Dialogare tra culture religiose “altre” (Un punto di vista cristiano)

Post date: 4-ott-2011 18.48.38

di:

Pasquale Giustiniani*

1. Dialogo impossibile a partire da convinzioni religiose?

Nel trapasso di millennio, diverse sono state le candidature proposte per segnalare un possibile evento-simbolo del passaggio epocale. Sia sul piano culturale che religioso, una grande risonanza ha avuto, tra gli altri, l’anno giubilare, promosso dal Magistero cattolico che, oltre a riscoprire i tradizionali segni del pellegrinaggio, del condono dei debiti e delle opere di misericordia, ha significativamente invitato i credenti a “purificare” la memoria, ovvero a rivisitare momenti della storia passata e recente nel corso dei quali ci si è, a volte, coperti del nome di cristiani per compiere efferatezze, oppure per usare metodi antievangelici pur nella ricerca e nell’affermazione della verità (si pensi, per esemplificare, al caso di Giordano Bruno, nel corso del quale i metodi inquisitori adottati esibiscono oggi una lontananza dal Vangelo che scotta, a più di quattrocent’anni dall’atroce rogo).

Ma ben presto, ai simboli religiosi e culturali, che sembravano, in un primo tempo, i più idonei a caratterizzare il bilancio del passato e la speranza per l’avvenire del terzo millennio, si sono avvicendati altri, ben più terribili, eventi. Questa volta eventi di lutto e di morte, accompagnati da violenze efferate e, soprattutto, da guerre inusuali ed inusitate. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito, per la maggior parte inermi e, forse, anche alquanto distratti, ad una vera e propria “globalizzazione” della violenza bellica, che ha messo in discussione quanto delle categorie politiche moderne era sopravvissuto alle precedenti due tragedie mondiali del secolo XX. In particolare, la guerra condotta dagli USA e da buona parte dell’Occidente in Afghanistan ha avuto inizio in assenza dei paradigmi classificatori tradizionali, dunque in totale diversità rispetto alle precedenti guerre tra Stati. Guerra asimmetrica, senza ultimatum e senza dichiarazioni formali tra paesi in lotta, guerra non tra comunità statali bensì tra nazioni lese e terroristi senza volto. Addirittura, come qualcuno improvvidamente ha insinuato, guerra tra “civiltà” o, peggio ancora, esito inevitabile del conflitto congenito tra visioni religiose monoteistiche.

Davvero la guerra “globalizzata” sembra uscire fuori da ogni possibile categorizzazione, perfino dall’idea di rapporto bellico elementare tra nemico ed amico, quasi a rappresentare il lato oscuro di quel vasto fenomeno di abbattimento delle distanze e di creazione di un villaggio unico, almeno virtualmente, che è il mondo intero nell’era della globalizzazione, com’è stata chiamata. Un’era che, fino alle operazioni belliche dette di “anti-terrorismo”, sembrava dovesse riguardare soltanto l’ecosistema, la finanza con i suoi mercati a seguito della deregulation e dell’euromercato, la tecnologia soprattutto se informatica, il mondo della competizione economica, la forza lavoro oggi cercata dalle multinazionali nei paesi a più basso costo, l’informazione, la cultura..., ovvero dovesse interessare un processo complessivo che comporta, già nei settori inventariati, perdita di potere e di rilevanza dei sistemi nazionali, a vantaggio della dominanza dei “mercati”. Tuttavia, la “globalizzazione” in atto della stessa guerra, i cui esiti si vedono anche ad altre latitudini - come negli ultimi giorni ci è dato di constatare nella terra che fu già del Nazareno - rischia oggi di trascinare lungo una china perversa non soltanto i rapporti tra le persone ed i mercati, ma anche i rapporti tra le fedi, se è vero che non pochi, di fronte a tutto ciò, riescono addirittura a teorizzare che il virus della guerra globale, che ha attecchito nel mondo, sarebbe un prodotto tipico delle visioni religiose, particolarmente di quelle monoteistiche le quali, a motivo del loro riferirsi all’unicità dell’Assoluto, tenderebbero ad estremizzare l’identità a svantaggio ed in danno delle posizioni diverse, fino a divenire congenitamente intolleranti e, quasi per natura, ostili al dialogo.

Dialogo impossibile, dunque, tra culture e civiltà, soprattutto se religiosamente ispirate? Le fedi sarebbero, in merito, tutte uguali, accomunate dall’ossessione per la verità di parte e malate d’intolleranza, come già si percepiva in età moderna allorché cominciarono, non a caso, le prime teorizzazioni del concetto di tolleranza? A parte il fatto che le religioni e le fedi non sono tutte uguali, nemmeno quando si riferiscono al medesimo Dio, poiché ogni credente, in qualche modo, crede nella sua originale e tipica maniera, bisogna prendere atto che, tra i monoteismi, quello cristiano – forse ancora più di quanto debbono pur fare gli altri due mondi religiosi – ha l’onere, proprio nelle attuali vicende, non soltanto di smentire l’asserita intolleranza congenita delle religioni che professano la fede nel Dio-uno, ma anche di compiere il primo passo in controtendenza e di proporre, proprio in un contesto di guerra globalizzata e di quasi inevitabilità della lotta armata, il dialogo ed il confronto non violento, a tutti i costi. Certo, chi compie i primi passi potrebbe trovare non poche porte chiuse, come talvolta i cristiani, negli ultimi tempi anche in Italia, hanno dovuto constatare di fronte a certe tendenze fondamentalistiche di altri monoteismi. Ma, comunque, chi fermasse qualunque tentativo di dialogo temendo i fondamentalismi, oppure non compisse i primi gesti in attesa di ricevere previamente azioni reciproche dall’altro e dal diverso, non seminerebbe il buon grano e finirebbe per raccogliere, alla fine, soltanto zizzania. Soprattutto, non sarebbe in linea con lo stile del Nazareno, capace di donare fino all’ultima goccia del proprio sangue pur di far esistere la differenza e l’alterità, foss’anche quella di un traditore o di un cattivo ladrone.

Dialogare, certo, non vuol dire parlare tra sordi e tra sconosciuti. Neppure significa affrontare le terribili circostanze attuali in prospettiva “angelistica” e perfino ingenua. Chi entra in co-rispondenza con l’altro e non con il diverso e l’alter-ego, sa bene di trovarsi di fronte ad un orizzonte da lasciare nella sua alterità, pena il riconfigurarlo e rappresentarselo semplicemente a partire dal proprio punto di vista (ecco perché alcuni antropologi culturali preferiscono parlare di “altro” anziché di “diverso”, appunto per rispettare nella sua radicale autonomia ogni altro). Chi entra in relazione s’impegna, dunque, previamente a conoscere chi sia l’interlocutore, a non incontrarlo mai superficialmente, a prevederne le eventuali giustificate chiusure, ad ipotizzare porte sbattute in faccia, a preconoscere chiusure inevitabili e differenze radicali, soprattutto quando il dialogo dovesse avvenire tra esponenti del mondo cristiano e del mondo islamico, oppure, come nel caso recente di Israele ed Autorità palestinese, tra esponenti del mondo giudaico e del mondo musulmano. Certo, come ha osservato qualche mese fa l’islamista Sergio Noja Noseda, dobbiamo forse renderci conto, una volta per tutte, che a certi musulmani di oggi il dialogo interreligioso non importa nulla, nel senso che, ai loro occhi, i fedeli di altre religioni posseggono soltanto una parte della rivelazione. Ma questo non comporta quale conseguenza inevitabile la chiusura a riccio o la fine dell’interlocuzione, bensì sollecita, ancora di più, alla convivenza ed alla collaborazione pratica nella vita quotidiana.

D’altra parte, il dialogo, instaurato e condotto a partire dalle prospettive religiose, deve prendere atto di quanto, sul piano sociologico-culturale, è avvenuto nel passaggio, vissuto dall’Occidente, all’epoca globale e post-moderna. Infatti, rispetto ai temi della “crisi della religione” e, addirittura, dell’inevitabile crollo di ogni religiosità divorata dal secolarismo emergente – temi, questi, tipici della pubblicistica e della ricerca religiosa degli ultimi trent’anni del XX secolo -, oggi studiosi ed opinionisti devono registrare un effettivo ritorno del religioso, una sorta di “rivincita di Dio”, che smentisce le profezie di “città secolare” alla Harvey G. Cox. Perfino sul piano quantitativo, il sociologo Laurence R. Iannaccone scriveva, già nel 1998, che i dati mostrano ormai come la tesi secondo cui la religione dovrebbe inevitabilmente declinare quando scienza e tecnologia avanzano, si dimostra oggi falsa e che, anzi, la vitalità della religione è diventata addirittura evidente. Anche in Italia l’oggettivo ritorno del sacro non avviene soltanto sul piano delle religiosità non-istituzionali, ma riguarda anche le religioni tradizionali e registra come “miti”, ormai superati, sia quello del progressivo svuotarsi delle chiese, sia quello della paventata invasione delle sette e dei gruppi religiosi alternativi (i quali, seppur numerosissimi, oltre 1500 negli USA ed almeno 600 in Italia, annoverano comunque un contenuto numero di aderenti). Accanto al ritorno del cristianesimo, insomma, si deve oggi registrare anche un’avanzata delle minoranze religiose, che raggiungono ormai poco meno di due milioni di unità, se si conteggiano sia le minoranze diverse dalla cattolica, sia gli immigrati, che raccolgono, nella nostra Penisola, non soltanto musulmani e gruppi di matrice islamica, ma anche buddhisti, esoterici, new age e next age, induisti e neo-induisti. Assunta come certa la convinzione che l’ansia religiosa non rappresenti un bisogno effimero e che la religione non sia un fatto alienante, bensì una dimensione strutturale e nativa dell’essere umano, si può con tranquillità decidere d’incamminarsi di nuovo verso una riflessione che “argomenti”, di presentare perciò tematiche e metodologie “interpellanti” e “favorenti” l’ascolto nell’interlocutore, senza temere di ricorrere alla presentazione di oggettive ragioni e di plausibili motivi del credere. Una tale riflessione, però, opererà non ritenendo di avere già la via spianata grazie al cosiddetto ritorno del sacro e, quindi, non dovrà farsi abbagliare dall’incanto di questo ritorno in un contesto- qual è il nostro - in cui il confronto tra le razze e le culture implicherà un inevitabile scambio fecondo (ma anche un incontro/scontro, come verifichiamo, anche violento) tra le religioni e le fedi; in cui fenomeni di riemergenza di spiritualismi, esoterismi, ricerca della trascendenza, puntualmente registrati dagli studi socio-statistici, chiedono di essere assunti e purificati; in cui la stessa realtà istituzionale ecclesiastica si dichiara preoccupata per il proliferare di sette, culti magico/esoterici, mentre persiste al suo interno ed al suo esterno la secolare religiosità o tradizione popolare che accompagna e spesso s’interscambia con il culto e la ritualità liturgica ufficiale la quale, a sua volta, istituzionalizza e ritualizza fenomeni linguistici e rituali che col sacro pretendono di avere a che fare. Il ritorno al “sacro”, che pure tutti dicono di constatare, non sempre significherà, insomma, un effettivo rinnovato accesso dell’uomo contemporaneo al “divino”, al “mistero”, al “credere”, anzi farà trasparire tutte le ambiguità del “magico”, del “misterico”; pertanto, non sempre risulterà agevolmente assumibile da parte di una riflessione che intenda, appunto, riproporre la plausibilità e la sensatezza dell’atto di fede, del credere, del divino, del mistero.

In ogni caso, proprio in questo frangente di ritorno del sacro e della relativa rinnovata riflessione su di esso, parallelamente alla crisi dei rapporti tra civiltà ispirate a religioni altre, gli esponenti delle religioni monoteiste non possono che scegliere, da capo, la via del dialogo inter- e pluri-culturale, proprio a partire dall’auto-riconoscimento di essere esponenti della medesima famiglia abramitica. La Bibbia ricorda infatti che Abramo, chiamato da Dio, credette (Genesi 15, 6) ed il Corano insegna che Allah scelse Abramo proprio perché egli era hanîf e rigettava ogni idolatria (Corano, sura 3, 89), concordando sul fatto che, sia per il giudaismo che per il cristianesimo e l’islàm, Dio elesse il patriarca perché egli fu uomo di fede. Gli esponenti dei tre monoteismi partecipano, dunque, di quest’elezione di Abramo e, perciò, sono uniti fra loro da un vincolo fortissimo, che collega tutta “la gente del Libro”, ovvero la gente che ha accolto e custodisce la rivelazione di Dio. In tale ottica, ebrei, cristiani e musulmani sono una sola famiglia, perseguitare la quale costituirebbe un’offesa inferta all’Assoluto stesso: «Quelli che avranno tormentato i credenti e le credenti... subiranno il castigo della gehenna», ricorda la sura 85, 10 del Corano, quasi facendo eco al libro giudaico di Daniele 3, 3 ss. Nessuna meraviglia, pertanto, di fronte alle parole, ancora attualissime, del decreto del Concilio ecumenico vaticano II, Nostra aetate, promulgata in san Pietro il 28 ottobre 1965, in cui si affermava la necessità e l’inevitabilità del dialogo tra le religioni, soprattutto quelle monoteiste, in quanto «nel nostro tempo il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli» (NA, n. 1). Quel Concilio, che l’attuale Pontefice ha potuto denominare il “grande catechismo del nostro tempo”, dichiarava anzitutto la propria stima nei confronti dei musulmani, i quali adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli esseri umani e, inoltre, venerano Gesù come profeta, onorano Maria e la invocano talvolta con devozione, attendono il giorno del giudizio e della risurrezione dei morti, hanno in stima la vita morale e rendono culto all’Assoluto con la preghiera, le elemosine ed il digiuno. Inoltre, ricordava il vincolo tra cristiani e popolo giudaico, nel quale si trovano gli inizi della fede cristiana, la rivelazione della prima alleanza, l’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli non giudaici e, inoltre, è il popolo a cui appartengono l’adozione filiale, la gloria, i patti di alleanza, la legge, il culto, le promesse e lo stesso Cristo, che è un circonciso. Stima e vincolo non possono che preludere al dialogo inevitabile, pur senza dismettere le rispettive identità, anzi enfatizzandole nel riconoscimento delle alterità.

2. L’identità come risorsa per il dialogo

La rinnovata riscoperta delle appartenenze religiose e la ricerca della propria identità religiosa, più che ostacoli, divengono delle risorse per un rinnovato dialogo. Tra i fattori più notevoli di potenzialità e perfino di superamento dei conflitti della società civile nell’area del Mediterraneo, con particolare riferimento all’Italia, vanno annoverati insomma anche i valori religiosi e, in dettaglio, i valori religiosi propri di una religione, qual è quella cristiana, le cui origini interessano obiettivamente le sponde del Mediterraneo, a partire dalla sua genesi storica in Palestina, per giungere alla sua diffusione lungo le coste del mare nostrum, fino al suo approdo sulle sponde italiche ad opera di Priscilla ed Aquila, prima, e di Paolo poi. Si potrebbe, addirittura, affermare che l’identità cristiana, a partire dal I secolo, segna - in bene ed in male - non solamente la vecchia Europa, anche nel suo polmone orientale, ma l’intero Mediterraneo, laddove si sono svolti gli scambi sia commerciali che culturali tra le tre grandi religioni monoteiste, purtroppo sfociati spesso anche in conflitti e violenze reciproche, ma pure in felici scambi come, per esempio, si registrò all’epoca del ritorno dell’Aristotele greco in Occidente, favorito appunto dalla collaborazione di musulmani, giudei e cristiani. Come fare sì che l’approfondimento dell’identità religiosa rappresenti anche oggi una risorsa e non un’involuzione per il rispetto e la valorizzazione delle “differenze”? Come operare affinché, proprio in un campo - quel è quello religioso -, nel quale nel passato e nel presente la violenza ha preso talvolta il posto del rispetto delle differenze e della tolleranza attiva, si verifichi piuttosto una stagione di rinnovato dialogo, analisi e comparazione? Come ripresentare l’identità cristiana in maniera tale che l’approfondimento, anche dottrinale, segni un processo di valorizzazione positiva delle differenze, anziché una nuova delimitazione di distanze?

è quasi inutile ricordare come le religioni incidano, ormai, sulla modalità stessa del pensare e dell’essere dei popoli del Mediterraneo. Si va configurando l’esigenza di una riflessione generale sulla fede in grado di muoversi in un orizzonte, ormai imprescindibile, di confronto interreligioso: necessità di ridefinire il concetto stesso di religione; di ribadire la singolarità e l’eccezionalità di Gesù pur nel pluralismo legittimo delle religioni; di offrire un’ermeneutica della cosiddetta “esperienza religiosa” con una corretta fondazione ontologica ed etica; di riscoprire una certa dialettica tra fede e religione non soltanto nelle altre religioni, ma all’interno dell’identità cristiana stessa; di avviarsi a pensare una storia universale delle religioni; di coniugare la prospettiva cristocentrica con quella pneumatologica a proposito del pluralismo religioso. Sul piano più strettamente operativo, si potrebbero ricordare ulteriori nodi e questioni aperte: il senso da attribuire alla preghiera in comune che esponenti di varie fedi mettono in atto pur nella diversità delle appartenenze a comunità religiose determinate, soprattutto in momenti drammatici, quali sono quelli di guerra e di attentati; il valore delle somiglianze-assonanze-interrecezioni tra elementi coreografici e fattori essenziali delle varie proposte religiose; la necessità di distinguere tra deposito essenziale delle fedi e modalità di inculturare ed esprimere tale insieme noetico-dottrinale; l’importanza di riconoscere all’opera lo Spirito santo pur nell’attuale situazione diversificata e pluralistica. Non da ultimo, si potrebbe ribadire l’importanza del confronto storico a tutto campo, e con apporti di storici delle varie confessioni religiose, con alcuni momenti del passato, durante i quali fu vissuta un’analoga situazione di pluralismo, conflitto e dialogo tra fedi religiose diverse, proprio nell’area del Mediterraneo: la lezione della storia, insomma, potrebbe offrire non pochi spunti per ripensamenti anche sul piano sistematico ed operativo, nell’attuale stagione di conflitto violento.

Il primo nodo su cui indugiare riguarda, probabilmente, la messa a fuoco del concetto stesso di religione (e, di conseguenza, anche di “esperienza religiosa”), che tutti vanno impiegando e che soprattutto gli “scienziati delle religioni” dovrebbero aiutare a precisare nel contesto attuale. Tutti siamo, infatti, di fronte ad un dato di fatto: non tutte le manifestazioni religiose presenti nell’orizzonte contemporaneo appaiono, oggi, come dei veri e propri universi completi, definibili in senso proprio “religioni”. Difatti, rispetto ai monoteismi tradizionali e maggiormente diffusi, certe manifestazioni religiose contemporanee sembrano maggiormente evocare la configurazione di fedi, o culti, o gruppi, o, nei casi più ambigui, di sette o, addirittura, di gnosi genericamente tesa alla ricerca di contatti “esperienziali” col divino. Ma, probabilmente, il vero “nodo tra i nodi” della recente discussione è costituito, tuttavia, dalla singolarità e dall’eccezionalità di Gesù Cristo, che il cristianesimo continua a ribadire, pur nell’affermazione della legittima varietà religiosa: come continuare a mantenere la unicità salvifica di Cristo, tipica dell’identità del monoteismo cristiano senza scivolare nei paradigmi puramente esclusivistici, inclusivistici e pluralistici rispetto alle altre manifestazioni e credo religiosi? Occorre, in merito, prendere atto che un certo pluralismo è presente già all’interno del cristianesimo stesso. L’unico “mondo cristiano” presenta, infatti, una varietà di proposte culturali; per esempio, nello stesso testo sacro giudaico-cristiano, ogni libro è considerabile come una peculiare inculturazione dell’unica fede creduta e posta in iscritto. Ma, soprattutto, bisogna mettere in conto pienamente il fatto che, lungi dall’essere un unico fenomeno intruppabile sotto l’etichetta di “koiné cristiana”, le diverse prospettive cristiane, storicamente definitesi, appaiono sempre di meno essere un “comune modo di vedere metafisico” e sempre di più, invece, un crogiuolo di proposte e di modelli, con cui, ad esempio, il cristianesimo dei primi secoli entra diversamente in contatto e confronto, generando, non a caso, diversi prodotti culturali e diversi (se non antitetici) “generi” d’inculturazione. Per non dire, poi, che in situazioni, qual è quella contemporanea, bisogna rammentare l’orizzonte in cui la stessa trama religiosa cristiana diviene rarefatta e laicizzata, o almeno non troppo evidente.

Dal canto suo, qualcuno, spostandosi su un piano denominabile della “fondazione veritativa della fede”, ritiene che la questione-Cristo all’interno del pluralismo religioso debba esser posta dopo aver gettato preliminarmente sul tappeto almeno un grappolo d’interrogativi: si può affermare che Dio ha rivolto la sua Parola rivelatrice soltanto ai cristiani? Non è forse vero che la stessa verità cristiana crede che si diano molteplici modalità rivelative di Dio? Non occorre forse confessare lo scarto tra il Dio rivelante ed il Dio rivelato, per salvaguardare l’eccedenza dell’Assoluto rispetto a qualsiasi rivelazione storica? Non è vero che la Parola divina personale - Gesù - non può essere mai esaurita, neppure da un testo sacro che ne registrasse la manifestazione storica ed etica? Non è forse vero che l’intelligenza umana dei testi rivelati rimarrà pur sempre parziale ed incompiuta fino a quando sarà svolta nel tempo storico? Tale batteria di domande prelude ad una soluzione che si sforza soprattutto di riconfigurare la concezione di verità in chiave ermeneutica. In tal modo la questione cristologica, ripresa in chiave interreligiosa, ridiventerebbe una “quaestio de veritate”. Si tratterebbe di marcare maggiormente l’oggettivo pluralismo irriducibile delle diverse interpretazioni terrestri ed umane senza offrire preliminarmente la palma della verità ad una soltanto di esse, foss’anche la prospettiva cristiana. In tal modo, tutte le religioni sarebbero in una peculiare situazione ermeneutica, in quanto tutte alla ricerca di una verità che, pur esistendo in sé, non sarebbe mai posseduta da nessuno sul piano storico, per la situazione stessa di contingenza e storicità che caratterizza la condizione umana dell’indagante, foss’anche un teologo cristiano. Ovviamente, se si decidesse di spostarsi su questo piano del dialogo ermeneutico tra tutte le proposte veritative provenienti dalle fedi storiche, la questione rilevante non verrebbe più ad essere quella di identificare quale sia la proposta “vera” o “più vera” (dal momento che tutti gli indaganti sono in situazione ermeneutica rispetto alla verità trascendente e mai raggiungibile del tutto), bensì quella di decidere quale sia il criterio per poter pertinentemente giudicare circa l’interpretazione più autorevole, meglio fondata o, se si vuole, della verità sempre cercata come in uno specchio ed a tentoni e mai raggiunta nel frattempo storico.

3. Quale dialogo?

Non occorre molto sforzo per ipotizzare, accanto alle innegabili positività, a che cosa rischi di ridursi il dialogo tra religioni in tale supposto modello: ogni religione, anche quella cristiano-cattolica, in quanto mera ipotesi interpretativa parziale e prospettica rispetto alla verità “altra” del divino in sé ed in quanto tale, è proposta come “alla pari” con le altre sul piano storico-efettuale. Ognuna assume, altresì, il prevalente compito di “convincere” gli esponenti delle altre ipotesi, tutte considerabili altrettanto parziali, circa la validità del proprio criterio interpretativo. Di qui, però, anche una possibile deriva retorico-performativa del cristianesimo, o meglio del suo apparato di comunicatori (teologi compresi) con oggettiva perdita del senso dello sforzo missionario, nonché dello stesso assetto comunicativo tipico della predicazione e della catechesi, chiamato non più ad annunciare la verità cristiana, bensì a convincere le altre prospettive religiose con cui si convive della maggiore adesione alla verità del modello interpretativo ispirato al Cristo. Anzi, spingendosi ancora più oltre, qualcuno azzarda l’ipotesi che, una volta assodato che in Cristo Dio si sia rivelato nel tempo, con annessa rivelazione di criteri veritativi, allorquando si procedesse alla definizione del “criterio veritativo” discriminante tra le diverse posizioni religiose concorrenti, ogni religione potrebbe - sempre in ottica esclusivamente storica - accampare il diritto di possedere, al proprio interno e senza doversi riferire per forza al Cristo - un plausibile criterio interpretativo: non potrebbe ogni religione, insomma, in quanto via verso la verità, possedere al proprio interno dei plausibili criteri di verità con cui autovalutarsi e valutare le altre proposte religiose?

In definitiva, accanto all’invito a studiare ulteriormente il modello teorico descritto, si possono piuttosto lanciare oggi alcuni punti-fermi soprattutto all’interno del mondo cristiano: la necessità di non appiattire la rivelazione sulla storia di Gesù, fino a perdere l’assolutezza di Dio anche rispetto alla manifestazione storica del Verbo; la riaffermazione della non piena equiparazione tra Gesù e cristianesimo, salvaguardando il ruolo, forse non ancora del tutto svuotato o superato, di Israele e del giudaismo, nonché la funzione dello Spirito santo, che non soltanto fa esistere l’assetto cristiano e mondano, ma lo porta a compimento, senza che gli uomini ne posseggano anticipatamente il compimento; la valorizzazione della pluralità religiosa come segnale del fatto che le culture e le religioni diverse non sono “esterne”, ma appartengono tutte, di diritto, alla volontà salvifica del Padre espressa in Cristo. Da un lato, infatti, la riflessione cattolica continua a ribadire l’unicità e l’assolutezza di Cristo e l’unicità della ierofania verificatasi in Cristo rispetto a tutte le altre; dall’altro, le teologie delle diverse religioni spingono ad omologare tra loro le ierofanie, fino a considerare la religione cristiana come una delle tante possibili ierofanie del dio o del divino, quasi determinazioni specifiche dell’unica classe logica “ierofania”. Sul piano della possibile ripresa della problematica, risuonano allora inevitabili ulteriori domande: assodato che la mediazione propria dell’uomo avvenga sul piano del sacro istituzionale e che, di conseguenza, il mediatore Cristo ecceda comunque il quadro teorico delineato, in che cosa potrà consistere l’assunzione rinnovata della problematica del sacro? Fino a che punto risulterà corretto assimilare il Cristo ad una delle tante ierofanie dell’Assoluto, che tuttavia il cristianesimo ritiene la definitiva? Non si dovrà inevitabilmente esser sospinti a rimarcare la totale estraneità del “Santo” rispetto al sacro, con l’ulteriore problema di dover ri-disegnare il dialogo interreligioso non più in termini di avvicinamento tra posizioni dissimili (= sacro come minimo comune multiplo di più religioni), ma di distanziazione di posizioni simili ma non omogenee? Ma- in quest’ultima ipotesi- non occorrerà pervenire ad una vera e propria teologia del “conflitto”, inevitabilmente incuneantesi tra scandalo e follia cristiana ed altre proposte religiose? Non a caso, qualcuno rammenta che il Dio di cui parla il cristiano non è quello raggiunto e “costruito” dall’uomo, ma Colui che si fa Egli stesso prossimo all’uomo, indicando tuttavia una pretesa di esclusività e completezza rispetto ad ogni altra creazione umana: la salvezza del Santo viene da un’unica ed esclusiva fonte verso gli uomini tutti; tuttavia, tale esclusività lascia rimanere le diversità, anzi le mantiene tutte, grazie alla modalità storico-attuativa della manifestazione del Santo, che è un evento di incarnazione/crocifissione, cioè un lasciar-essere-l’altro-affinché-resti-altro ‘anzi divenga meglio se-stesso’ anche a costo di sacrificarsi nel morire. Ma a questo punto l’eccedenza del Santo sul sacro/profano relativizza e quasi svuota questa coppia, pur lasciandola essere; relativizzzazione, infatti, implica anche “relazionalizzazione” e, insieme, “conversione”, cioè capacità di coniugare la continuità con la rottura, il “pleroma” di Gesù Cristo con lo “scandalo” e la “moira”: sacro, quindi, verrà ad indicare solamente la diversa modalità di funzione, di ordinazione, di destinazione di qualcosa di creaturale rispetto al Santo; il che non depotenzia il profano (anzi lo valorizza, dal momento che post-Christum tutto è santo), ma ammette una duplice destinazione/relazione/uso delle cose (in direzione sacrale o in direzione profana, così come lo stesso pane acquisisce una duplice valenza secondo che sia destinato ad andare sulla tavola domestica o su quella eucaristica). Non a caso la stessa “via d’uscita” teologica che parta dalla presa d’atto della de-sacralizzazione operata dalla rivelazione biblica mediante il novum di Gesù Cristo, il quale non appartiene alla tribù di Levi, ma non può non mantenere la “ritualizzazione”, deve constatare che la desacralizzazione non implica mai la fine dei riti, ma indica soltanto che tutto ciò che venga in contatto con il novum cristiano deve perdere in profanità; tuttavia, pur diventando ogni cosa un “segno” di Dio, c’è segno e segno, ciascuno con le sue regole di funzionamento interno, che non vanno dismesse, fino al punto che sembra rinnovarsi la polarità sacro/profano in nuove coppie del tipo rito/fatto, sabato/ferialità, gratuità pura/efficienza, homo ludens/homo faber, contemplazione/azione...

Una qualche sintonia pare possa, quindi, registrarsi sul piano dell’affermazione dell’unicità, dell’assolutezza, dell’esclusività e della novità apportata dalla rivelazione cristiana; per essa l’Altro, configurabile come “il santo”, precede e fonda ogni realtà creaturale e, di conseguenza, ogni connessione creaturale tra sacro/profano. Ma, a ben vedere, pur nella sintonia, persistono delle distonie o, se preferisce, delle diverse configurazioni di una pur possibile “via d’uscita” in vista dell’assunzione in prospettiva teologica della problematica del sacro. Ed ecco, di nuovo, il vero nodo problematico, che viene ad essere quello del come riportare la problematica del sacro nell’ambito dell’esigenza dialogica. La babele di prospettive proveniente dalle scienze delle religioni e dalla molteplice configurazione dei culti, delle fedi e del sacro istituzionale va, dunque, lasciata essere, varcando il Rubicone della “relatività” (o, forse, del relativismo) di ciascuna prospettiva, oppure è possibile far parlare tutte le lingue pur nella reciproca comprensione ed ascolto, come a Pentecoste? Come mantenere tutto quello che sul piano storico il sacro ha comportato e comporta, così come è stato ritrascritto e ripensato dalle scienze delle religioni, senza perdere l’inaudita novità della rivelazione biblico-cristiana? Come ripensare e rielaborare i fenomeni storici della secolarizzazione con la sua giusta affermazione del terrestre e del mondano ( e di tutte le scienze, le arti, le culture...), pur riprendendo la problematica del sacro? Occorrerà arretrare la frontiera d’interesse nella direzione del “santo”, in qualche modo scavalcando le concrete modalità storico-religiose con cui la tematica del sacro è stata studiata nell’ultimo secolo?

4. Per un primo bilancio

L’insieme di tali punti, più interrogativi che punti-fermi, nascenti sul piano teorico, s’incrocia - sul piano della possibile operatività da far seguire all’impostazione teorica - con alcune istanze relative ai cosiddetti “criteri etici” intorno ai quali le differenze possano convergere in un’identità di azione. Su questo versante, l’identità riscoperta del cristianesimo potrebbe diventare effettivamente una risorsa per il dialogo ed il rispetto delle differenze e delle alterità. Per facilitare, in altri termini, il dialogo interreligioso sul piano etico, politico ed economico, si dovrebbe parlare di una “logica del riconoscimento reciproco” in grado di sovrintendere a tutte le religioni e che le porrebbe, ormai tutte irreversibilmente, in una situazione di generale condizione ermeneutica. In tale situazione la verità non è mai posseduta definitivamente da nessuna fede o culto; di conseguenza, in ciascuna di esse si attiva una continua ricerca di consenso, esigita dalla verità stessa, ovviamente sempre eccedente rispetto ad ogni prospettiva storica e ad ogni prospettiva dei comunicanti, che si configurerebbero ontologicamente come dei “dialoganti” per natura. Una tale prospettiva sarebbe favorita da un’etica comunicativa per non pochi motivi: questa rappresenterebbe una base normativa accettabile per le diverse religioni; non istituirebbe, ma riconoscerebbe, la dignità etica di ciascun essere umano; creerebbe un’occasione di confronto-incontro tra le varie ermeneutiche della dignità umana; sarebbe connaturalmente aperta alla ricerca della verità.

* Ordinario di filosofia teoretica nella Facoltà di teologia dell’Italia Meridionale, Napoli