Post date: 1-gen-2014 17.52.54
di: Raffaele Prodomo
L'INTERVENTO GENETICO SULL'UOMO: ASPETTI BIOETICI PRIVATI
"e tuttavia i mezzi per correggere la natura sono ancora opera della natura, ond'è che l'arte, la quale voi dite aggiungersi alla natura, è anch'essa un'arte di natura. Voi sapete, mia soave fanciulla, noi maritiamo al più selvaggio tronco la marza più gentile, e da una gemma di più nobil razza facciam fecondare una corteccia di specie più vile; questa è un'arte che corregge, anzi cambia al tutto la natura, ma l'arte stessa è natura"
Shakespeare, Il racconto d'inverno, Atto IV scena IV
La possibilità di modificare il patrimonio genetico umano ha immediatamente suscitato, fin dal suo primo concretizzarsi, forti perplessità di ordine morale. È interessante sottolineare il fatto, inoltre, che ad interrogarsi sulle conseguenze dell'ingegneria genetica siano stati, spesso, gli stessi scienziati protagonisti delle sperimentazioni. Sono significative, ad esempio, le dichiarazioni allarmistiche rilasciate dal gruppo di biologi che ad Harvard, nel 1969, isolò per la prima volta un gene umano in forma chimicamente pura. Nonostante il fatto che si era ancora molto lontani dalla possibilità concreta di un intervento modificativo dei geni, si metteva in guardia, tuttavia, l'opinione pubblica nei confronti di un possibile abuso governativo delle conoscenze genetiche (1).
Poco tempo prima, in un editoriale pubblicato dalla rivista "Science", Marshall W. Nirenberg, premio Nobel nel 1968 per la decifrazione del codice del DNA, aveva espresso la preoccupazione per un uso poco saggio delle scoperte genetiche, potenzialmente capaci sia di migliorare che di peggiorare il genere umano. Questo articolo, dove si legge l'affermazione che "l'uomo potrebbe arrivare a programmare le proprie cellule con informazioni artificiali assai prima di conoscere le conseguenze a lungo termine di tali modificazioni, prima di poter formulare degli obiettivi, prima di risolvere i problemi etici e morali che si solleveranno", poneva con netto anticipo e con grande lucidità alcuni problemi diventati poi di estrema attualità (2).
Sembra di assistere alla cronaca di un problema bioetico 'annunciato', in netto anticipo non solo rispetto all'evoluzione tecnico-scientifica che lo avrebbe effettivamente sollevato, ma anche rispetto alla riflessione etica vera e propria, visto che il termine stesso 'bioetica' fu coniato solo nel 1971.
Questa ipersensibilità nei confronti delle questioni morali è una costante nella pur breve storia della genetica molecolare, anche se si considera, ad esempio, il grande dibattito che, a partire dal 1973, si sviluppò in merito alla questione del DNA ricombinante, ossia la tecnica principale che ha consentito la modifica mirata del materiale genetico, consentendo di tagliare ed inserire una sequenza di geni nuova in una molecola di DNA. Con il perfezionamento della tecnica del DNA ricombinante è stato possibile, in primo luogo, ottenere vegetali e forme di vita animale con caratteristiche nuove rispetto a quelle naturali, è stato possibile, inoltre, 'far' produrre ad un batterio, Escherichia Coli, alcune proteine d'origine umana di largo uso farmacologico, quali l'insulina o l'ormone della crescita. Anche in questa occasione, le novità e le possibilità tecniche sollevarono numerose perplessità morali, tanto da indurre gli stessi scienziati, in un famoso convegno tenuto ad Asilomar in California nel 1975, a imporsi una pausa di riflessione con (fatto probabilmente unico nella storia della scienza) una moratoria generalizzata degli esperimenti di ricombinazione genica. La moratoria era stata decisa nel 1973, nel corso di un convegno più ristretto tenuto sempre ad Asilomar, la seconda riunione fu molto più affollata e ebbe una ripercussione maggiore sulla stampa non specialistica, per cui, quando ci si riferisce al convegno di Asilomar, si intende far riferimento, quasi sempre, a quello tenuto nel 1975 quando, in realtà, si decise la sospensione della moratoria avviata due anni prima.
In generale le preoccupazioni prevalenti in quegli anni erano quelle, soprattutto, di evitare effetti dannosi collegati ad una involontaria immissione nell'ambiente di organismi modificati e potenzialmente patogeni per l'uomo o pericolosi per l'equilibrio ecologico. Preoccupazioni almeno in parte fugate negli anni successivi, dopo un'adeguata regolamentazione tendente a ridurre al minimo i rischi e, soprattutto, dopo l'esperienza di anni di sperimentazione senza conseguenze dannose.
Erano ormai maturi i tempi per un possibile uso di queste tecniche sull'uomo. Ad imporre in modo eclatante il problema intervenne nel 1980 la prima sperimentazione terapeutica, ad opera di Martin Cline, che fallì nel suo obiettivo scientifico suscitando al contempo numerose critiche per la disinvoltura e l'inosservanza di alcune norme etico-deontologiche (Cline effettuò due esperimenti di trapianto genico in pazienti affetti da talassemia, in Israele e in Italia, allo scopo di evitare i controlli del comitato etico della propria Università in California). Infine nel 1990, questa volta con l'assenso degli organi di controllo e presso la struttura pubblica del NIH (l'istituto sanitario nazionale degli Stati Uniti) si praticò con successo la prima terapia genica su una bambina affetta da un grave difetto genetico, il deficit dell'enzima ADA, che abbatteva le difese immunitarie provocando una immunodeficienza congenita e, in genere, il decesso entro pochi anni dalla nascita.
Si può dire che, a questo punto, la maturazione scientifica e la riflessione bioetica hanno cominciato ad andare avanti di pari passo, anche se da un punto di vista etico si è conservata in questo campo la tendenza a considerare le questioni con un certo anticipo rispetto alla possibile evoluzione tecnica. Il complesso di problemi morali connessi all'ingegneria genetica umana è indubbiamente di grande impatto emotivo e richiede doti di analisi filosofica e una buona dose di pazienza argomentativa. Quando si pensa ad una programmazione dell'eredità genetica indotta artificialmente, il fascino che attrae l'immaginazione viaggia costantemente associato ad una vaga sensazione di disagio. Certo, come afferma il rapporto della speciale Commissione governativa degli Stati Uniti, Splicing Life, del 1982 "certi scenari erano inverosimili e certe paure eccessive, ma in generale le preoccupazioni della gente riflettevano la consapevolezza che era in atto una rivoluzione biologica dalle implicazioni vastissime." (3).
Il tono e i contenuti di molti interventi di analisi e di commento pubblicati nel corso di quegli anni pioneristici nel campo genetico, erano ispirati a quel tipo di preoccupazione che normalmente si avverte quando si pensa di avere a che fare con qualcosa di 'sacro'. "Intendiamo davvero assumerci la responsabilità radicale della vita sul nostro pianeta e creare nuove forme di vita in vista dei nostri obiettivi? -ci si chiedeva in un articolo dello "Spectator" del 1975. Vogliamo davvero prendere in mano le sorti della nostra evoluzione futura? Quantunque a uno scienziato questa idea inizialmente possa sembrare strana, dobbiamo affrontare il fatto che possano esserci conoscenze indesiderate" (4).
Il pensiero, in questi casi, corre con automatismo involontario a miti prometeici o a figure letterarie ricorrenti nella pubblicistica sulla questione: dall'utopia negativa descritta da Aldous Huxley nel suo nuovo mondo dominato dal condizionamento genetico, farmacologico e sociale (5), alla figura del mostro creato dall'incoscienza umana, il cosiddetto 'fattore Frankenstein' (6). Senza dimenticare che, oltre ai riferimenti mitici o letterari, si agitano ancora nella memoria storica i ricordi delle esperienze vissute e già sperimentate di eugenetica razzista, quasi sempre collegati all'ideologia nazista ma, purtroppo, presenti anche nel passato di regimi politici liberaldemocratici, a testimoniare che queste cose non sono, come la coscienza comune tende a pensare, un'esclusiva dei regimi totalitari (7). Gli interrogativi etici che sembrano proporsi in via preliminare sono i seguenti: la ricerca sulle basi molecolari dell'eredità deve continuare o bisogna fermarsi finché si è in tempo? È moralmente giustificato l'intervento genetico sull'uomo, con la riprogrammazione della sua costituzione ereditaria e naturale?
Evidentemente questi interrogativi aprono una discussione molto più ampia e articolata di quanto non sia possibile fare in questa sede. Bisognerebbe discutere alcune distinzioni proposte allo scopo di tracciare un confine tra il comportamento giusto e quello sbagliato. Ad esempio, la distinzione tra ingegneria genetica negativa e positiva, o quella tra ingegneria sulle cellule somatiche o germinali, entrambe distinzioni che mantengono meno di quanto promettono.
Tuttavia in questa occasione limiteremo la nostra analisi alle argomentazioni principali elaborate per sostenere le risposte, sia positive che negative, alle domande formulate in precedenza. Una delle più articolate esposizioni delle critiche radicali all'ingegneria genetica tout-court, che si può ritenere la sedimentazione razionalmente argomentata e filosoficamente fondata di tutte le ansie e le preoccupazioni suscitate da queste tecnologie biomediche, può senza dubbio essere identificata nella filosofia di Hans Jonas. In più occasioni il filosofo tedesco, recentemente scomparso, ha avanzato una serie di critiche alle tecniche di ingegneria genetica, con l'esortazione ad una sostanziale e radicale rinuncia non solo al loro impiego pratico, ma anche all'attività di ricerca senza immediati risvolti applicativi. Il pensiero di Jonas è molto articolato, proveremo a fornirne una sintesi efficace con una attenzione particolare alla posizione espressa a proposito delle due domande da noi individuate come preliminari e, in certo qual modo, cruciali per il problema morale.
Secondo Jonas, in primo luogo, quello genetico è un intervento piuttosto che una costruzione, ossia nelle pratiche di ingegneria genetica ci sarebbe un quid di imponderabile che ne rende aleatoria e potenzialmente pericolosa la diffusione, diversamente dal carattere controllabile e prevedibile che avrebbero le normali costruzioni artificiali dell'uomo.
Considerando, poi, il fatto che, in queste ricerche, non sono separabili la fase sperimentale dalla vera e propria azione concreta, ossia l'esperimento è già azione reale che modifica irreversibilmente la struttura biologica dell'essere vivente, si comprende la massiccia dose di prudenza prescritta da Jonas. Una prudenza che supera i confini che tradizionalmente la circoscrivono alla sfera pratica dell'utilità individuale o del calcolo sociale dei rischi-benefici, per diventare principio morale. Un principio di responsabilità con una carica inibitrice potente, ispirata alle regole di quell'euristica della paura già elaborata da Jonas ne Il principio responsabilità (8).
Questo ricorrere all'illustrazione dei possibili pericoli della sperimentazione genetica, enfatizzandone all'inverosimile le proporzioni, è assimilabile ad una sorta di argomento dell'apprendista stregone, ossia quell'argomento per il quale un certo comportamento è sconsigliato perché se ne teme l'imprevedibilità delle conseguenze. In questo modo, tuttavia, non viene detto ancora nulla circa la moralità intrinseca dell'ingegneria genetica. Se, per ipotesi, la sperimentazione fosse esente da pericoli e perfettamente controllabile, non dovrebbe trovare ulteriori ostacoli. Invece, a questo punto, vengono fuori altre forti riserve morali e la posizione teorica assume il carattere di una critica radicale dell'ingegneria genetica in quanto tale: "se si dovessero tentare esperimenti del genere anche su base umana, questa avventura nei suoi diversi "successi" (fenotipi in grado di sopravvivere, a prescindere dal loro valore in sé) priverebbe l'immagine "dell'uomo della sua unicità come oggetto di rispetto estremo e rinnegherebbe la sua integrità. Sarebbe una rottura metafisica con l'"essenza" normativa dell'uomo e nel contempo, di fronte alla completa imprevedibilità delle conseguenze, il più avventato gioco d'azzardo: il trafficare in modo maldestro di un demiurgo cieco e presuntuoso intorno al delicato cuore della creazione."(9).
Come si vede a bloccare l'uomo lungo la strada della modifica programmata della propria anatomia genetica non c'è solo la paura dell'ignoto e dell'imprevedibile (per quanto catastrofici possano esserne le manifestazioni), ma un'obiezione di principio: la modifica del genoma umano romperebbe, addirittura, l'essenza metafisica dell'uomo! Questo è il punto principale su cui regge l'impalcatura teorica. Sostanzialmente l'ingegneria genetica sarebbe incompatibile con la struttura metafisica dell'uomo, ne sconvolgerebbe natura e funzioni, trascinando in questo vortice degenerativo la stessa natura della medicina, il cui scopo tradizionalmente è, per il filosofo tedesco, quello di seguire "la regola dettata dalla natura".
Se questi sono, quindi, gli ostacoli insormontabili che l'etica frappone alla ricerca scientifica in questo settore, appare naturale l'esito finale cui perviene la riflessione morale. Viene ribadita, infatti, l'assoluta necessità di interrompere sul nascere non solo l'applicazione pratica della biologia molecolare ma anche la stessa ricerca di base che la rende possibile: "qui è consentito soltanto - prosegue Jonas - preservare dalla disgrazia, non sperimentare una nuova felicità. L'uomo non il superuomo sia il fine. Benché sia in gioco qualcosa di più grande e di metafisico, la semplice etica della convenienza è sufficiente per proibire già agli inizi la manipolazione dei genotipi umani; sì, per quanto male possa suonare all'orecchio moderno: già nella zona franca della ricerca sperimentale" (10).
In questa vera e propria scomunica dell'ingegneria genetica, risuonano accenti e toni familiari nella letteratura sull'argomento. Riappare l'idea di una conoscenza di per sé stessa indesiderabile, un'idea che abbiamo visto espressa molti anni prima nell'articolo dello "Spectator".
La stessa preoccupazione per una possibile corruzione della natura dell'uomo era stata sollevata, agli albori del dibattito sull'ingegneria genetica e le nuove tecniche procreative, dal teologo protestante Paul Ramsey, che in un saggio del 1972 affermava: "può darsi che l'interrogativo di Aristotele: "qual'è l'attività dell'uomo?" sia espresso in un linguaggio che sembrerà troppo funzionale per l'etica ecologica di cui abbiamo bisogno per collocare l'uomo nel Creato di cui noi facciamo parte e verso cui dovremmo provare una "pietà naturale". Tuttavia la sua opinione che tutte le cose in natura "hanno certe attività e linee di condotta" è abbastanza ampia da essere utile nella nostra ricerca di un senso dell'uomo inteso anche come oggetto della natura. La procreazione, la paternità, è certamente una di queste "linee di condotta" naturali per l'uomo, che non possono, senza violenza, essere "smontate" e nuovamente "ricomposte" - come non abbiamo il diritto di distruggere sacrilegamente l'ambiente di cui facciamo parte piuttosto che operare conformemente alle sue caratteristiche, alle sue funzioni o "linee di condotta" la cui esistenza scopriamo nell'intera gamma degli oggetti della natura." (11).
La simmetria con le argomentazioni di Jonas è evidente, anche se in Ramsey c'è, diversamente da Jonas, un richiamo diretto ad Aristotele. Del resto nel saggio del noto teologo sono presenti anche molti altri riferimenti entrati nella retorica comune dei discorsi sull'ingegneria genetica: oltre alla citazione d'obbligo di Huxley, non mancano, infatti, riferimenti all'esperienza dell'eugenetica nazista ed è presentato quell'argomento del "giocare" a fare Dio adoperato sempre più di frequente e presente anche nella lettera indirizzata nel 1980 al presidente degli Stati Uniti dai capi delle tre maggiori confessioni religiose della nazione (cattolici, ebrei e protestanti) per invocare la creazione di un organismo di controllo pubblico sull'ingegneria genetica.
Lettera che, ricordiamo, fu alla base della decisione dell'allora presidente Carter di istituire la commissione, presieduta da Alexander Capron, che ha prodotto il rapporto Splicing Life. Anche da un resoconto così breve emerge con chiarezza la potente e precoce opposizione morale provocata dalle proposte di modifica genetica dell'uomo. Agli occhi dei suoi più radicali e convinti oppositori, l'ingegneria genetica appare corruttrice della natura umana e, in quanto tale, un male da combattere e estirpare alla radice.
Ma si può, in nome e in difesa della natura umana, arrivare a proibire la conoscenza? Se è parte della natura umana lo stimolo a conoscere e esplorare mondi nuovi, come mirabilmente esprime l'Ulisse dantesco nell'esortare i suoi compagni d'avventura a superare le barriere d'Ercole, ricordando loro come: "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza" (12).
Se questa interpretazione della natura umana accampa a giusto titolo pretese di validità, allora che cosa è veramente distruttivo dell'essenza dell'uomo: conoscere la propria conformazione genetica e, se opportuno, modificarla, o rifiutare a priori di conoscere? Si spera che quanto esposto finora sia stato sufficiente per favorire l'interpretazione di quest'ultimo come di un interrogativo meramente retorico.
1) Uno dei biologi del gruppo di Harvard, Jonathan Beckwith, affermò, sulle colonne del "New York Times" che "Più ragioniamo sulla nuova tecnica per isolare i geni, più ci rendiamo conto che potrebbe essere usata per purificare i geni negli organismi superiori (...) Il fatto è ancora più spaventoso se pensiamo all'uso che il governo ha fatto della scienza in Vietnam per la messa a punto di armi chimiche e biologiche". Si cita da L.Thompson, Correggere il codice, Garzanti, Milano 1996, p.62.
2) Si cita da L.Thompson, Correggere..., cit., p.64.
3) AA.VV., Splicing Life. The Social and Ethical Issues of Genette Engineering with Human Beings, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1982; trad. italiana con introduzione di M.Mori, Costruire la vita, EliDir, Roma 1993, p. 33.
4) Ivi, p.30 (il corsivo è nostro).
5) A.Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori, Milano (1933) 1991 (il titolo originale del l'opera è Brave New World, pubblicata nel 1932). È opportuno ricordare che, contraria mente a come viene più frequentemente interpretata, la citatissima polemica di Huxley vale nei confronti di tutti i tipi di condizionamento, non solo quello genetico, ma anche
quello che, mediante l'uso di droghe e una rigida organizzazione sociale, comunque riduce sensibilmente gli spazi di libertà individuale.
6) cfr. W.Gaylin, The Frankenstein Factor, in "New England Journal of Medicine", volume non menzionato/297, 1977, p.665.
7) Cfr. T.Wilkie, La sfida della conoscenza. Il progetto genoma e le sue implicazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995. Nel volume l'autore mette in guardia l’opinione pubblica nei confronti dei possibili usi distorti delle conoscenze genetiche, ricordando casi di politiche eugenetiche ideate e perseguite nel corso del Novecento in contesti diversi dall'esperienza germanica nazista. Si citano i programmi di sterilizzazione forzata degli 'handicappati mentali', proposti agli inizi del secolo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e, più recentemente, gli esiti discriminatori cui sono giunti alcuni programmi di screening genetico. Ad esempio negli Stati Uniti, in seguito allo screening per l'anemia falciforme avviato negli anni Settanta, i soggetti di razza nera furono discriminati, senza ragioni scientifiche evidenti, nelle forze armate aereonavali, e fu loro negata la possibilità di diventare piloti d'aereo.
8) Si veda H.Jonas, II principio responsabilità, dove si tenta l'elaborazione di un'elica per le generazioni future; si veda inoltre Id., Tecnica, medicina ed etica, dove il tema dell'ingegneria genetica è ripreso e sviluppato ampiamente. Un'analisi critica comparativa tra la proposta di Jonas dell'euristica della paura e le tesi molto più libertarie di Engelhardt in tema di modificazioni genetiche si trova in L.Battaglia,...
9) H.Jonas, Tecnica, medicina ed etica, cit., p.151.
10) Ivi, p. 154 (il corsivo è nostro).
11)P. Ramsey, Ingegneria genetica, in T.R.Mertens (a cura di), Genetica umana,
Piccin, Padova 1979, pp. 245-246.
12)La Divina Commedia-Inferno, Canto XXVI.