in ogni argomentazione etica.

E dire, a proposito della cedevolezza dei mass media e dell’intellighentia organica e non, che per la prima volta nella storia c'è stata nel nostro Paese una forte militanza di sinistra che ha prodotto una cultura di sinistra che è culmina­ta in un governo di centro-sinistra. Una presenza comunque intellettuale oltre che politica che - salvo poche eccezioni - sembra essersi completamente dissolta nel nulla, visto che, contro l'invadenza clericale, tacciono finanche coloro che, per istituzione, e per ruolo politico, dovrebbero parlare con forza, se non per passione, almeno per orgoglio e per dovere.

Tutto ciò avrà un prezzo gravissimo, almeno in termini di ritardi sociali.

Significherà far fare all'Italia un passo indietro chilometrico, rispetto al resto del mondo e della stessa Europa con la quale dovremo sempre più confrontarci. Ma significherà, prima o poi, in termini di pratica sonante, anche andare allo scon­tro frontale - quindi non più strisciante, fra cattolici e le molteplici etnie religio­se che stanno crescendo a vista d'occhio - in modo disunito e arcaico, sempre che lo Stato, acquiescendo passivamente all'influenza insopportabile della Chiesa, non impedisca (in modo che sia controllabile e dominabile) l'ingresso dei fedeli di altre religioni, specie islamiche, assecondando la gerarchia vatica­na affinché la maggioranza italiana resti sempre cattolica e l'azione culturale degli immigrati sia minoritaria e controllabile. Ma se sarà possibile arrivare a tanto in Italia, grazie alle ormai evidenti e scoperte collusioni fra Stato e Chiesa, è mai pensabile che in altri Paesi democratici della stessa Europa, si arrivi allo stesso controllo solo per favorire il cattolicesimo romano? Che succederà, allo­ra, in Europa rispetto al problema del livellamento dei fondamentali Valori ai quali bisognerà pur tendere (come già si sta realizzando nell'Unione Europea per problemi più pratici) per creare una politica culturale, che poi è implicitamente anche sociale, valida per tutti, pur rispettando le libertà individuali di ciascun cit­tadino europeo ? Che senso avranno due etiche, una valida per l'Italia e un'altra negli altri Paesi?

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Posta questa doverosa premessa, divideremo il saggio in tre parti. Nella prima, faremo una disamina della situazione relativa alla crisi e al cambiamento dei Valori in atto; nella seconda, saranno analizzate le cause socio-filosofiche della crisi e nella terza si proporrà la tesi dei valori forti in chiave eminentemente laica.

Crisi e cambiamento

Gli analisti sociali sono quasi tutti d'accordo nel ritenere che la collettività oggi non ha positivi modelli sociali e di identità cui riferirsi: sono scomparsi i grandi movimenti di piazza e la capacità dei sindacati di mobilitarli, sono spari­te le utopie passionali e positive dei partiti, delle ideologie, delle religioni, dei movimenti studenteschi e operai, tacciono le voci degli intellettuali, è scaduto nella volgarità il livello del confronto politico, perciò l'identità collettiva che si riconosce nelle situazioni e nelle idee, è diventata mutevole, volatile, giornalie­ra, legata al contingente ed all'emotività di qualche tragedia se non agli aspetti ludici della vita.

Se non prendiamo coscienza (al di là degli interessi d'appartenenza, religiosa o di partito o di cultura) di questa patologia dell'indifferenza e della caduta di senso della vita, rischiamo non solo di rendere irreversibile il decadimento del l'uomo medio, ma di andare in Europa e nel Mondo senza radici e senza identità con un frustrante senso d'inferiorità, consentendo ancora una volta che siano 1 pochi a gestire le nostre coscienze.

Mentre sto scrivendo queste righe, lontano dalle nostre case, ma non certo in un altro pianeta, nel mondo ogni anno, per fame, muoiono sei milioni di bambi­ni, vale a dire 16.000 bambini al giorno, che fanno 11 bambini il minuto. Chi legge impiegherà 15 secondi per ripetere questa frase e in questi 15 secondi sono già morti tre bambini. Il nostro animo si riempie d'orrore? Di pietà? Non sentia­mo proprio nulla? Qualcuno si emoziona, oppure siamo diventati completamen­te insensibili e indifferenti perché quei morti sono sconosciuti, lontani dai nostri occhi e dunque si nascondono nell'anonimia e diventano una delle migliaia di notizie dietro le quali non immaginiamo più gli eventi reali perché tutto sprofon­da in un virtuale collettivo senza più realtà?

Tutto ciò ha qualcosa da spartire con la filosofia, con la cultura della nostra coscienza, con la nostra sensibilità di buoni cristiani o per noi si tratta solo d'in­cidenti di percorso di una civiltà per cui sono fatti che interessano solo la crona­ca, o di una iattura di fronte alla quale l'intellettuale deve alzare le spalle e dele­gare il mondo politico essendo eventi che non ci toccano da vicino e quindi dob­biamo badare solo ai fatti nostri, in casa nostra? Dunque dovremmo ritenerci assolti finanche dai complessi di colpa perché il nostro impegno verso la vita deve limitarsi a far crescere gli orticelli di casa nostra senza doverci preoccupa­re d'altro che dei nostri stipendi, delle nostre scalcagnate famiglie e delle cene con gli amici? Dobbiamo continuare a considerare la filosofia una disciplina per masturbatoti mentali o essa deve servirci da guida per occuparci non solo del sociale ma anche della cura esistenziale degli uomini?

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Ma non ci sono soltanto i bambini morti per fame a turbare la nostra coscien­za e che ogni tanto servono a creare meccanismi assistenziali dietro i quali si celano poteri e interessi di varia estrazione, compresi quelli della mafia. Dei circa sette miliardi d'abitanti della Terra, almeno un miliardo soffre di depres­sione (oltre 11 milioni nella sola Italia dai 15 anni in su), mentre in Europa abbiamo un tentativo di suicidio ogni nove minuti. Soltanto nel nostro Paese muoiono per suicidio 12 persone al giorno e non fanno spettacolo, anzi di loro non si parla perché - si dice - il suicidio ha il carattere della contagiosità incon­trollabile. Voglio fornire ancora qualche dato statistico perché ci prefiggiamo di parlare di Valori e deve apparire chiara la connessione con le nuove realtà: una coppia su due è in crisi; il 64% delle donne e il 70% degli uomini tradisce il pro­prio partner (queste due percentuali mostrano una realtà che c'induce a modifi­care il concetto antiquato dell'unione-fusione fra i partner: in realtà, il rapporto di coppia è una relazione che funziona a determinate condizioni e non solo con l'amore o con la presenza di figli), una donna su due non vuole figli, circa il 26% delle ragazze considera i bambini un ostacolo per la carriera, dilagano i disturbi legati all'impotenza sessuale (un quinto dei giovani fra i 18 e i 30 anni non ha rapporti sessuali e un altro quinto soffre d'eiaculazione precoce: la richie­sta andrologica, in Italia, è aumentata del 300%, in USA del 483%), si sono quin­tuplicati i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, milioni di giovani non troveran­no mai un posto di lavoro: dei tossicodipendenti se n' è, praticamente, perso il conto e non se ne parla quasi più, della depressione e dei suicidi si è già detto.

E' un bollettino di guerra e personalmente incontro sempre difficoltà se non opposizione a farlo accettare. Evidentemente le persone - purtroppo anche addet­ti ai lavori, come gli psichiatri e gli psicologi - non vogliono accettare questa tra­gica realtà perché essa coinvolge troppo le loro false coscienze, dietro le quali si trincera il nostro perbenismo o la nostra insofferenza per i guai altrui: un pro­cesso di rimozione, specie se si ha vicinanza familiare con i fatti che costitui­scono i dati statistici. Ma non possiamo sempre fare gli struzzi parlando di teo­rie di Valori e di terapie sociali, o della salute mentale, senza entrare nel concre­to della prassi quotidiana che nella sua cruda realtà costituisce una teoria fonda­ta sulla vita reale. Si pensi, tra l'altro, alla sofferenza dell'indotto: se ogni indi­viduo, mediamente, si relaziona con almeno due persone, le cifre della sofferen­za almeno si triplicano. Se in Italia muoiono 12 persone al giorno per suicidio, dobbiamo affermare che ogni giorno entrano in sofferenza 12 famiglie alle quali apparteneva il suicida. C'è un effetto di vasi comunicanti che in molti casi dovrebbe essere addirittura quadruplicato.

Nella seguente domanda è implicito un interrogativo socio-filosofico di fon­damentale importanza: abbiamo perso i Valori, o abbiamo perso pseudo valori, cioè valori deboli che la società ha creduto essere valori forti? Quando alludia­mo alla crisi dei Valori intendiamo crisi di bene, crisi di bontà, crisi di virtù, crisi di religiosità? E sono crollati a causa della modernità oppure la modernità ha sol­tanto messo in luce che si trattava, forse in buona fede, ma spesso anche scien­temente, di retoriche e di tabù trasmessi come Valori? Dunque esclusive prescri­zioni e più spesso norme ipocrite dietro le quali non c'è mai stato il coinvolgi­mento reale e fecondo di chi avrebbe dovuto ubbidire, cioè non c'è mai stata l'accoglienza critica e partecipativa delle coscienze individuali, ma sola obbedienza e passività verso l'autorità?

Quali erano questi Valori tradizionali? Facciamo esempi concreti: la Patria, l'eroismo, la famiglia, lo studio, il lavoro, l'onestà, l'amore per il prossimo, la giustizia, il senso del dovere e dell'onore, la lealtà, la fedeltà coniugale, la sessuofobia, l'obbedienza, Dio e il Diavolo, la verginità, la proprietà, la carità, il nazionalismo, i dogmi e i fondamentalismi delle religioni, lo Spirito, l'ordine immutabile delle cose, la libertà, l'asservimento dello Stato al potere religioso, l'etica cattolica e l'obbedienza alla Chiesa, la lotta agli eretici fino alla loro morte, le guerre sante, ecc. L'elenco potrebbe continuare e in esso si potrebbero includere tutti i valori, norme e principi della tradizione in una sorta di sepolcro imbiancato e immobile della storia. (1)

Ha ancora senso parlarne oggi? Se alcuni di questi valori ci sembrano ancora possedere i requisiti perché si dia una civiltà - e francamente non sapremmo sostituire alcuni Valori fondamentali del tipo onestà, giustizia, amicizia, solida­rietà, ecc., per cui è evidente che molti Valori laici o religiosi finiscono con il coincidere - diventa però un imperativo morale liberare i loro significati dalla retorica e dagli obblighi dogmatici e teoretici, per trasferirne i significati e il senso nell'operatività reale della vita. Ma prima bisogna riparlarne, dibattere, renderci partecipi, discuterli con i giovani perché la retorica delle religioni (che si lega continuamente ai Valori) non funziona più in una società passiva ma nel contempo anche contraddittoria come la nostra, che nel mentre mostra in più occasioni un'incapacità quasi totale di reagire, nello stesso tempo da anche segnali sotterranei (o forse anche deboli, è da verificare!) di voler partecipare al dibattito sulle libertà e sul sacro ogni volta che viene promosso in modo dialet­tico senza l'arroganza insopportabile di quanti ritengono di detenere la verità. E' questo tipo d'arroganza, genitoriale, familiare e religiosa che i giovani respingo­no a tutto tondo, non importa se occultamente cedono ad altre suggestioni e com­mistioni di leader allineati sulla loro lunghezza d'onda percettiva e intuitiva. In pratica la gente non crede più ai Valori calati dall'alto, ma a quelli che si posso­no discutere, quindi da accettare partendo dal basso.

Dall'alto ci hanno calato nella testa intere biblioteche che non hanno pro­dotto alcun bene, essendo sempre trionfanti, com'è sotto gli occhi di tutti, gli egoismi, gli arricchimenti e le lotte di sopraffazione e di potere. E' mancata la comunicazione perché è mancata l'umiltà di voler capire l'altro da sé e l'arte della dialettica, anche se Internet oggi sembra voler riaprire i giochi della comu­nicazione assente. (2)

Anche se l'interrogativo è posto con l'amaro in bocca dobbiamo interrogarci in modo nuovo e avere il coraggio di chiederci se i Valori cattolici non siano per niente forti ma Valori deboli, e se non stiano portando alla rovina lo stesso cri­stianesimo. Valori deboli perché posti fuori dalle coscienze degli individui, cioè calati dall'alto, acquistando, in tal modo, la valenza demoniaca di porre in schia­vitù le coscienze impedendole di evolversi nella crescita la quale passa inesora­bilmente attraverso il processo trasformativo ed evolutivo del consenso o del rifiuto critico liberamente espressi come atti individuali e maturi. I Valori non sono modelli da copiare, ma da vivere criticamente, anzi esercitandosi continua­mente affinché si rafforzino non solo nel sistema della vita, ma soprattutto nel processo d'incontro dialettico con la realtà, pronti a rimodellarsi quando lo Spirito dell'uomo s'illumina di altre intuizioni e d'altre dimensioni.

Dobbiamo, però, anche accettare il principio che finché siamo legati ad una mente relativa, la Verità assoluta per noi non può esistere. Chiunque afferma di possederla non può che essere un mentitore: nessuno può nominare e pensare una verità assoluta perché ci mancano i codici di accesso e i nostri orizzonti mentali e intuitivi non reggono alla prova di ciò che immaginiamo come divino.

Paradossalmente è proprio la scienza, ritenuta verità oggettiva perché speri­mentale, a darci la lezione della sua stessa relatività. Solo le religioni non hanno la stessa umiltà, trincerandosi dietro l'alibi e i dogma della fede che, di per sé, non può essere ammessa al tavolo delle discussioni. Ecco perché la crisi delle coscienze altro non è che il punto intermedio fra la voglia estrema di razionalità e la caducità della fede, intesa questa come razionalizzazione dei bisogni e di realtà sicuramente possibili, ma troppo rozzamente e impropriamente calate nella dimensione temporale.

La crisi dei Valori di cui tanto a ragione si parla, è allora, in realtà, solo la crisi e l'obsolescenza dei Valori religiosi che erano stati usati nel mondo occi­dentale anche non cattolico, come modelli per gli stessi Valori civili e dunque laici in una promiscuità in sostanza indivisibile Questo tipo di caduta ha trasci­nato con sé l'intero castello normativo ed etico, quello che l'occidente si era dato come Valori e regole assoluti.

O, forse, parlando di Valori laici, dobbiamo dire, più coerentemente, che è in crisi il loro uso e non il Valore in sé perché tale?

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I Valori laici principali

Affermando la necessità dei "valori laici" dobbiamo però accordarci sul significato di tale espressione. Per Valori laici devono intendersi i Valori espres­si direttamente dalla Persona in quanto tale e che, successivamente, una civiltà pone a base della convivenza sociale, intendendo per tale anche quella che si esprime nella comunicazione relativa al mondo interiore dell'uomo, dunque comprensivi anche della sua natura cosiddetta spirituale, del tipo effetto feedback. La possibilità e la capacità di esprimere Valori (che saranno definiti "spi­rituali" o "ontologici") sono insiti dell'uomo, cioè intrinseche alla natura umana. La cultura può stimolarne l'estrinsecazione che altrimenti resterebbe latente e quindi modellare e meglio definire questi Valori adattandoli alla situazione sto­rico-sociale e altri aggiungendone per una serena e giusta convivenza fra gli uomini (il Diritto, la Giustizia, i Doveri, ecc.). Se l'uomo non possedesse in nuce una cosiddetta morale naturale non si spiegherebbe perché anche presso società primitive e tribali vigono egualmente regole e logiche intenzionali di chiara fina­lità etica o come mai sia sorta la stessa intenzionalità morale all'interno dei pro­cessi cognitivi, indipendentemente dalla finalità che può anche essere inaccetta­bile quando lede i diritti e le libertà altrui.

Comunque per la maggior parte dei laici il laicismo si fonda sul razionalismo assoluto che respinge ogni rivelazione divina, sostenendo sia che non c'è nulla che trascende l'uomo (né lo Spirito né Dio) e sia la libertà assoluta, pur conte­nuta nel rispetto dell'altrui medesima libertà, per cui il laicismo è, per molti ma non per tutti, ateo o agnostico. E' evidente che il laicismo rigetta ogni ingerenza delle religioni nella vita pubblica, ma ne rispetta le loro esistenze purché non interferiscano nella vita pubblica influenzando direttamente o indirettamente il Diritto e le Leggi democratiche: "Il laico è l'uomo di ragione, sostiene Bobbio, il credente è l'uomo di fede".

Tuttavia sul laicismo devono essere dette almeno due cose. La prima è che non è vero che i laicisti siano necessariamente atei. Chi scrive, ad esempio, non lo è, anche se non crede nel Dio biblico. I laicisti sono sostanzialmente per l'in­dipendenza dello Stato rispetto alle religioni: il problema sulla natura spirituale dell'uomo, per un laicista dialettico, è un problema aperto e tutto da discutere addirittura urgentemente.

La seconda cosa da dire è sul significato concreto del termine, nel senso che per la Chiesa cattolica, ad esempio, il laico è chiunque non faccia parte del clero, dando per scontato che la popolazione, per esempio dell'Italia, sia in ogni caso cattolica solo perché battezzata. In realtà il problema è antico e complesso ed è un fenomeno che parte dalla costituzione dello Stato moderno come potere pub­blico indipendente da ogni potere religioso e si rafforza con l'Umanesimo e il Rinascimento attraverso la laicizzazione della cultura (Nicolo di Cusa, Copernico, Galilei), cioè con l'avvento della scienza e della sua autonomia. Sul piano del diritto, l'operazione di autonomia dalle religioni, peraltro era già cominciata con Accursio (1184-1260) il quale aveva affermato che il giurista non è un teologo perché tutto è già scritto nel diritto stesso i cui principi, dirà poi nel XVII secolo Huig van Groot (Grozio) sono naturali, nel senso che sono vali­di anche se Dio non esiste. E' all'interno di questo rapidissimo excursus che dun­que è chiarita una differenza fra laici e laicisti, intendendo i primi quali cattoli­ci non ecclesiastici e i secondi coloro che si pongono al di là del cattolicesimo anche se battezzati (atei e non atei). Va aggiunto che, indipendentemente dal­l'essere atei o non, resta fortemente in piedi, per i laicisti, il principio della non ingerenza delle religioni nella vita pubblica e nelle vite personali: nella fattispe­cie, per quanto ci riguarda, l'islamismo e il cattolicesimo che sono le più intol­leranti e agguerrite.

Del resto è proprio vero che i Valori naturali siano così contrari ai Valori di una religiosità matura e non invasiva della coscienza critica?

Ho cercato di raggruppare, in una sorta di inventario che però è solo un esem­pio a schema aperto, i bisogni e i sentimenti comuni capaci di coinvolgere anche gli aspetti profondi dell'individualità e della collettività. Ne è scaturita una scala di Valori e di Principi, elencati senza un ordine preferenziale tranne i primi cin­que, che si potrebbero considerare propedeutici.

Valori e principi laici (morali ed etici):

(1) - L'autocoscienza come capacità di specie

(2) - II soggetto maturo come produttore di morale

(3) - La libertà matura

(4) - Rispetto per la libertà matura dell'altro

(3) - La vita come processo di conoscenza, di crescita e di cambiamento

(4) - La difesa della vita cosciente e della Persona

(5) - La libertà della scienza e della cultura

(6) - L'autorealizzazione come bene non ludico

( 7) - La giustizia sociale, economica e giuridica: l'eguaglianza dei diritti e

dei doveri

( 8) - II diritto individuale alla ricerca del sacro e del divino ( 9) -La famiglia matura in alternativa alla famiglia prigione

(10) - L'onestà intellettuale e sociale

(11) - L'amicizia

(12) - La lealtà

(13)-L'onestà

(14) - La non possessività (delle persone e dei beni)

(15) - La lotta ai razzismi e ai pregiudizi

(16) - II superamento dei narcisismi e degli egoismi, del fondamentalismo e

delle intolleranze (individuali, sociali, religiose e politiche)

(17) - La crescita e la trasformazione individuale

(18) - La crescita e il benessere sociale

(19) - La pace interiore e la pace sociale

(20) - L'umanizzazione delle scienze e delle burocrazie

(21) - II diritto di proprietà del proprio corpo e della propria mente

(22) - La cura di sé e degli altri

(23) - La solidarietà umana e la tolleranza

(24) - La lotta all'ingiustizia e all'oppressione in tutte le loro forme: sociali,

familiari, religiose ed economiche

(25) - La ricerca interiore, l'esperienza e la crescita ontologica di sé

(26) - La coscienza del piacere quale fonte di conoscenza e di alternativa al

lavoro e alla sofferenza

(27) - La dialettica della comunicazione

(28) - La liberazione dai tabù

(29) - Visione della vita in termini conoscitivi e non di perdita o di successo

o di denaro

(30) - La disponibilità e democraticità caratteriale

(31) - Lo studio e il lavoro

(32) - Rispetto per il lavoro di trasformazione e di crescita matura degli altri

(33) - Capacità di lasciar crescere gli altri anche attraverso le prove negative

e la sofferenza

(34) - Avere curiosità conoscitiva ed esperenziale

(35) - Capacità a non vedere gli atti come bene o male, ma come esperienza

di crescita (ma rispettando l'integrità e la libertà degli altri)

(36) - Amare il gusto e combattere l'aridità intellettuale e fisica

(37) - Darsi agli altri abbandonando le difese

(38) - L'autonomia dello Stato di diritto rispetto alle religioni dogmatiche

(39) - La ricerca della verità e della giustizia sopra ogni cosa

(40) - La morale privata come diritto e l'etica pubblica come dovere

(41) - Non avere troppa paura della morte

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Da tutto quanto finora detto appare chiaro che i Valori, almenchè non scaturiscano da principi giuridici e democratici concepiti per una convivenza civile (e dunque costituiscono le Leggi), non s'impongono, si accolgono nel consenso dialettico; e nel consenso diventano stato di coscienza morale e "patto sociale responsabile" al di là del diritto stesso.

La Storia poi ci insegna che una civiltà, nel senso etico rispettoso della libertà e della giustizia, non si costruisce, nemmeno con le norme dei codici, ma attra­verso processi dialettici legati alla naturalità delle coscienze che si confrontano. A ben riflettere, nel corso dei secoli, ma specie negli ultimi decenni, abbiamo conquistato più diritti e più libertà, più conoscenza del mondo fisico, ma non una maggiore maturità e più coscienza sociale o una più profonda crescita interiore.

Verificando a ritroso, a cosa sono serviti, eticamente parlando, migliaia di anni di leggi, di religioni, di filosofie o di progresso scientifico se non sono stati capaci di creare negli uomini nemmeno i Valori della solidarietà sociale e del­l'etica pubblica? Se, infatti, la solidarietà esistesse (non quella sollecitata dagli appelli televisivi ogni volta che c'è una catastrofe) gli Stati non lascerebbero morire di fame tanti milioni di esseri umani e la politica non si sarebbe trasfor­mata in un frazionamento di poteri che spesso decade nello sfruttamento, nel furto e nella rissa incivile. Al livello familiare e individuale tutto è sempre più confuso. Infatti, parliamo ai nostri figli di solidarietà, d'altruismo, ma poi agia­mo in modo completamente opposto a ciò che predichiamo. Creiamo sovra­strutture etiche fasulle che poi, con i fatti smentiamo quotidianamente. In due­mila anni l'Europa, pur cristianizzata, non è riuscita a creare un sentimento sociale d'amore e neppure a sviluppare la semplice solidarietà fra gli uomini. Di chi è la colpa? Delle società cristiane che non hanno avuto quella sufficiente "fede" per viversi il cristianesimo anziché la sua pedissequa predicazione? Se il cristianesimo non è stato, né è congruamente vissuto dai cristiani non è certo colpa dei laici o delle idee socialiste o della modernità o della progressiva tecnologizzazione del mondo. La crisi del senso cristiano della vita è cominciata già subito dopo i primi protomartiri, gli ultimi eroi, già epigoni di una religiosità forse utopica per questo pianeta di scimmie intelligenti. O forse più che di crisi del cristianesimo dobbiamo parlare di sfiducia nella burocratizzazione delle reli­gioni che hanno trasformato il martirio dei fondatori in abili strumenti di potere, in holding finanziarie con principi etici di dominio sopravvissuti grazie all'o­mertà dei i suoi stessi membri?

La crisi dei valori

Oggi qualsiasi tentativo cosiddetto pedagogico intorno al problema dei Valori rischia il fallimento perché tutto è diventato inestricabile, complesso e difficilissimo da modificare, come si può leggere sia pure attraverso pochi ma significativi dati.

Secondo le statistiche, oggi, un giovane vede la televisione per quattro ore al giorno. Ogni ora i programmi televisivi trasmettono mediamente due morti pro­vocate. A diciotto anni un giovane ha visto circa 40.000 morti, oltre quelli dei films del circuito cinematografico o trasmessi dal telegiornale.

Un'inchiesta su 883 ragazzi dalla terza elementare alla terza media, in pro­vincia di Bologna, addirittura ha evidenziato che il 25% vede la televisione per ben sei ore al giorno. Forse a 18 anni un giovane non ha mai visto un morto vero, un morto in carne e ossa della realtà non virtuale. Nell'esperienza dei nostri gio­vani è dunque presente continuamente la morte spettacolo e raramente la morte concreta. Ma la morte spettacolo è asettica, senza dolore affettivo, senza emo­zione, spesso immediata, senza agonia, tìa scritto giustamente Vittorino Andreoli, noto psichiatra che ha studiato molto bene l'universo giovanile, che i morti televisivi sono presentati in modo estetico, telegenico, addirittura grade­voli, quasi divertenti, temporanei, con l'autore che magari risorge, come a tea­tro, e saluta il pubblico con un inchino.

E' in atto una deformazione mentale. Al giovane è stata sottratta l'emozione della morte accompagnata dal dolore della perdita, dalla nostalgia, dalla passio­ne, dai sensi di colpa per amori non dati al morto, per parole amorose non pro­nunciate. Il giovane è quindi abituato ad una morte virtuale senza significato. Se anche la morte produce Valori, primo fra tutti la meditazione sulla vita stessa -perché la capacità di meditazione (come capacità riflessiva esistenziale) è un Valore - non c'è dubbio che il giovane, meccanizzando la morte televisiva, tra­sferisca nel rapporto affettivo la stessa psicologia interiore d'indifferenza, poiché per lui la morte spettacolo ha influenzato il sentimento del morire, un morire che ha sempre seguito dalla poltrona con una coca cola da sorseggiare.

Qualcuno ha mai collegato queste riflessioni con le morti del Sabato sera, spesso conseguenza di meccanismi imitativi inconsci relativi ad eroi che stanno sempre in piedi, anche se crivellati di pallottole e saltano con le auto senza capottarsi o se si capottano escono indenni dalle lamiere distorte?

Purtroppo è impossibile parlare, nel dettaglio, di tre grandi inchieste sociologiche, la prima al di sopra d'ogni sospetto perché promossa dal "Comitato Preparatorio del XXIII Congresso Eucaristico Nazionale nella prospettiva del Giubileo 2000, l'altra dalla "IARD" un istituto di valore internazionale, attivo fin dal 1961 e la terza del "CENSIS". Ma alcuni dati bisogna necessariamente tenerli presente se si vuole capire la differenza fra concreta realtà sociale e realtà virtuale -non solo televisiva o di Internet - per la quale, apparentemente, tutto sembra procedere per il meglio solo perché, intorno a noi, a parte la società mafiosa e camorristica, la società sembra ancora rispondere ai modelli etici della tradizione e rifiuta i segni della disfatta di cui è direttamente responsabile.

Emerge da queste inchieste che si è verificato quello che il Censis aveva già evidenziato 15 anni fa, e cioè che ormai è "giunto a compimento l'operazione di sganciamento dal passato, come complesso cioè di norme di comportamenti e d'appartenenza trasmesse fin dalla nascita. Uno sganciamento realizzatosi in modo indolore, cioè senza complessi di colpa, senza l'ansia di liberazione come invece era accaduto negli anni 70, vale a dire come reazione sessantottesca di lontana memoria: in un certo senso l'operazione si è svolta in modo deculturalizzata, senza passione, probabilmente senza una cosciente volontà partecipativa.. Probabilmente ciò è accaduto in questo modo perché è cessata la resistenza al cambiamento nelle famiglie stesse: la famiglia, infatti - è l'inchiesta cattolica a dirlo - oggi, nel 45% dei casi non sa più trasmettere valori e ideali forti, men­tre il 60% delle famiglie stesse non ha strumenti adeguati per veicolare saperi e conoscenze e per decifrare la realtà.

La famiglia è ormai completamente allo sbando come istituzione ed ha cessato da tempo, in realtà, di rappresentare quel terminal cui approdare nel corso dello sviluppo perché i genitori sono troppo occupati a gestire i loro menagers, i loro rapporti, le loro disoccupazioni mentali, le loro ansie e depressioni, per essere naturalmente presenti, sempre se lo sapessero fare, nella delicata fase dello sviluppo infantile e della successiva adolescenza.

La diagnosi dei sociologi è ormai perentoria: all'inizio del nuovo millennio la famiglia è la grande assente sulla scena del mondo.

Ma anche la presenza sarebbe irta d'insidie e pericolosamente patogena. Lo sanno bene tutti coloro che vivono lo sviluppo infantile in famiglie letteralmen­te incongrue e psicologicamente stressate che trasformano il rapporto con i figli o in un'indifferenza pedagogica o in una pura violenza oltre che in una dipen­denza. Tanti di' noi, pur d'altre generazioni, ricordano bene gli stessi drammi, le stesse infelicità. Anche se tutto è andato discretamente e se siamo stati più for­tunati, egualmente abbiamo vissuto contraddizioni, paradossi e ipocrisie a non finire perché le nostre famiglie ci hanno parlato di Dio e non lo abbiamo mai visto né sentito; ci hanno parlato di fratellanza, ma contemporaneamente ci hanno messo in guardia dal prossimo mentre intorno a noi non abbiamo visto altro che scannamenti e ladrocini; ci hanno parlato di giustizia ma hanno anche assicurato che la giustizia non è di questo mondo; ci hanno insegnato che la famiglia è tutto, ma ci hanno mostrato solo conflitti, gelosie, contrasti, possessività, lasciandoci frastornati, intontiti, sbigottiti, praticamente senza modelli autentici cui riferirci per capire la nostra vita. Quali ideali forti - a parte l'auto­ritarismo dei padri - ha, infatti, incarnato la famiglia tipo del passato se, poi, non abbiamo fatto altro che guerre e colonialismi contro popoli liberi e spesso anche inermi trasmettendo ai figli solo ideali di morte, di violenza e di sopraffazione del più debole? Erano questi i Valori? E' per questo che veniamo al mondo? E' per tutto ciò che, come retoricamente si predica, deve valer la pena di vivere? O predichiamo con leggerezza queste cose perché siamo in Europa e non viviamo in Cambogia o in India o nel Vietnam o in Albania, per cui tutto sommato abbia­mo ancora Tribunali regolari, i negozi sfavillanti, i teatri aperti e la sera, vivad­dio, non tutti ma alcuni di noi, possiamo andare in pizzeria e goderci una sera­ta, rapinatori permettendo?

Eppure, nonostante tutto, siamo molto convinti che la famiglia resta un pre­sidio fondamentale, il nucleo principale della società e l'ambiente naturale dove le generazioni dovrebbero crescere e formarsi. Ma per famiglia non si intende una casa di mattoni con salotti e quadri alle pareti e il conto in banca, ma un nucleo di persone mature e responsabili. Non, dunque, le famiglie che vediamo intorno a noi fra gli stessi nostri amici o, naturalmente, anche le nostre, e nep­pure quelle tanto perbeniste e cristianizzate o quelle che vivono nella memoria dei nostri nonni e che erano peggiori quanto le nostre. Quelle famiglie, tanto sospirate e rimpiante, con la loro passiva irresponsabile acquiescenza, o con la complicità, questa volta responsabile e attiva, per limitarsi solo al secolo che appena ci ha lasciato e nella sola Europa, sono state generatrici di almeno due guerre mondiali tragiche, di rivoluzioni sanguinose, d'occupazioni e repressioni coloniali, per non parlare dell'olocausto ebraico con i milioni di morti innocen­ti. All'interno dei nuclei familiari queste famiglie, attori o comunque complici di una società finalizzata al profitto e ai nazionalismi, all'esterno apparivano unitarie e compatte in modo ingannevole, perché i padri, quasi sempre molto più adulteri delle donne, non erano in comunicazione dialettica con i figli: fra loro vigeva lo spartiacque del silenzio appena mediato dalle mamme, a loro volta tra­fitte in ruoli subalterni e nevrotici, ma retoricamente salutate "madri" nel con­testo falsificante della religione popolare e dell'immaginario.

Oggi la scena del rapporto genitori-figli si ripete, anche se su altre basi. La stessa inchiesta cattolica riconosce che forse, oggi, c'è più colloquio in alcune tipologie di famiglie acculturate, ma dove c'è, concerne cose banali (sport, cro­naca, avvenimenti del quotidiano). La conferma di ciò è che i giovani reattiva­mente comunicano solo con gli amici come accadeva anche nelle vecchie gene­razioni. Il valore dell'amicizia, infatti, ha superato il legame con la famiglia nel!'82% per cui i gruppi esterni sono diventati il luogo dove il giovane può esprimere la propria emotività e affettività.

La stessa religione è posta agli ultimi posti al pari della politica, per cui è evi­dente in modo solare, che negli ultimi decenni si è accentuato il processo di secolarizzazione dai nonni ai nipoti e ciò è da intendere come il venir meno della credenza nel divino riferito alle religioni organizzate, prima fra tutte quella cat­tolica. L'analisi mostra una consistente e continua caduta dell'atteggiamento sacrale istituzionalizzato e l'emergere di un processo di privatizzazione della religione che si forma sulle convinzioni personali e private. Curioso è il dato emerso da quest'estesa indagine, perché sono diventate patrimonio comune, fra i cattolici stessi, Valori verso i quali la Chiesa è tuttora intollerante.

Tra i praticanti cattolici (di cui il 60% è di sesso femminile), dunque non fra i cattolici in generale, solo il 30,8% riconosce che a dar senso alla vita è la fede cattolica e solo il 30% da importanza alla religione per cui una lettura onesta mostra che l'adesione religiosa è ormai un puro rituale che nulla ha da spartire con la presa di coscienza reale e concreta, cioè con la partecipazione affettiva alla propria religione ufficiale. A confronto, il Rapporto IARD evidenzia che il 90% dei cattolici non ha fiducia nei sacerdoti e il 62% non ne ha nel clero in generale.

Sono dati su cui è necessario meditare perché sovvertono l'opinione genera­le che la Chiesa parli al suo gregge e che esiste effettivamente un popolo di Dio o, nello specifico, un popolo di cattolici. In realtà le analisi ci affermano che esi­ste un popolo anonimo carico di problemi per i quali occorreranno confronti chiari che non partano dai pregiudizi di possedere le verità e tanto meno di voler sanare l'Europa ripartendo dalla Bibbia, (3) cioè da un testo che può ben stare in una biblioteca antiquaria, ma che nulla ha da spartire con i problemi del mondo contemporaneo e dei suoi abitanti.

Il mondo dei valori giovanili

Nel complessivo discorso di ciò che ormai è indicato come "caduta dei Valori", è evidente che dobbiamo interessarci in modo prevalente del mondo giovanile perché è qui che riscontriamo tutta la gravita della situazione.

Sorvolando su numerosi altri dati, che pur sarebbero interessanti, le citate inchieste rilevano che la gioventù odierna sembra mostrare che, purtroppo, tende alla resa di fronte alla complessità del mondo e rinuncia ad usare la ragione per capire e penetrare la complessità delle cose. I giovani appaiono disorientati e sono quindi facile preda d'ideologie estremiste, di destra e di sinistra (specie quelli che rappresentano miti e disincanti irrazionali) e sembrano aver maturato una sorta di sospensione perenne, uno stato fatuo o limbico che tende a prolun­gare indefinitivamente la giovinezza nelle case-albergo dei genitori da dove entrano ed escono come in una dissolvenza filmica, vivendo lealtà multiple sem­pre più virtuali in gruppi gestiti da leader pressappochisti e superficiali - ma che incarnano i loro bisogni - i quali li impacchettano in abiti e mode come divise militari. Paradossalmente, ma comprensibilmente, i giovani rifiutano l'autorità genitoriale ma sono pronti a subirla da un leader qualsiasi senza qualità e senza passato che, però, diventano i nuovi feticci e i nuovi referenti. Questi giovani sono pronti ad uccidere il padre in effige, ma esaltano i modelli e le mode dei propri capi, anche se despota in negativo e senza un programma sociale. I gio­vani sono affascinati da chi si sentono condivisi, anche se somari, e sono porta­ti all'imitazione perché l'imitazione è un processo naturale per la loro età. I dati statistici ci dicono anche che i giovani non leggono né libri, né giornali, non s'in­teressano di politica, e ciondolano per ore, nelle ore serali e notturne, raggrup­pati davanti ai locali, spesso senza neppure parlare fra loro. Non a caso nel 60% del campione giovanile è presente l'alcool, mentre nel 31%, quasi uno su tre, è invalso l'uso di droghe leggere con un'esposizione al rischio che aumenta col benessere. Ma un restante 14%, pur non avendo mai preso droghe, ha ammes­so di sentire il desiderio di provare per cui, complessivamente, se dovessimo riassumere, possiamo affermare che si è verificato uno spostamento sensibile d'alcuni Valori considerati tradizionalmente importanti ma anche una straordina­ria promiscuità fra valori negativi e altri che sono da ritenersi molto positivi anche se non vissuti in modo maturo e non sempre riconosciuti come conquiste di libertà: al di là di ogni giudizio, i rapporti prematrimoniali, l'aborto, la con­vivenza provvisoria non vincolata al matrimonio, il divorzio, l'associazionismo, l'uso di droghe leggere e fra poco l'omosessualità, il primato dell'amicizia rispetto alla famiglia e l'abbandono delle religioni con lo sviluppo di dimensio­ni morali e religiose private, sono diventate pratiche e valori entrati a pieno dirit­to nella morale comune.

In realtà l'aspetto più grave è la persistenza dei modelli genitoriali sganciati dai bisogni reali dei giovani e dall'incapacità antica di incrociarsi con i figli in processi dialettici di scambio e di maturità fra giovani e adulti. Per cui, alla fine, non è tanto importante che i giovani si facciano stupidamente fagocitare dagli amici (questo è sempre accaduto), quanto il fatto che non riescano i genitori a rendersi oggetti se non preferiti comunque alternativi, partecipando in tal modo, in prima persona, alla vita dei figli. In questo discorso, che potrebbe apparire finanche banale ma non lo è, si deve tener presente che i genitori sono solo appa­rentemente adulti e sono a loro volta in profonda crisi esistenziale comportan­dosi a loro volta come altrettanti figli in crisi rispetto alla loro generazione pre­cedente: oggi un giovane padre di trent'anni, con l'allungamento della vita, si autodefinisce ancora un ragazzo, con tutto il carico di immaturità relativo.

Valori e alienazioni

Ancora una riflessione fondamentale.

Essendo caduti, o sostanzialmente mutati alcuni riferimenti o Valori, oggi l'uomo si è trovato senza bussola perché nel corso dei secoli è stato espropria­to di un Valore fondamentale, direi primario per la specie intelligente quale noi siamo, cioè dell'autocoscienza critica, soprattutto rispetto ai grandi temi della vita. L'autocoscienza critica è un Valore naturale che, se utilizzato fecondamen­te, crea anticorpi mentali in grado di assorbire mutamenti sociali ed etici anche rilevanti, senza cadere in quel tipo di crisi anonima e pericolosa che determina depressione o il mal di vivere.

Tuttavia è lecita la seguente domanda: sono i cambiamenti sociali a porre in crisi i Valori tradizionali oppure sono stati i Valori tradizionali in crisi perché superati da una società in veloce e continuo movimento, ad aver generato i cam­biamenti? Oppure il cambiamento (che per alcuni conservatori è già una vera caduta) dei Valori è la conseguenza del processo di razionalizzazione delle scien­ze dall'illuminismo ad oggi?

La libertà è indubbiamente una conquista ed è, sia pure solo in teoria, alla base delle etiche di tutti i tempi. Sicuramente è la pulsione alla libertà la causa primaria dei cambiamenti in qualsiasi direzione e campo d'attività, di pensiero e di comportamento umano. Non c'è persona o popolo che non abbia combattuto e combatta per le libertà, sia pubbliche sia private, per cui parlando di libertà par­liamo certamente di un bene primario perché attiene alla Persona, alla sua dignità, alla sua esistenzialità. Ma libertà significa anche la capacità e la possi­bilità mentale di produrla, di pensarla, di desiderarla e, infine, di perseguirla. Cioè la libertà è un bene che deve essere inculcato sin dalla nascita come prin­cipio e come progetto di vita, altrimenti non solo non si produce, ma non è nep­pure pensata e coscientemente desiderata. Ne consegue che libertà significa capacità di produrre atti critici non influenzati dalle volontà e dalle pedagogie esterne, dunque capacità di poter scegliere fra diverse opzioni o di poter pen­sare attraverso soluzioni critiche soggettive. Se l'uomo, come diceva Aristotele (Et. Nic., 111,5,1113,b 10) è "il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi figli", ne deriva che la libertà non richiede "una causa estranea, giacché il movimento è in nostro potere e dipende da noi, diceva Cicerone, né perciò è senza causa, dato che la sua causa è la sua stessa natura" (De Fato, 11). Tuttavia, partendo da queste premesse, una società reclama una libertà matura e non l'arbitrio. Hegel, infatti, affermerà che "l'arbitrio del singolo non è libertà" e dunque la società deve limitare quella parte della libertà che è l'arbitrio "con­cernente il momento particolare dei bisogni" (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, I, pag. 90). Che cosa si è invece verificato? Si è verificato che il princi­pio della libertà così variamente predicato negli ultimi decenni (e che è nomina­to impropriamente finanche dai regimi totalitari e dalle religioni fondamentaliste) viene sancito come principio, ma è rimasto tale in teoria, cioè non si è matu­rato nella prassi reale e nella formazione delle vite individuali, non ha quindi prodotto la trasformazione delle coscienze dalla nascita alla fase adulta, non si è simbolizzato nell'inconscio. E', anzi, avvenuto il contrario. Per secoli l'uomo è stato plagiato fin dalla nascita e gli è stato fatto violenza con la rimozione delle pulsioni e gli è stata inculcata l'obbedienza ai padri e alla tradizione. Come pote­vano i contemporanei, liberati troppo di colpo, in pochi decenni, dagli obblighi verso la tradizione, produrre libertà matura e non cadere nella depressione e nella crisi d'identità? Una volta i parametri di controllo, attraverso i quali si dominavano gli istinti, i bisogni e i desideri, erano tutti nella forza dei miti, ma i corrispettivi simboli oggi caduti non erano mai stati dentro di noi, erano stati assunti come modelli esterni da seguire in obbedienza, non erano convissuti con i nostri convincimenti profondi, si erano limitati a restare nel preconscio, pronti ad essere rigettati ad ogni occasione (4). Perciò quando la modernità e la tèchne hanno sorpassato la volontà del soggetto, questi si è trovato sprovvisto degli strumenti di resistenza. Sul piano concreto la conquista di una maggiore libertà ha trovato i soggetti privi sia di un approccio dialettico sia di una resistenza reale, con atteggiamenti difensivi solo formali, per cui la libertà è stata ed è vis­suta con immaturità e quindi con distorsione dell'identità, spaesamento, perdita di senso della vita, suicidio, depressione, droga, devianza, aumento delle nevrosi, impotenza sessuale, sfaldamento della famiglia e della coppia, indifferenti­smo morale, incapacità di vivere, trasformazione passiva dei Valori e dei bisogni fino all'affermazione, specie fra i meno giovani, del dio danaro come unica mercé di scambio.

D'altra parte il processo in corso è chiaramente leggibile. Fino a qualche decennio fa siamo stati il prodotto di un'alienazione dovuta a tradizioni e miti che hanno dettato tutte le regole, per passare attraverso una fase liberatoria (per esempio il '68) alla quale è subentrata un'altra alienazione dovuta allo sviluppo impetuoso della tecnica e alle leggi dell'economia dei mercati controllati dalle grandi lobbies internazionali.

Probabilmente è lo scotto che una civiltà deve pagare quando da un contesto repressivo secolare passa ad un contesto sociale vissuto idealmente come libera­zione dai tabù, sia pure per ricadere in altri tabù di segno opposti ai precedenti che si sostituivano, ma sempre restando tabù, cioè obblighi psicologicamente coattivi perché bypassano la scelta critica matura. Le persone affermano di voler essere se stessi, ma si tratta molto spesso solo di affermazioni velleitarie perché inconsapevolmente esse ricadono nella dipendenza di leader esterni o dei mec­canismi manipolati dalla politica e dalla pubblicità, dallo sport, dal piacere ludico. La psicologia dovrebbe tener conto in modo più pregnante, io credo, che la guarigione dalle nevrosi, se di guarigione vogliamo seriamente parlare, deve allora passare non solo attraverso la rimozione del sintomo, quanto attraverso una weltanschauung centrata sulla persona, anche se questo costa, in termini di neutralità terapeutica. I giovani - e questo è, credo, un aspetto positivo nella con­fusione dei Valori - cercano i Maestri, anche se ciò contraddice paradossalmen­te il bisogno di autonomia, e vogliono una società in cui ci sia più cuore e più anima, ma non sanno da dove cominciare. Ecco perché, di fronte ad una società ludica, cercano modelli che non siano quelli genitoriali incapaci di incarnare la le figure dei Maestri. Questi ragazzi, come ho scritto prima, escono e tornano dalle loro abitazioni perché oscuro è in loro il desiderio e la nostalgia del Padre,

ma vogliono sentirsi liberi, per cui si ancorano alle case-albergo dei genitori visti più come accuditori domestici, avendo sostituito le loro figure reali con i leader dei propri gruppi d'appartenenza, mostrando nel contempo sia un bisogno di autorità che non ripeta il modello dei genitori e sia, paradossalmente, l'ade­sione al gruppo realizzata attraverso l'imitazione dei comportamenti altrui, le mode e i segni di riconoscimento che omologano i gruppi esterni, con le fogge dei vestiti, i tatuaggi, i capelli, gli orribili scarponi, eccetera. Nulla di male nei riti esterni, ma purtroppo la cosiddetta libertà, troppo facilmente e gratuitamen­te conquistata senza lavoro individuale (che vuoi dire presa di coscienza), in realtà è vissuta imitando l'Io degli amici o dei miti contemporanei, allo stesso modo in cui a scuola copiavamo il compito di matematica o di latino senza capi­re nulla di ciò che copiavamo. Perciò la fuga dai modelli sociali ripropone oggi un'eguale ripetizione rituale: la discoteca, il bar, la panineria e i videogames su Internet protratti per ore nella più totale insignificanza. Nuovi luoghi dell'estasi e del gruppo, voglia di fede anche religiosa ma non istituzionale (5) trasfigura­zione di sé attraverso la droga, bisogno d'azione e di movimento continuo senza perseguire il modello di un Io ideale, per cui il tempo è senza un futuro, senza scadenze progettuali. (6)

Umanesimo forte

Che cosa significa umanesimo forte? Significa connotare del massimo senso possibile il principio dell'uomo padrone esclusivo di sé, della propria vita e delle proprie decisioni, poiché ciascun essere vivente, pur essendo simile agli altri, è uguale solo a se stesso ed è portatore del diritto individuale a costituirsi e mani­festarsi come coscienza personale entro la quale riconoscersi.

E cos'è allora il Valore? Un qualsiasi manuale di filosofia affermerà che per gli Stoici, com'è noto, il Valore era l'oggetto delle scelte morali riferite al Bene: ciò che è degno di scelta, diceva Cicerone, ma riferito alla Virtù mentre per altri è la proprietà di qualcosa, così come la sensazione di dolce è la proprietà dello zucchero.

In questi ultimi secoli il concetto di Valore, in parte, oscilla tra una formula­zione metafisica o assolutistica (che vede il Valore staccato dall'uomo per sottrarlo alla critica supponendosi Valori universali) e un significato di Valore stret­tamente correlato all'uomo o al mondo umano. Nel primo caso i Valori tendono a definirsi come perfetti, universali, eterni, immutabili, regole assolute di vita. E' noto che è con Nietzsche che questo principio si inverte. In "Ecce Homo" Nietzsche, infatti, muove guerra ai valori eterni, specie della morale cristiana e afferma i Valori della vita, i Valori vitali.

Purtroppo, nelle discussioni comuni, ma anche nella pratica, il Valore spesso diventa un concetto retorico o accademico, perde di significato perché è generi­co, astratto, evoca il merito, il bene, la bontà, il male, cioè categorie relative di comportamenti riferiti alla cultura e alle ideologie che lo definiscono. Ma è pro­prio così? Sono questi i Valori fondamentali del genere umano? Se siamo indif­ferenti ai sei milioni di bambini che muoiono di fame, ai suicidi, ai depressi, allora è caduto uno dei Valori primari di una specie vivente, cioè finanche la soli­darietà del branco.

E' bene dirlo a chiare lettere che la solidarietà vera non è quella televisiva dietro la quale c'è sempre una regia d'interessi, ma quella percepita e vissuta come sentimento affettivo, quella che implica uno stato di autocoscienza critica partecipativa e personale a carattere continuo, non soltanto quando ci commuoviamo perché ci fanno vedere i profughi e i bambini che muoiono di fame e, con abile regia, mettono in moto i nostri complessi di colpa e i nostri altruismi vir­tuali e occasionali.

Bisogna ripeterlo insistentemente: è l'autocoscienza il Valore Primario. Senza l'autocoscienza non si ha alcun altro Valore, ma solo un suo riflesso indot­to da un condizionamento culturale. Senza l'autocoscienza critica qualsiasi Valore è un falso Valore anche se ha i caratteri di una provvisoria verità diven­ta positivo, ma resta falso Valore proprio perché è stato indotto al di fuori del rapporto dialettico e della dignità della Persona.

I Valori, staccati dalla libera e matura cognitività della Persona e dalla sua partecipazione esistenziale, restano teorie che galleggiano in un limbo sopra di noi e sono dunque inefficaci sul piano sociale come la Storia e le singole vite umane continuamente ci mostrano attraverso tutta 1' inarrestabile violenza e sopraffazione dell'uomo sull'uomo. La controprova di quanto si è affermato prima è poi evidente nella nostra partecipazione agli eventi tragici: "Stacchiamo un assegno e, sollevati con questo gesto al di là della nostra cattiva coscienza, ci sembra di aver tacitato ogni complesso di colpa e dunque disinteressandoci com­pletamente, subito dopo, dell'uso che la comunità realizza con la nostra elemo­sina.

Non ci servono questi Valori. Non ci servono più perché in questo modo non hanno mai funzionato. E' inutile evocarli nella commozione del momen­to, o nell'emozione delle colpe dell'umanità, o perché vorremmo un Dio vivo e non un Dio morto o perché abbiamo bisogno di Maestri e confondiamo il bisogno di sacro con i riti e i tabù della religiosità organizzata, che in tal modo ha facile presa sull'emotività e sulla suggestione, ma che è limitata al momento del rito e non evoca le zone profonde dell'Essere, per le quali occorrono metodi di vita alternativi e livelli profondi che si educano attra­verso anni di trasformazione personale.

Ecco perché il Manifesto dei neo-umanisti, scritto nel '98 da questa Rivista (pubblicato nel n°4) pone fra i Valori primari il principio dell'autocoscienza cri­tica che ci separa dal mondo animale e ci trasforma in vera Persona assoggetta­ta alla Morale e all'Etica. Da questo Valore primario promuovono tutti gli altri, poiché l'autocoscienza è un Valore fondante, che costituisce il primo atto mora­le denotato di senso che la Persona ha acquisito differenziandosi dall'animale, ed è un Valore da cui, conseguenzialmente, nascono la cultura, le arti, la scien­za e attraverso il quale si manifesta lo stesso sacro (altro valore), cioè il mistero del nostro interno che chiamiamo l'enigma dell'Anima. (7) In questo paradigma filosofico, in questa struttura interna parallela alla mente computazionale, la coscienza interiore, è implicitamente coscienza intenzionale e rappresenta la guida, il Valore primario, la propulsione o addirittura il propellente da svelare e riconoscere.

E' un azzardare troppo affermare che nel mondo c'è troppa assenza d'Anima, c'è troppa assenza di cuore nella vita quotidiana dei contemporanei?

Non c'è alcun dubbio che l'uomo, contrariamente a quanto sostiene gran parte della filosofia contemporanea, esprime un reale bisogno di metafisica nel senso che l'uomo aspira, anche inconsciamente, alla conoscenza del sé interio­re. Questo bisogno è provato. Infatti, lo sviluppo della New Age e dei movimenti spiritualisti in genere, come alternativa alle religioni storiche e organizzate, comprovano non una fuga nell'ateismo (come potrebbe apparire dalle inchieste sociologiche) ma una fuga dalle religioni organizzate per rifluire in visioni per­sonali del mondo e dello spirito. Ciò significa, fuori d'ogni dubbio, che c'è una forte richiesta di nuovi significati, cioè che gli uomini inconsciamente cercano una nuova ontologia.

Hanno ragione, hanno torto? Si ingannano perché hanno paura della morte o perché vivere la radice interiore è una esigenza strettamente connessa alla Persona?

Sottolineando l'importanza dell'autocoscienza come Valore, noi vi abbiamo affiancato il principio di coscienza intenzionale (parallelo a quello di coscienza computazionale) che si sviluppa e si accresce nel corso della vita e il cui princi­pio oggi mette a repentaglio le teorie deterministiche dei filosofi della mente che interpretano la coscienza come epifenomeno dei neuroni. Non siamo di fronte al Super-Io di Freud ma alla capacità di interrogarci liberamente nella nostra stes­sa coscienza e da questa ricevere risposta. In tal modo si configura un fatto com­pletamente nuovo. Un sé che giudica se stesso e trova in se stesso le risposte non rispetto alle azioni, ma rispetto al suo stesso essere il pensiero interrogante. Così facendo il Sé diventa la voce morale intrinseca alla sua natura di sé. Non chiede fuori le risposte, le cerca nel suo dentro, ma nel suo dentro è come se interro­gasse qualcuno che quindi diventa l'Altro, l'Altro da sé, il Fuori da sé, nel miste­ro esistenziale dell'Essere.

Diversità tra morale e etica

Dopo tutto quanto fino ad ora esposto appare molto chiara una sostanziale differenza significante fra morale ed etica. La morale è il giudizio interno e per­sonale del soggetto umano, l'etica ne è l'aspetto pubblico che include anche le norme giuridiche della collettività. Il giudizio dell'uomo diventa, quindi, la capacità di giudicare il mondo e la propria esistenza indipendentemente dal comportamento e dal pensiero pubblico che devono conformarsi alle regole e alla cultura dominante. Questa classificazione, che prevede il Valore Personale contrapposto a quello pubblico, tiene conto che è il soggetto libero a creare e determinare la società, non viceversa. Anche quando la società costringe l'uomo alle sue regole, è sempre un soggetto che decide le norme (anche vessatorie), per cui la collettività, in teoria, dovrebbe essere il risultato dei pensieri individuali, senza i quali l'uomo non sarebbe altro che un robot ripetitivo senza dignità, senza individualità e senza personalità. E' ovvio che gli uomini democratica­mente (nelle società liberale, quindi a carattere non dittatoriale) delegano i propri rappresentanti a legiferare e dunque si piegano alle esigenze della collettività, ma tutto ciò non impedisce il possesso concreto della morale personale rispetto alle esigenze di un'etica pubblica.

Se è così, se le cose stanno così, se l'essenza della filosofia è di risalire ai principi, costi quel che costi, allora ci troviamo di fronte alla radice della essen­za che costituisce l'Io, per cui il desiderio ontologico di conoscere se stesso attraverso l'Altro (che è costituito dal Sé che interroga il Sé) non è una forma di intellettualismo teologico o filosofico o esclusivamente psicologico, ma rispon­de all'esigenza di un Desiderio di infinito, cioè all'esigenza di un principio morale naturale.

Naturalmente tutto ciò è attraversato dal lavoro della coscienza che cerca, dal dolore, dal piacere, dalla solitudine, perché ciascuno non può fare questo lavoro per un altro.

Ecco perché parlando d'umanesimo forte, noi vogliamo intendere il recupe­ro di una metafisica laica possibilmente scientifica (che, cioè, dimostra i suoi assunti teorici). Ciò significa passare da una filosofia della mente che teorizza una contrapposizione mente-coscienza superiore, ai bisogni fondamentali di un'altra coscienza che pressa per diventare linguaggio: cioè lo stato dell'essere come anima individuale, l'Altro che chiede la parola attraverso la proiezione morale e il linguaggio delle esigenze e dei bisogni. E' un azzardare troppo? E' un azzardare troppo elencare, al fianco del Desiderio di Sé e d'infinito, alcuni denotatori, alcuni precisi segnali come l'intuizione, la creatività, l'immaginario, la simbolizzazione, l'inconscio, la libertà, la capacità di raggiungere il silenzio interiore cioè l'astrattizzazione del linguaggio, fino alla progettualità morale? E' un azzardare troppo affermare che il riduzionismo scientifico della mente non ha spiegazioni plausibili per quest'inventario del Desiderio e delle Radici interiori?

E' questo l'umanesimo forte. Non un vago "umano", secondo un'accezione sociale e popolare, ma la rifondazione del soggetto espropriato, a causa dei fon­damentalismi culturali e religiosi, dalla sua natura critica e dalla sua essenza morale individuale.

Un umanesimo ancorato a Protagora, se proprio dobbiamo citare una pater­nità, per il quale è l'uomo "la misura di tutte le cose, "un uomo "pastore dell'Essere" (la felice espressione è di Heidegger) e, aggiungerei, non una socio­logia che faccia dell'uomo l'anonimo abitatore di una massa.

Appare allora evidente che, parlando di autocoscienza, noi vi sottintendiamo la libertà e alludendo al Sé interrogante noi ci trasferiamo nelle immagini di una libertà fattuale, non una libertà teorica come modello: cioè il pensiero come vita, non vita come pensiero. Che cosa significa pensiero come vita e non vita come pensiero? Vuoi dire che la vita dovrebbe essere niente altro - dato a Cesare quel che gli è dovuto - che la realizzazione del pensiero, mentre, invece, altro non è che un pensiero modellato da simboli, da prescrizioni, da tabù, per cui siamo tutti un po' come fotocopie di un modello unificato a priori che si può rompere solo attraverso la lotta, la disobbedienza. Naturalmente c'è il modello formale del mondo, con leggi e diritti, al quale, vivendo nella comunità, non possiamo e non dobbiamo sottrarci. Ma ne deriva che, di conseguenza, la realizzazione sociale non è un Valore, il lavoro invece sì, poiché è l'interiorità creativa il bene per eccellenza, qualunque cosa ne pensino i moralisti, perché è l'interiorità crea­tiva che ci autorizza ad esprimerci come Persona prevalendo sulla natura dei fenomeni. Di conseguenza l'auto-realizzazione consiste non nell'appropriarsi delle ricchezze e di beni sociali, ma nella crescita della maturità ontologica, nella installazione nel Sé di meccanismi liberi con i quali leggere il mondo e gli altri da orizzonti non oppositivi, superando le antitesi delle ideologie, dei fondamen­talismi e delle simbologie che essi determinano.

A questo punto il discorso passa, inesorabilmente, ancora una volta, attraver­so quello del Potere, perché i simboli sono l'espressione del Potere, perché pie­gano l'uomo al mito dell'obbedienza alla religione e alla cultura dominante. Non è un mistero per nessuno che il Potere si maschera e si nasconde o addirittura rifluisce nei simboli e con loro diventa "Valore" giungendo a piegare (senza che alcuno possa ribellarsi e utilizzando il complesso di colpa come reattivo) ogni uomo che appena tenti di conquistare la propria libertà. Dobbiamo dunque pren­dere coscienza che i simboli che ottundono la libertà e costringono all'obbedienza sono simboli necrofili al contrario di quelli che espandono l'Essere. I sim­boli, infatti, uccidono più della spada: ecco perché dovremmo parlare di nuovi Valori per la creazione di nuovi simboli laici: ne ha assoluto bisogno la famiglia, la prima a cadere sotto la spinta della modernità. E' appena da ricordare che il Potere, per secoli, è stato trasmesso solo ai padri come continuatori del Potere pubblico, attraverso l'introiezione dei simboli tradizionali. Un solo esempio fra tanti: non a caso, se un padre moriva, pater familias diventava il figlio, anche se ancora bambino, non la donna.

Con ciò si perpetuava (e si perpetua) il modello della famiglia tradizionale che oggi è in crisi anche perché continua a riproporsi con l'immaturità della cop­pia genitoriale come accadeva prima. Fino a pochi decenni fa, infatti, non la maturità del padre passava in primo piano, ma la sua autorità: la sua autorità avallata da un rigoroso coacervo di norme simboliche mai scritte, ma anche da una giurisprudenza che ha dato sempre ragione al maschio. Caduto il mito del padre autoritario e del falso padre, si è poi messo in evidenza che lo stesso rap­porto uomo-donna, proprio nella coppia istituzionalizzata, è sempre stato media­to dal potere delle regole e non dal potere dell'intesa, al punto che sarà Kierkegard a dire che l'amore vive là dove non c'è matrimonio, laddove non ci siano le ferree regole culturali. Questo significa che, originandosi da un rappor­to sociale di potere, all'interno della famiglia il dialogo uomo-donna - come scrisse anni fa Ida Magli - non è possibile. "Non perché sia andato perduto, dirà poi Levi-Strauss, ma perché non è mai esistito". Sia l'uomo sia la donna hanno finito col parlare soltanto di se stessi e con se stessi, in uno specchio, cioè narcisisticamente guardando solo la propria immagine riflessa, utilizzando l'altro come strumento per dar voce e consistenza al formale dato sociale dell'intesa e della comunicazione, ma è sempre mancato l'io-tu, il rapporto io-tu fondante che avrebbe dovuto costituire il senso comune della responsabilità come coppia e non come singolo. Le basi di quella cultura sono state ora in gran parte sradica­te, ma nessuno sa come fondarne altre, per cui i sociologi oggi ci dicono - come abbiamo già accennato - che è la famiglia la grande ammalata e la grande assen­te sulla scena dei Valori del duemila.

Già il '68, aveva tentato, per esempio con Marcuse, di fare un passo avanti per liberare la famiglia dal suo essere patologia di gruppo. Marcuse parlava di liberazione felice, ma non si può costruire senza prima distruggere, con un atto rivoluzionario, gli strumenti su cui cresce la patologia il cui fondamentale con­trassegno è l'impossibilità concreta di passare dal simbolo delle regole astratte e mitiche alla concreta realtà dell'operare in simbiosi per crescere sia come indi­vidui della famiglia e poi come intero gruppo. Vale a dire che la società si è seco­larizzata emancipandosi dai modelli religiosi ma non sono stati scardinati i sim­boli entro i quali transitano i cosiddetti modelli morali, per cui continuiamo a vivere fra equivoci e contraddizioni non disgiunti a gravi complessi di colpa, né si vuole prendere coscienza totale della grande domanda: come deve essere una famiglia e quali gli strumenti culturali perché esca dalla sua patologia?

Ovviamente stiamo continuamente citando la famiglia perché, nel contesto in cui stiamo parlando, essa è la spia evidente a tutti del malessere generale.

Ed è anche chiaramente desumibile che il potere non ha il coraggio di dele­gittimare il Valore di questo tipo di famiglia perché significherebbe delegittima­re tutta la cultura degli ultimi secoli che ne ha promosso e perpetuato il model­lo.

La commutazione dei simboli è la grande avventura dell'etica futura ed è la sola a garantire il cambiamento reale e non fittizio, liberando l'uomo dal com­plesso di colpa indotto dai vecchi simboli e restituendogli la forza della fede.

Ma quale fede? Il laico, essendo un uomo libero, ha prima di tutto fede nel­l'uomo e, anche se non lo riconosce, accetta la sua radice metafisica, il suo esse­re nell'ai di qua della ragione e nell'ai di là della sua interiorità. Cioè, con la fede nell'uomo il laico (che, ripeterò fino alla noia, non è necessariamente ateo come capziosamente si vuoi far credere) inconsapevolmente è nell'area astratta (ma visibile ai poeti, ai filosofi ed ai profeti) dove vengono meno le certezze della realtà poiché si trova di fronte alla complessità del suo mistero di vivente.

Il problema, oggi, non è se Dio è morto come proclamava Nietzsche, ma se è morto l'uomo, se già non è diventato un automa, se la trappola non si è chiusa completamente. Perciò Bertrand Russell poteva scrivere fin dal 1954: "da esse­re umano rivolgo un appello agli esseri umani: ricordatevi della vostra uma­nità e dimenticate il resto. Se così potrete fare, davanti a voi si spalancherà la strada verso un nuovo paradiso; altrimenti, nulla si aprirà davanti a voi se non la morte universale".

Russell è un uomo libero, esattamente come sono liberi Adamo ed Èva nel mito giudaico e com'è libero Prometeo in quello ellenico: ambedue i miti con­cepiscono la civiltà umana fondata sulla disobbedienza, quella che noi oggi defi­niamo lo scardinamento delle sovrastrutture per cercare le radici interiori.

Rubando il fuoco agli dèi, Prometeo costruisce le fondamenta dell'evoluzio­ne e della civiltà umana. Non ci sarebbe storia, ricorda Erich Fromrn, "senza il delitto di Prometeo. Il quale, al pari d'Adamo ed Èva, è punito per la sua disobbedienza, ma Prometeo non si pente, non chiede perdono. Al contrario, afferma orgogliosamente di preferire l'essere incatenato a questa roccia che non il servo obbediente degli dèi".

E così sia anche per noi, perché imparando a dire di no, noi costruiamo la nostra individualità e la nostra libertà e conosceremo il mondo in prima perso­na, non con gli occhi degli altri che neppure ci conoscono e decidono della nostra sorte morale dicendoci ciò che dobbiamo fare, ma in prima persona, com'è giusto che sia.

Note:

• Parte cospicua del materiale di questo saggio ha formato oggetto di con­ferenze, tenute dall'Autore presso l'Università di Padova, Facoltà di Sociologia, il 23/3/99, ripetuta il 24/3/99 a Milano (organizzata dall'Associazione ANEB) al Palazzo dei Congressi di Via Magenta, il 26/4/99 nella Biblioteca del Liceo Classico "De Sanctis" di Salerno, il 19/5/99 a Venezia alla Fondazione Guggenheim, il 26/10/2000 al Convegno del Dipartimento di Neuroscienze e Scienze della Comunicazione, dell'Università di Napoli Federico II.

1) -Ancora oggi il Cardinale Carlo Maria Martini, in un intervento alla Commissione Trilaterale di Milano dei primi di novembre di quest'anno, anacronisticamente propone la Bibbia come "il libro che sta alle radici della grande unità spirituale europea che nac­que verso la fine del primo millennio. " E inoltre che "la Bibbia è il gran libro per il futu­ro dell'Europa, non solo per le Chiese cristiane europee, ma anche perché è in grado di dare fondamento e nerbo ad un dialogo interreligioso profondo e sincero". Immagino che ci si riferisca anche al Nuovo Testamento, per cui la proposta complessiva sarebbe quel­la di andare a parlare con altre fedi religiose partendo dal presupposto che il cristianesi­mo e il primato di Roma siano la pietra di paragone cui riferirsi intorno ai tavoli delle discussioni.

2) In un articolo su "Repubblica" (21 novembre scorso), Carlo De Benedetti si mostra ottimista rispetto al potere comunicativo d'Internet il quale sta producendo una trasformazione storica. Ma bisognerà verificare fra qualche anno se tale possibilità di riunire gli uomini, non resti un'esperienza solo virtuale priva di scambio esperenziale nella realtà. La vigilanza del socio-filosofo dovrà essere continua, perché il virtuale tota­le significherebbe un azzeramento irreversibile dei processi di socializzazione reale e saremmo trasformati in fantasmi in una rete altrettanto virtuale.

3) Come retoricamente ha scritto il Cardinale Martini su Repubblica del 12 novem­bre 2000

4) II modello della sessuofobia cattolica ne è un esempio evidente. Essa ha sempre continuato a produrre indisturbata fuga dal modello, sia negli uomini sia nelle donne.

5) - Ciò è anche dimostrato dal moltiplicarsi delle adesioni al buddismo e ai movi­menti della New Age sparsi in tutto il mondo.

6) - Su "Repubblica"dell'11 e 12 novembre 2000 c'è stata una discussione in tal senso originata da una lettera in cui una madre scriveva, fra l'altro, "mio figlio è un cre­tino" alludendo alle ore che questi trascorreva davanti a Internet, ecc..

7) E' questa l'impostazione umanistica, controcorrente, del movimento filosofico di "Uomini e Idee".