Lo scatto della serratura colpì dolorosamente il silenzio del braccio. Era da poco suonato il segnale e non si poteva più parlare né far rumore. Il corridoio della prigione della Contea, immerso in una penombra opprimente, pareva disabitato.
I passi di Pat Smith, capo delle guardie, risuonarono lugubri mentre entrava nella cella numero 3 in compagnia dell’agente Morrison, una specie di essere tra un uomo e un gorilla.
“Ezekiel, mi senti? Il momento è arrivato”, disse il capo delle guardie.
Il corpo abbandonato sulla branda restò immobile, come morto, mezzo celato dall’oscurità. C’era un altro corpo in quei sei metri quadri, un lusso in quella prigione in cui i condannati erano ammassati gli uni sugli altri. Ma non sarebbero passati molti giorni prima che anche la cella numero 3 si riempisse di disgraziati. Costui era legato mani e piedi su una sedia, col capo reclinato fino alle ginocchia.
Smith scosse col suo bastone l’uomo sul letto. Quello grugnì rigirandosi su un lato.
“Ci siamo Ez. A mezzanotte sarà eseguita la sentenza. Preparati!”, disse Smith. Poi aggiunse: “Abbiamo avvertito la tua famiglia”.
“Che m’importa?”, borbottò Ezekiel.
“Se non importa a te...”, disse Smith.
L’omone vestito da guardia alzò con la punta del suo bastone la testa dell’altro uomo legato alla sedia.
“E’ andato!”, disse.
“Vuoi un pastore?”, disse Smith a Ezekiel.
Nessuna risposta. Ezekiel continuò a dormire, forse. Le due guardie uscirono dalla cella chiudendosi la grata alle spalle.
“Credo che non abbia capito!” disse il gorilla.
“Già!...”, disse il capo delle guardie. Il rumore dei loro passi risuonò a lungo nel silenzioso corridoio della morte.
La città era aggomitolata su se stessa. Le ombre della sera avvolgevano la periferia in una nera bambagia carica di pioggia. Per le strade solo qualche vagabondo che trascinava la propria esistenza insignificante. Il quartiere era un dormitorio per una umanità senza attesa e senza speranza. Case fatiscenti, rare fioche luci, nessun rumore di attività.
Le poche finestre debolmente illuminate rivelavano la presenza di un residuo di vita. Una, in particolare, ci interessa perché è legata alla storia che stiamo raccontando. Il chiarore proveniva da una vecchia lampada al centro di una stanza spoglia, al di sopra di un tavolo. In un angolo c’era un lettino rischiarato a intermittenza dalla lampada che ondeggiava a causa del vento che entrava dalla piccola finestra. Alle pareti nessun quadro o gingillo. Sull’unica sedia che si vedeva in giro era seduta una donna, china sulle sue ginocchia, con la testa fra le mani. Si lamentava debolmente. In quella stanza regnava la disperazione oltre che lo squallore.
Poco prima si era fermata una macchina della polizia e avevano comunicato alla donna l’imminente esecuzione del figlio. A mezzanotte sarebbe stata eseguita la condanna a morte. Poche parole burocratiche, senz’anima e senza garbo. Del resto chi era lei, pensava tra sé, per pretendere un briciolo di umanità? Una povera donna, che viveva di stenti in una casa e in un quartiere anonimi. A chi importava la sua famiglia che si limitava a un figlio dichiarato colpevole, che non aveva avuto fortuna nella vita e che stava per essere ammazzato come un cane? L’esclusione e l’emarginazione erano condanne senza appello allo stesso modo della condanna capitale.
La donna si lamentava e non aveva nessuno accanto a sé che potesse condividere il suo dolore. Come era lontana la città, la gente, le istituzioni! Le istituzioni? Esse avevano il volto di un agente, di un carceriere, di un boia. Avevano il sembiante di giudici insensibili e sprezzanti, i modi arroganti di un funzionario dell’ufficio di assistenza. Chi è povero non può aspettarsi considerazione né rispetto, né solidarietà. Non ha altro amico, altro compagno di viaggio che la propria miseria morale e materiale. Ecco, questo pensava la donna.
I suoi lamenti erano una monotona, interminabile litania. Con la testa fra le mani continuava a muovere il busto avanti e indietro in quella stanza vuota, in quel palazzo dove non c’era nessuno ad ascoltarla, o forse si, qualche altro disgraziato chiuso nella propria stamberga che non poteva fare altro che pregare, se sapeva farlo. In chi sperare, dunque, a chi chiedere aiuto, lei era una donna insignificante e ignorante.
Aveva vissuto tutta la vicenda di suo figlio in una specie di stordimento, come un’estranea, quasi che la cosa non la riguardasse. Appariva inconsapevole testimone di quanto le accadeva intorno.
Il difensore d’ufficio che le era stato assegnato non faceva che leggere le proprie carte e quando gli si chiedeva qualcosa ripeteva “Tutto bene, non c’è che da aspettare!” Non aveva altri punti di riferimento, altre conoscenze da cui ricevere almeno una buona parola. Durante il processo era stata pressoché ignorata. Le avevano chiesto le generalità e se fosse la madre dell’imputato. Punto. L’avvocato si era limitato a dirle di non preoccuparsi: “tutto bene, non c’è che da aspettare”, lasciandola in balìa del procuratore che le aveva rivolto delle domande difficili a cui non aveva saputo rispondere.
Aspettare cosa? Avrebbe voluto parlare di quel suo figlio sfortunato, nato per errore, che ci stava poco con la testa, che tutti prendevano in giro per la sua sprovvedutezza. Avrebbe voluto dire “si forse ha sbagliato ma abbiate pietà”. Avrebbe voluto gridare la sua rabbia per la durezza della vita, che non aveva offerto alternative, e per l’atrocità della sentenza. Era stata subito congedata per dare la parola all’uomo dell’accusa, grasso, tronfio, che chiedeva una condanna esemplare per difendere la società.
Il processo si era concluso presto, con il mondo che le crollava addosso, senza alcuno che le tendesse una mano. Ed ora era seduta ad aspettare che si compisse l’opera.
All’improvviso un boato, poi un altro, vennero a squarciare il silenzio doloroso di quella stanza. Il maltempo, che si era annunciato a lungo, finalmente faceva la sua comparsa sulla scena, preceduto da scariche di tuoni e fulmini. Doveva essere stato così quando fu ucciso l’Innocente.
La donna sobbalzò per lo spavento. Non seppe come ma il ricordo di altri botti, in un giorno lontano, le si affacciò alla mente, di quando la sua vita, pur modesta, non faceva ancora presagire le avversità dell’oggi. Il quartiere dove viveva allora era tutto il contrario della desolazione attuale. Via vai di gente, negozi, traffico, rumori. Abitava una casetta pulita e ordinata. Aveva un ragazzo che le faceva compagnia, il quale, nonostante fosse un po’ svagato, era servizievole e le voleva bene. Del padre non sapeva che fine avesse fatto ma, nonostante tutto, riusciva a tirare avanti.
Anche quel giorno due boati la fecero trasalire insinuandole nel cuore un’aspettativa di guai. Si affacciò alla finestra e vide la gente correre in tutte le direzioni. Ebbe il sentore che qualcosa di grave fosse accaduto e scese in strada col pensiero del suo ragazzo che aveva l’abitudine di bighellonare nei paraggi. Guardava di qua e di là e non lo vedeva e le si stringeva il cuore. La gente correva impaurita. Poco lontano, del fumo si levava al di sopra della strada.
Nel trambusto quasi non si avvide di un uomo che sopraggiungeva col vestito lacero e il volto insanguinato. Costui si appoggiò ansimante alla ringhiera della corta scalinata che conduceva all’abitazione. Guardò intensamente la donna.
Lei, abituata ad affrontare senza timore le cose della vita, gli si fece incontro e lo trasse subito in casa per prestargli le prime cure.
“Qui è al sicuro”, disse mentre gli puliva il volto con un panno bagnato. “Stia tranquillo, lasci che l’aiuti”.
L’uomo si lasciò soccorrere, docile e silenzioso.
“Ha una bella ferita”, riprese la donna. “L’ha scampata bella ma si rimetterà presto”.
Il ferito si guardava intorno con circospezione.
“Qui è al sicuro”, ripeté la donna.
“Hanno cercato di uccidermi”, disse l’uomo.
“Non ci sono riusciti, a quanto pare. Adesso stia tranquillo”.
La donna aveva modi spicci e precisi che ispiravano fiducia e l’uomo, che disse di chiamarsi Jack Williams, ben presto si calmò lasciandosi soccorrere senza riserve.
“Può stare qui quanto vuole, aspetti che passi il momento, poi andrà via con comodo. Deve avere delle amicizie cattive! Oh, non voglio sapere nulla. Si vede che lei è un tipo per bene”, disse la donna.
“Ma perché volevano farle del male?”, domandò dopo un momento. La curiosità prendeva il sopravvento mentre svuotava la bacinella dell’acqua nel lavandino.
“Ho pestato i piedi a qualcuno”.
“E’ un uomo di rispetto? E’ un poliziotto?”, chiese la donna continuando ad affaccendarsi attorno alla testa dell’uomo.
“Sono un membro del consiglio della Contea e non mi piacciono molto gli imbrogli”.
“Ah, lei è un uomo politico?”, disse la donna.
“Si”, disse mister Williams. “Non ha un telefono?”
“E’ nell’altra stanza”, la donna disse.
“Mi permetta un paio di telefonate”, disse l’uomo.
La padrona di casa lo accompagnò con lo sguardo e dopo un po’ sentì che chiamava lo Sceriffo e qualcun altro.
Alzando la voce l’uomo disse: “Dove ci troviamo, signora?”
“77, Madison Street”, rispose la donna.
Non erano trascorsi neppure dieci minuti quando una sirena annunciò l’arrivo degli agenti.
L’uomo dal nome Williams disse: “Grazie, signora! Se mai avesse bisogno di aiuto in futuro conti pure su di me”.
“Oh”, rispose la donna e con la mano fece il gesto come per dire “Non c’è di che”.
Quest’episodio accaduto tanti anni prima era stato dimenticato ma i due forti tuoni lo avevano riportato alla mente.
“Conti su di me!”, disse fra sé la donna.
Sapeva che quell’uomo aveva fatto carriera, era diventato addirittura Governatore.
“Conti pure su di me!”. Era lui, pensò la donna, che aveva in mano il destino di suo figlio.
“Conti pure su di me!”, continuava a ripetere ossessivamente.
Che ora era? Le venti e dieci minuti. Se partiva subito poteva arrivare in tempo alla residenza del Governatore che si trovava a diversi isolati di distanza.
Fuori, intanto, era cominciato a piovere. Si buttò addosso un vecchio pastrano ed uscì senza chiudersi la porta alle spalle.
Camminò a lungo attraversando strade deserte della periferia della città. Nessuna possibilità di prendere un taxi, se pure ne passassero in quel quartiere. Una voce rauca le gridò dall’oscurità di un andito: “Ma dove vai con questo tempo?”. Poi più nulla. Incurante dell’acqua che ormai la penetrava fin dentro alle ossa, andò avanti col passo più veloce possibile. E continuava a ripetersi “Conti pure su di me!”. Sentì il rintocco della campana di St. John Church. Dovevano essere le nove. Era ancora in tempo.
Non stiamo a descrivere il lungo percorso che fece la donna tra gli isolati familiari, prima di giungere, come Dio volle, alla residenza del Governatore, un edificio bianco separato dalle altre case. Al balcone la bandiera pesante d’acqua. Alcune finestre erano illuminate. Il cuore le batteva forte per lo sforzo e la tensione.
Suonò il campanello. Una, due volte. Dopo una attesa che le parve interminabile si presentò un impiegato in divisa.
“Voglio parlare al Governatore”, disse la donna.
“Cosa?”
“Voglio parlare al Governatore, è urgente”, disse ancora.
“Ma non si può, non è orario di ufficio”. La donna insistette e allora l’uomo parlò con qualcuno al telefono.
Poco dopo arrivò un altro signore che disse: “Sono Mr. Thompson, il segretario del Governatore. Cosa posso fare per lei, signora?”
“Devo parlare al Governatore, è urgente”, disse la donna completamente fradicia.
“Sua Eccellenza è occupata”, disse il segretario.
“Bene, aspetto che si liberi”, disse la donna.
“Senta, signora, è tutta bagnata, se ne torni a casa e venga domani”, disse il Segretario.
“Che ore sono?”, disse la donna.
“Le dieci e tre quarti. Faccia come le ho detto!”, disse l’uomo.
“Ho bisogno di parlare con lui, personalmente”.
“Chi è lei, cosa vuole?”, il segretario disse.
“Sono la signora Martinez e stanno per ammazzare mio figlio”, disse la donna.
“Chiami la polizia, allora”, disse il segretario.
“Non ha capito, mio figlio è nella prigione della Contea. Sta per essere giustiziato”.
“Ah!”, fece l’uomo.
Seguì una pausa, poi: “Senta signora, il Governatore non è in casa e adesso è tardi. Queste faccende vanno affrontate a tempo. Temo che non ci sia niente da fare!”
“Lo aspetterò. Non posso fare a meno di aspettare”, disse la donna.
Il portone le fu chiuso in faccia e lei andò a piantarsi giusto di fronte. L’acqua scendeva a catinelle ma non ci badava. Doveva aspettare. “Non c’è che da aspettare”, non diceva così ogni volta il difensore d’ufficio?
Mr. Williams, Governatore dello Stato, era nel suo studio privato. Sfogliava le carte, prendeva un libro da leggere, si alzava, si risiedeva, poi si alzava di nuovo e si metteva a camminare a lunghi passi per l’ampia sala. Una strana inquietudine si era impadronita di lui e non sapeva capirne l’origine.
Il lavoro d’ufficio era sempre lo stesso, leggere e firmare carte. Le decisioni importanti le prendeva al mattino assieme ai propri collaboratori. La salute era a posto, il successo era assicurato, anzi nuove più importanti prospettive gli si profilavano all’orizzonte. Ne aveva fatta di strada! Da semplice consigliere a Governatore dello Stato in pochi anni!
Andò alla finestra e osservò la pioggia che cadeva. Forse era questo tempo che gli metteva una certa agitazione addosso. Tornò a passeggiare per la stanza, ritornò alla finestra. Appoggiò la fronte per osservare meglio la piazza. I lampioni mandavano una luce fioca che si disperdeva nelle fitte gocce d’acqua. Non c’era anima viva in giro. Anzi no, una persona era ferma, incurante dell’acqua. Ce ne sono di matti in giro, pensò il Governatore.
Ricominciò ad andare avanti e indietro. Prese un altro libro dallo scaffale, lo sfogliò distrattamente e lo rimise al suo posto. Tornò alla finestra. Quella figura era sempre lì, immobile come i lampioni, avvolta nel suo soprabito e con la faccia rivolta proprio verso la finestra del suo studio.
“Ma che fa? Chi aspetta?”, mormorò l’uomo politico.
La sua curiosità andò aumentando e non faceva che appoggiare la fronte al vetro umido per vedere se quella persona si decidesse ad andarsene.
Niente, non si muoveva. La pioggia cadeva intensa e regolare. Suonò il campanello e dopo pochi istanti entrò il suo segretario.
“Venga a vedere, Mr. Thompson. Osservi, c’è una persona immobile sotto l’acqua che guarda verso questa finestra”.
Il segretario poggiò anche lui la fronte sul vetro e disse: “Ma è quella donna che ha chiesto di vederla”.
“Cosa?”, disse il Governatore.
“Ha detto di essere la madre del condannato che sarà messo a morte a mezzanotte. Voleva parlare con lei”
“Ma perché non mi ha avvertito?”, disse il Governatore.
“Non volevo disturbarla per così poco”, disse il segretario.
“La faccia chiamare, Mr. Thompson”, ordinò il Governatore, il quale era sempre disponibile ad ascoltare, a consigliare, ad aiutare. Per questo era ben voluto dalla gente, soprattutto la più umile.
La donna fu ammessa in udienza. L’acqua di cui erano intrisi i suoi abiti produsse una larga macchia sul tappeto. Le si portò una bevanda calda che non toccò neppure. Fu fatta accomodare su una sedia evitando di offrirle una poltrona.
“Ebbene, cosa l’ha spinta a venire qui in una serata come questa?”, disse il Governatore nel modo più gentile possibile.
“Sono la signora Martinez e mio figlio sarà giustiziato a mezzanotte”, disse la donna.
“E lei viene a sollecitare la grazia, evidentemente...”, disse il Governatore.
“Si”, disse la donna.
“Non è una cosa così semplice. Anche un Governatore si deve attenere a delle procedure, deve tener conto di tante cose, soprattutto del giudizio della Corte...”
“Il giudizio della Corte? Hanno condannato mio figlio perché è un povero Cristo, difeso da un avvocato d’ufficio visto che non ci possiamo permettere un vero difensore, perché è troppo facile prendersela con uno che non sa aprire bocca e la cui condanna non fa specie a nessuno”, disse la donna tutto d’un fiato.
“Sa quante giustificazioni si inventano i condannati, cara signora? Non si può star dietro a tutte le loro spiegazioni”, disse Mr. Williams, Governatore dello Stato. Ad ogni buon conto si fece portare il fascicolo relativo al condannato.
“Beva, le farà bene”, disse mentre si appartava col suo segretario.
“Lei che ne pensa” disse il Governatore che consultava sempre i suoi collaboratori prima di prendere una decisione.
“Non so, il processo è stato regolare ma molti hanno storto il naso per questa condanna. Alcuni vedono nella decisione della corte un’occasione per infierire sulle classi subalterne. Il partito di opposizione cavalca il dissenso. I giornali parlano di superficialità nelle indagini e di verdetto sproporzionato. Se vuole sapere il mio parere, dal dibattimento non sono venute fuori prove certe. Ma sa, queste sono solo opinioni personali”, disse il segretario.
“Che ore sono?”, domandò il Governatore.
“Le undici e trenta”, disse il segretario.
Il Governatore si avvicinò alla donna che tremava e aveva l’aspetto di un uccellino implume. Le si sedette accanto. Era il suo modo di fare soprattutto con le persone più umili. Il tè era ormai freddo.
Fu lei a parlare per prima. A spiegare chi era, quali sacrifici aveva fatto per crescere quel suo figlio da sola, contro pregiudizi e discriminazioni, come la sua famiglia era povera ma onesta. E come si era decisa a venire fin lì perché si era ricordata di una promessa di aiuto di tanti anni prima.
“Non ricorda? Mi disse che potevo rivolgermi a lei in caso di necessità. Non l’ho mai fatto, e Dio sa se ne avevo bisogno. Ma ora è diverso, stanno per ammazzare mio figlio...”
“Non capisco”, disse il Governatore.
“Fui io a soccorrerla in casa mia quando ci fu l’attentato, ricorda?, disse la donna.
“Oh Dio!”, esclamò il Governatore e con la mente riandò a quel giorno che avevano cercato di eliminarlo e una donna lo aveva condotto in casa sua e lo aveva curato.
“Che situazione!”, disse ancora.
Calò il silenzio. Dopo aver meditato alquanto si rivolse di nuovo al segretario: “Provveda subito a mettermi in contatto con la famiglia dell’ucciso”.
All’altro capo del telefono una voce disse: “Sono la domestica. La signora è in chiesa per una veglia di preghiera. In casa non c’è nessun altro”.
“Quale chiesa?”, domandò il segretario.
“St. John Church, signore”.
Il pendolo sul camino segnava le undici e tre quarti.
La telefonata alla St John Church fu piuttosto complicata. Si dovette spiegare al pastore la necessità e l’urgenza di chiamare la signora Bennett all’apparecchio.
Finalmente la signora Bennett disse “pronto”.
“Sono il Governatore, signora. Mi scusi se l’ho disturbata ma è una questione della massima importanza”, disse il Governatore.
“L’ascolto”, disse la donna.
“Lei sa che fra qualche minuto avverrà l’esecuzione dell’assassino di suo figlio o almeno di quello che è stato giudicato come tale. A me spetta prendere una grave decisione, dar luogo alla condanna o concedere la grazia, ma prima vorrei sapere quali sarebbero i suoi sentimenti nell’uno e nell’altro caso”, disse il Governatore la cui voce tradiva l’agitazione.
“Signor Governatore, so bene che la legge dello Stato prevede l’estrema condanna in questi casi. Tuttavia sappia che noi siamo qui per partecipare a una veglia di preghiera per il condannato. Il nostro senso religioso non ci consente di nutrire sentimenti di vendetta e... speriamo in un miracolo”, disse la signora.
“Grazie, l’ammiro molto, signora Bennett Mi perdoni se non aggiungo altro”, disse il Governatore, evidentemente commosso.
“La prigione, presto”, disse al segretario.
Due minuti alla mezzanotte. Strinse tra le sue le mani della signora Martinez poi finalmente la prigione fu in linea.
“Sono il Governatore. Sospendete l’esecuzione. Ripeto, sospendete l’esecuzione”.
“Signor Governatore, il condannato è spirato due minuti fa. Non ha sofferto”.
“Ma come, non è ancora mezzanotte”, esclamò il Governatore.
“Mi scusi, signore, la mezzanotte è passata da tre minuti esatti”, disse la voce all’altro capo del filo. “Il nostro orologio è molto preciso”, aggiunse.
Il Governatore rimase col telefono alzato, fissando il pendolo sul camino. Mezzanotte!
Trascinandosi come se avesse una montagna addosso si avvicinò alla signora Martinez, le si sedette accanto e le prese ancora una volta le mani tra le sue. Era il suo modo di fare, soprattutto con la povera gente. La signora era in uno stato pietoso. Non si lamentava più. Si dondolava appena sulla sedia e ogni tanto tremava dal freddo.
Finalmente il Governatore disse: “Suo figlio era un ragazzo sfortunato”.
“Perché ‘era’?”, disse la signora Martinez fissando un punto lontano davanti a sé.