Necessità dell'universale

Post date: 18-mar-2012 23.28.33

TAGORE*

La storia dell'uomo è la storia del suo viaggio verso l'ignoto in cerca della comprensione del suo io immortale, la sua anima. Tra il sorgere e cader di imperi, tra l'accumular di colossali ricchezze e il ridurle inesorabilmente in pol­vere; tra la creazione di innumerevoli simboli che danno forma ai suoi sogni, alle sue aspirazioni, e il gettarli via come giocattoli d'un fanciullo annoiato; tra il fabbricare magiche chiavi con cui dischiudere i misteri della creazione, e poi, gettando l'opera di secoli, tornare a ricominciar da capo tutto il suo lavoro in qualche nuova forma; tra tutto questo, l'uomo, d'epoca in epoca, va camminan­do verso la più perfetta comprensione della sua anima, di quell'anima che è più grande di tutte le cose da lui accumulate, di tutte le gesta compiute, le teorie enunciate; di quell'anima il cui progredire non verrà mai arrestato dalla morte né dalla dissoluzione. Gli errori e i falli dell'uomo sono stati tutt'altro che pic­coli o di poca importanza; hanno seminato il suo cammino di rovine colossali; le sue sofferenze sono state enormi; quasi i dolori per la nascita d'un bambino gigante, esse sono il preludio d'una impresa la cui portata è infinita. L'umanità ha dovuto sopportare un perenne martirio e vi è tuttavia sottoposta; le sue istitu­zioni sono quasi l'altare che essa ha innalzato per offrirvi il suo sacrificio quoti­diano; sacrificio immenso e meraviglioso. E tutto questo dolore sarebbe privo di ogni significato, e impossibile a sopportarsi, se non fosse accompagnato dalla profonda gioia che invade l'intimo del cuore dell'uomo, quando egli oppone alle sofferenze la sua forza divina, e prova la sua inesauribile ricchezza con la rinunzia.

Per progredire, la vita ha bisogno di trovare ostacoli sul suo cammino. Il tor­rente perderebbe velocità, se non ci fosse la resistenza del fondo sul quale si fa strada. Lo spirito combattivo fa parte del genio della vita. Per ottenere una musica bisogna anche accordare lo strumento. Rallegriamoci dunque che in Occidente lo strumento della vita venga accordato in tutte le sue corde nella lotta coi vari ostacoli. Lo spirito creativo esistente nel cuore dell'universo non permetterà mai che gli ostacoli scompaiano completamente. Solo perché esiste un ideale di perfezione da raggiungere, lo spirito combattivo è grande.

La civiltà è come una specie di forma che ogni nazione si sforza di foggiarsi per modellarvi gli uomini secondo il suo ideale più perfetto. Tutte le istituzioni, la legislazione, il sistema di premio e di pena, gli insegnamenti coscienti e inco­scienti, tendono a questo scopo. La moderna civiltà occidentale cerca con tutto lo sforzo della sua organizzazione di rendere quanto più può perfetti gli uomini fisicamente, intellettualmente e moralmente. Quindi le poderose energie delle nazioni vengono impiegate ad estendere il dominio dell'uomo sulle cose che lo circondano, ed i popoli pongono tutto lo sforzo delle loro facoltà nel possesso e nell'utilizzazione di quanto loro capita sotto mano, e nel superare ogni ostacolo sulla via della conquista. Si addestrano continuamente nell'arte di combattere contro la natura e contro le razze straniere; i loro armamenti divengono ogni giorno più meravigliosi; le macchine, le applicazioni, le organizzazioni vanno moltiplicandosi in modo sorprendente. Tutto ciò è molto bello senza dubbio, ed è una meravigliosa manifestazione della potenza umana che non conosce osta­colo e che ha per oggetto la propria supremazia su tutte le cose.

Ma l'antica civiltà dell'India ebbe un suo particolare ideale di perfezione verso il quale diresse gli sforzi. Non mirò a raggiungere la potenza, trascurò di dare il massimo sviluppo alle sue capacità e di organizzare gli uomini a scopo difensivo e offensivo per cooperare all'acquisto della ricchezza e della supre­mazia militare e politica. L'ideale che l'India s'era proposto condusse i suoi figli all'isolamento della vita contemplativa, e i tesori che essa acquistò per l'u­manità addestrandosi nei misteri della realtà, li pagò a prezzo del suo successo nelle cose mondane. Tuttavia anche la sua fu una sublime impresa; fu una suprema manifestazione di quell'aspirazione umana che non conosce limite, e che ha per oggetto nulla meno che la comprensione dell'infinito.

In Europa, la vita mortale dell'uomo si divide solo in due periodi, il periodo dell'addestramento e quello del lavoro. È come se si continuasse indefinitiva-mente a tracciare una linea diritta fino al momento in cui, stanchi, si lascia cadere il pennello. Ma una linea diritta, per quanto lunga, non potrà mai essere un quadro: non è disegno, non ha alcun significato. Il lavoro è solo un mezzo, non può essere fine a se stesso. Deve avere come scopo un qualche guadagno, un qualche risultato. L'Europa invece ha omesso di proporre all'uomo lo scopo ben preciso che dovrebbe essere il fine naturale del lavoro. Non vi è limite a ciò che si desidera acquistare nel campo materiale come in quello della conoscen­za, e la civiltà europea sottolinea unicamente il progresso e l'accumularsi di questa conquista, dimenticando che il miglior contributo che ogni singolo indi­viduo può dare al progresso dell'umanità consiste nel perfezionamento della propria vita. Così per gli europei, la fine arriva sempre a metà delle cose: non esiste preda, ma soltanto la caccia.

Si dice anche che il desiderio non si esaurisce mai, ma anzi aumenta via via che viene soddisfatto. In qual modo, dunque, si potrebbe giungere alla fine del lavoro? Nell'antica India si rispondeva che esiste un'eccezione a questa regola generale: esiste un punto in cui si raggiunge il risultato definitivo. L'universo non può essere concepito in modo tanto pazzesco che il desiderio sia un canto interminabile senza un finale. Quindi, quanto è doloroso arrestarsi alla metà di un tema melodico, altrettanto piacevole dev'essere arrivare fino alla cadenza conclusiva.

Nelle condizioni altamente complesse della vita moderna, le forze meccani­che sono organizzate con tale efficienza che i materiali prodotti superano larga­mente la possibilità che ha l'uomo di sceglierli e assimilarli secondo la propria natura e i propri bisogni. Questo esagerato sviluppo, come la soffocante vegeta­zione tropicale, diventa una prigione per l'uomo. Il nido è una cosa semplice. È in facile rapporto col ciclo; la gabbia è complessa e costosa, è troppo gabbia e toglie il contatto con tutto ciò che è fuori di essa. L'uomo moderno si affanna a costruirsi la gabbia. Non fa che preoccuparsi di riuscire ad adattare se stesso alle molte angolosità, a limitare se stesso a quei limiti, fino a diventare egli stesso parte della gabbia. Forse questo discorso è un pò troppo orientale per alcuni dei miei lettori. Mi si dice che essi son convinti della necessità di un'esi­stenza sempre tesa e determinata da una bramosia, artificialmente prodotta, di beni materiali. Secondo loro, questo serve a generare e ad alimentare l'energia che spinge la civiltà lungo il suo interminabile cammino. Quanto a me, non credo affatto che questa sia mai stata la principale forza di propulsione di nes­suna grande civiltà.

Uno dei vantaggi della fabbrica è che vi si possono fabbricare merci su ordi­nazione e che le merci si possono classificare facilmente, perché non esiste molta differenza tra i vari prodotti delle diverse macchine.

Invece vi sono grandi differenze tra un individuo e l'altro e anche nello stes­so individuo in giorni diversi.

Inoltre la macchina non può dare ciò che possono dare gli esseri umani. La macchina potrà tener ferma una cosa davanti a noi, ma non può offrircela. Può darci l'olio per accendere la lampada, ma non potrà accenderla.

La scienza ha abolito le barriere tra un popolo e l'altro, però non ha portato con sé quella luce che ne favorisce la reciproca comprensione. Al contrario, nella sua attuazione pratica, ha posto degli ostacoli, contrastando il processo di conoscenza e di solidarietà tra i popoli.

Ma non sono così sciocco da condannare la scienza come materialistica. Non è questa la verità. Scienza significa onestà intellettuale della nostra cono­scenza e dei nostri contatti nei rapporti con il mondo fisico; tale coscienziosità ha un carattere spirituale, che sprona al sacrificio ed al martirio. Ma nella scien­za, la tanto usata mezza verità, che afferma essere l'onestà la migliore politica, trova la sua completa affermazione, poiché la nostra onestà mentale in questo campo ci è sempre di grande utilità. Infatti la cattiveria, in modo più o meno subdolo, si insinua sempre nell'utilità umana, istigando e tentando la parte più primitiva dell'uomo, risvegliando le sue passioni malvage. E per questo il gran­de incontro delle razze umane è stato sminuito nel suo significato.

È noto che la cupidigia, che mira al guadagno materiale, non ha limiti; è simile ad un pazzo che vuoi raggiungere l'orizzonte. Il perseverare in questa gara di guadagni materiali, diventa una corsa ad ostacoli di insensata futilità, che trova delle barriere, ma non giunge mai ad un traguardo. Parallela a questa, esiste la lotta con le armi materiali - armi che dovranno essere continuamente moltiplicate, perché schiudano nuovi panorami di distruzione ed evochino nuove forme di pazzia nel loro terrore. Sembra che abbia avuto inizio l'ultima fatale avventura dell'inebriante Passione, trascinata da un intelletto tremenda­mente potente.

Oggigiorno, molto più che in qualsiasi periodo della nostra storia, abbiamo bisogno di forza spirituale; e sono certo che potrà essere rivelata nelle nascoste profondità del nostro essere. Uomini intrepidi accetteranno di intraprendere questa avventura e soffriranno, ma attraverso la sofferenza giungeranno alla massima elevazione della vita, che costituisce la nostra sicurezza.

La vita ha un grande significato per colui che vive per un'idea, per il suo paese, per il bene dell'umanità; e avanti a questa grandezza il dolore appare cosa trascurabile. Vivere una vita di bontà vuoi dire vivere una vita universale. Il piacere riguarda solo il proprio io, ma la bontà ha interesse per il bene di tutta l'umanità e in ogni tempo. Dal punto di vista del bene, il piacere e il dolore possono assumere un aspetto tutto differente, e a tal segno, che si può sfuggire il piacere e invece ricercare il dolore, e la morte stessa può esser la benvenuta come apportatrice di un più alto valore alla vita. Lo provano i martiri della sto­ria, e lo proviamo noi stessi nel piccolo martirio quotidiano delle nostre vite. Se tiriamo sul dal mare un secchio piano d'acqua, noi ne sentiamo il peso, mentre non lo sentiamo quando, tuffandoci noi stessi, s'agitano sul nostro capo migliaia di secchi d'acqua. Noi dobbiamo portare con le nostre proprie forze il fardello del nostro io.

Il nostro io deve incessantemente spogliarsi della sua età, e per più e più volte disperderne i limiti nell'oblio e nella morte per poter arrivare alla sua immortale giovinezza. Di tanto in tanto la sua personalità deve fondersi nell'u­niversale; deve infatti continuamente passare per l'universale perché possa rin­novare la sua vita individuale. Egli deve seguire l'eterno ritmo accostandosi ad ogni passo alla unità fondamentale, e in tal modo mantenere in equilibrio il suo stato di separazione nella bellezza e nella forza. Questo avvicendarsi di vita e di morte, questo rinnovellarsi di ciò che è vecchio, noi lo scorgiamo dovunque in natura. Ad ogni nuovo spuntar dell' aurora ci riappare nella sua candida nudità un nuovo giorno, fresco come un fiore. Ma noi sappiamo quanto esso sia anti­co; è anzi la personificazione dell'età, è quel medesimo antico giorno che vide nascere la terra e la coprì d'un candido manto di luce, e l'avviò al suo pellegri­naggio fra le stelle.

Eppure i suoi piedi non sono ancora stanchi, i suoi occhi non sono offuscati; ha su di sé l'aureo amuleto della sempre giovane eternità al cui tocco tutte le rughe scompaiono dal volto della creazione. Fin nel più intimo cuore del mondo regna l'immortale giovinezza; la morte e la decadenza gettano sulla sua faccia un' ombra momentanea e passano, e del loro passaggio non resta traccia alcuna; la realtà dell'esistenza rimane sempre giovane e fresca. Questo antichis­simo giorno della nostra terra, torna a rinascere ogni mattino, quasi ricomin­ciando sempre il medesimo antico ritornello del suo inno.

* Da "Sadhana" Carabba, Lanciano, da "La civiltà occidentale e l'India" -Boringhieri, Torino e da "La religione dell'uomo" - Sansoni, Firenze.